martedì 15 aprile 2014

Il sole e il sangue”, volume di racconti di Domenico Talia (InAspromonte, aprile 2017, p.23).


                              Vincenzo Stranieri


Il sole e il sangue di Domenico Talia  (Ed. Ensembel, Roma, 2014), volume composto da 17 brevi racconti per un totale di 153 pagine, è una gradita sorpresa.  L’autore, nativo di S.Agata del Bianco, è ordinario di Ingegneria informatica all’Università della Calabria,  ha pubblicato nel 2004 una raccolta dedicata al viaggio (Itinerari stranieri).
Il bello dei racconti è che puoi cominciare da dove desideri.
Leggo per primo Treno Ionico,  che inizia con un “Finalmente il treno arrivò.  Lui salì”.  Credo che il  vero filo conduttore del libro di Domenico Talia  stia proprio in questa breve locuzione. 
Quando il protagonista di Treno Ionico sale sul treno  non ha ancora maturato la consapevolezza che il corso dell’esistenza è un andirivieni tra il prima e il dopo. Tra quelli che siamo stati e quelli che siamo diventati. 
E’ forse il più bello, intenso racconto di Talia. 
Anche perché l’autore si denuda in profondità, non nasconde  le sue emozioni, il suo stupore. "Era partito da una stazione che aveva ormai quasi dimenticato, come se avesse fatto parte di un’altra storia, di un’altra vita. Aveva dimenticato il mare, i monti, il treno, quei rumori, quegli odori, quei paesaggi. Aveva dimenticato quel diverso modo di sentire il tempo, quella sensazione di essere parte, noi stessi, di un qualcosa di più grande e di ignoto", p.32. 
 L’umanità, infatti, vive  di stanzialità, di movimento perenne. E’ il frutto di questa insita necessità antropologica. Viaggi veri, dettati da motivi diversi, viaggi mentali che scaturiscono dalla necessità di sfuggire a collocazioni statiche in grado di renderci miopi e ripetitivi.
Ma avviene che anche quando pensiamo di essere fermi nel luogo  in cui viviamo, continuiamo a muoverci verso qualcosa o qualcuno. 
In letteratura,  la fantasia si chiama creatività,  rielaborazione delle speranze vissute, cercate,  annotate nel corso di questi viaggi che - è bene dirlo- non sono né semplici né facili. Anzi.  Si può rimanere fortemente disorientati,  travolti. Talia apprende che il ritorno è doloroso, ma anche costruttivo, ricco di sollecitazioni positive. 
In altri racconti (Granelli di sabbia rosso sangue, In tre ore in un altro mondo, a esempio) viene espressa profonda amarezza per la difficile situazione socio-economica vissuta/subita   dalla nostra terra (la Calabria),  un mondo  preda del  malaffare politico-mafioso, ed anche di tanta indifferenza.
In Due suore e due ragazze viene narrata la storia di quattro donne che intendono migliorare le condizioni sociali di un piccolo paese del Sud. Il loro impegno fa paura a quanti sono impegnati a mantenere lo status quo. La conseguente reazione è quella di sminuzzare le gomme della vecchia Panda delle suore. 
Ma il racconto, oltre alla presa d’atto di quanto accaduto, mette in rilievo che laicità e religiosità debbono, lasciando da parte le convinzioni di fondo che pure le animano, allearsi contro il male.   
Sono questi i racconti in cui maggiormente si rivela l’assunzione di responsabilità etica dell’autore, che non può e non vuole rifugiarsi nel racconto/reportage.
Il testo, infatti, è  collocato su due piani diversi ma non contrapposti: lo sguardo dell’autore su quanto ha davanti agli occhi, le amare riflessioni  sul tempo che passa, le cose mutate, il degrado, ma anche la speranza, il profondo desiderio di vivere pienamente. 
 E’ un linguaggio leggero, volutamente asciutto ed essenziale. Le vicende vengono enunciate  con periodi  brevi, secchi,  e ciò anche quando vengono descritti avvenimenti tragici (omicidi, vessazioni di stampo malavitoso, etc.). 
I 17 racconti in questione, pur prendendo spunto da vicende vissute o apprese da fonti diverse  (orali,  soprattutto), hanno il pregio di ampliare lo sguardo anche sulle contraddizioni  del cosiddetto mondo globalizzato (Nella campagna assolata). 
Penso, però, che il meglio l’autore lo dia soprattutto nelle numerose pagine in cui rivela il suo modo di essere, quando getta lo sguardo sulle azioni di uomini e cose che ben conosce, quando ne diviene un credibile  portavoce.
Come dicevamo, al sole caldo  e ristoratore della nostra bella Calabria si contrappone il sangue,  l’assurdo desiderio di autodistruzione che anima  quanti inneggiano alla violenza.
L’invito di Domenico Talia, fermo quanto accorato,   è quello di  scegliere  la luce del sole al posto dell’orrido sangue.     




sabato 12 aprile 2014

Vincenzo Stranieri (Addio a Saverio Strati….. “l’Ora della Calabria”, sabato 12 aprile 2013, pp. 1, 35)



Saverio Strati è  senza alcun dubbio tra i più grandi scrittori italiani del Novecento. Essere nati in Calabria, serbarla nel cuore, amarla, tradurla in letteratura non vuol dire necessariamente essere solo calabresi. E’ vero che l’humus antropologico è quello in cui si nasce, ma è pure vero che quando uno scrittore è tradotto in diverse lingue, appassiona lettori di mezza Europa, allora vuol dire che ci si trova di fronte a valori universali. Strati, assieme a pochi altri grandi scrittori italiani (Calvino, Sciascia e qualcun’altro che mi sfugge) è presente anche nelle antologie americane. La provincia è una forma mentale e non un ambito geografico.
Strati nel narrare il nostro meridione narra il mondo.  Bisogna non cadere nei regionalismi tantomeno nei provincialismi. O si è scrittori universali o non si è niente. Nato in Calabria va bene, è la definizione, statica quanto auto lesiva, di scrittore calabrese che genera ambiguità e confusione. Questo, naturalmente, vale per qualsiasi artista che opera sul pianeta terra. Scrittore vero è chi ha un mondo da raccontare. E Strati  lo ha, eccome. Nel momento in cui  i suoi libri incontrano il lettore  la sua scrittura si spoglia dei connotati originari e dona ai suoi interlocutori le forme di un’umanità ricca di storia e di valori. Il  problema è il modulo stilistico, la struttura linguistica che ogni scrittore utilizza per non cadere nella trappola del già  detto e del già scritto. Strati è unico nel suo genere. Inventa (meglio costruisce) un linguaggio nuovo, tutto suo, e lo dà in prestito alla sua gente, ne diviene   voce narrante. Difatti, da semplice apprendista-muratore  diviene “glossa” della sua gente, cantore del bene e del male del Meridione, non facendo sconti a nessuno, soprattutto  a se stesso. Siamo tutti debitori di questo grande artista, mai domo, perennemente impegnato a  narrare la storia antropologica del nostro “maledetto sud”.“ Io l’amo profondamente la mia Calabria, ho dentro di me il suo silenzio, la sua solitudine tragica e solenne. Sento che pure qualcosa dovrà venire fuori di lì: un giorno o l’altro dovrà ritrovare dentro d sé ancora quelle tracce che conserva dell’antica civiltà della Magna Grecia”. Narrava dal di dentro, dicevano, il suo stile cesellava come pochi le forme della civiltà contadina, ne delineava le fattezze più remote, ne sollecitava la  vera conoscenza. Grande e appassionato era il suo amore per i poveri, i diseredati al punto da estremizzare al massimo il suo linguaggio, il suo stile iper-realista. La sua mente conservava una sterminata galassia  di personaggi: le vicende familiari, gli esiti di una semina, i tomoli di grano prodotti, le cattive annate dovute alla siccità o a  qualche improvvida alluvione.  Un amore viscerale profondo, quasi una ossessione implacabile. In quasi tutti i suoi romanzi, però, egli non poteva non denunciare il nostro cattivo modo di essere, la nostra cattiva voglia di migliorare le sorti socio-economiche della nostra terra. Sono “arrabbiature” sincere, non volevano accusare nessuno, intendevano spronare chi era immerso nel fatalismo, quanti non volevano/vogliono lottare contro lo status quo. Mentre il mondo cambia, si evolve, il meridione appare pietrificato. Mentre in altri lidi è giunta la primavera, nel Sud regna un inverno fitto, un modello sociale che intende perpetrare le antiche regole. Non è stato uno scrittore sfortunato, però. In quegli anni (anni’50-’60) il cinema era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a quella cineasta. Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e in numero notevole. Poi, però, Mondadori, la casa editrice che  aveva pubblicato la maggior parte delle sue opere, gli chiuse la porta.  Strati, conseguentemente,  va in crisi, comprende che il mondo di cui è stato testimone non riesce a trovare una collazione ottimale presso il vasto pubblico, nemmeno in quello calabrese. Si sente solo, abbandonato. Egli merita gratitudine e rispetto, perché- tra l’altro-  ha saputo dare dignità e fisionomia ad un mondo che, altrimenti, la cultura ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore delle ipotesi, trasformato  in mero folclore.­­­­­ La speranza è che il suo impegno non venga dimenticato, che le sue opere trovino giusta collocazione nelle scuole e nelle università. Me lo auguro tanto. Ma il  pessimismo, specie in una regione come la nostra, è più che mai d’obbligo.