Vito
Teti è un uomo da sempre impegnato ad affinare - con non poca tribolazione- la difficile arte
della “restanza”, suggestivo neologismo da lui coniato nel suo recente
saggio-racconto Pietre di pane (Un’ antropologia del restare),
Quodlibet, Macerata 2011, dove appunto ci spiega che rimanere in paese ”…
non è stata, per tanti, una scorciatoia,
un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è stata un’avventura, un
atto di incoscienza , forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi,
ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione,
un esercizio che mette in crisi le retoriche dell’identità locali. Restare è
una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo”.
Mi
piace l’antropologia narrata - se cosi è permesso dire- da tempo messa in atto, con passione e competenza, dal
Prof. Teti e dai suoi collaboratori
presso l’Unical, particolarmente nell’ambito delle pregevoli iniziative del
Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo diretto dal medesimo
Teti.
Un
linguaggio che si oppone a qualsiasi manierismo linguistico, in particolar modo
a quello accademico tout court, volutamente tronfio a dismisura.
Un
linguaggio che narra dal di dentro la materia viva delle proprie indagini demo-etno-antropologiche.
Ricerche
effettuate sul campo, tra la gente,
incontrando il territorio, la sua storia passata e
quella recente.
Ma,
in questa sede, intendo ribadire un’altra mia convinzione, ovvero che Vito
Teti, antropologo di professione, si commuove e scrive come un poeta, scandaglia i luoghi
della memoria con la stessa ansietà di chi crede nella forza dei versi.
La
sua scrittura, infatti, cede alla commozione, diventa lirica all’occorrenza, si
trasforma in melanconia creativa quando sorvola paesaggi lunari, deserti
dell’anima, paesi abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio
dei poveri, degli emigranti, di chi ha dovuto lasciare per sempre un mondo
conchiuso, con le sue storie, le sue radici, i suoi sogni, per reinventare
altrove quanto lasciato in paese.
Non
mi aspettavo la comparsa, almeno per
ora, di un’opera come Maledetto
Sud.
Ciò perché , specialmente negli ultimi tempi,
Teti non si è per nulla risparmiato, lavorando alacremente sia in ambito
accademico che scientifico. E dunque quest’ultima sua fatica risulta un’
inaspettata quanto gradita sorpresa, nonché un ulteriore atto d’amore
verso la nostra terra.
Spesso
si scrive nella mente, qui si elaborano idee, si appuntano annotazioni ritenute
importanti, per poi, all’occorrenza, trasformare il tutto in scrittura.
Così
è stato per Teti -specialmente
nell’ultimo decennio- che ha accantonato
forme e contenuti di quanto ora invece ci propone con questa sua ultima fatica
oggetto di numerose e belle recensioni su giornali nazionali e non.
Ma
torniamo al linguaggio di Maledetto Sud
che – se ben analizzato- rivela lo
sforzo dell’autore nell’edificare un particolare modulo stilistico; ora
discorsivo, quasi colloquiale, per poi ritornare ad una semantica
necessariamente saggistica, stante, appunto, che non parliamo né di un romanzo
né di un racconto.
E’
il linguaggio di chi parla dal di dentro, di chi ben conosce la materia di cui
scrive.
Dal
di dentro vuol dire non sfuggire né ai meriti né ai demeriti appartenenti al
nostro meridione, significa produrre, esprimere
non mere analisi assolutorie ma
anche e soprattutto coraggiose
assunzioni di responsabilità .
Amore
e indignazione (odio non è un vocabolo che si addice a Teti) sono sentimenti
necessariamente insiti in chi conosce pregi e difetti del proprio mondo
d’origine.
Vi
è pure la gelosia che altri maltrattino,
spesso con cinismo e insipienza, la storia antropologica del nostro Sud,
che lo maledicano in eterno, in assenza
di una buona difesa che ne ostacoli pregiudizi ed ataviche avversioni.
In
alcune pagine, Teti sembra ridare voce
particolarmente a scrittori del calibro di
Corrado Alvaro, Saverio Strati , Francesco Perri, Mario la Cava dai lui
amati e studiati con passione quasi viscerale.
E’
bello, pur nella sua amarezza di fondo, ricordare a mo’ di esempio le parole del protagonista
di Noi
Lazzaroni, romanzo di Saverio Strati( Mondadori, 1972) che, passeggiando
per le linde calabrese, si diceva : “Vai
o non vai al Sud, il Sud ti è dentro come una maledizione “.
In
altre pagine, invece, sembra riecheggiare un’annotazione- amara quanto
veritiera- di Corrado Alvaro sul nostro mondo :” Dei Greci, i meridionali
hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita
che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni,
si fa l'accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono,
è così bello!”.
Pertanto, è bene non accostarsi a Maledetto Sud con propensioni consolatorie, ricercando soluzioni
facili agli eterni bisogni del meridione d’Italia.
A
Teti, infatti, non poteva sfuggire il fatto che con le antiche retoriche non si progredisce, che ormai non bastano più le solite
argomentazioni storiche (La proverbiale “Magna Grecia”, la “Malaunità” e
conseguente ”Questione Meridionale, la” ndrangheta” e tutto il resto), per
giustificare la nostra inerzia, il nostro atavico fatalismo.
Oggi, purtroppo, dobbiamo
amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la
bellezza del Sud non sempre trovano risposte/proposte convinte e concrete
presso i nuovi ceti sociali e politici, incapaci di diventare classe dirigente
desiderosa di liberare, davvero e per sempre, questo luogo.
Servono
buona volontà e soprattutto onestà intellettuale, perché l’oggetto del
contendere ha una sua storia particolare che, però, non ne deve compromettere a
mo’ di alibi tutte le possibilità di riscatto scartate o rifiutate a priori sia
dalla classe politica meridionale (ne abbiamo mai avuto una?) che dalla maggioranza del popolo meridionale ostinatamente soggiogato dalle solite false
promesse che hanno compromesso la nostra
storia passata e recente.
Dobbiamo
fare severa autocritica, invece, spazzare per sempre la nostra attuale (non che
in passato le cose stessero meglio) classe politica che, più dei pregiudizi del
Nord, contribuisce al nostro attuale degrado socio-economico.
Bisogna
smetterla di frignare, di delegare alla malasorte i nostri problemi
(veri, reali, concreti, per carità!). Non siamo stati predestinati a vivere
nell’arretratezza e nell’indigenza.
Fissiamocelo bene in testa una volta per tutte, questo
intende trasmetterci con il suo prezioso
lavoro l’amico Vito Teti, amico non solo mio, naturalmente, ma anche e
soprattutto del suo/nostro Maledetto Sud.
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