domenica 11 aprile 2021

GIOACCHINO CRIACO, L’ULTIMO DRAGO D’APROMONTE (Rizzoli, Milano, 2020)

 

Dopo il romanzo d'esordio “Anime nere” (Rubbettino, Soveria Mannelli 2008) in tanti si aspettavano una battuta d'arresto del giovane autore di Africo Nuovo, questo perché i pregiudizi viaggiano veloci e senza ritegno. Tuttavia Gioacchino Criaco non si è fatto intimorire dai ghigni sardonici di quanti giudicano senza leggere, animati da gelosie e rancori capaci di costruzioni malevoli col solo fine di togliere spazio e valore a un artista che, invece, con caparbietà e intelligenza continua a percorrere il solco della cultura nazionale e non (alcuni suoi romanzi sono tradotti all'estero). Detto questo, ho voglia di parlare del suo ultimo romanzo “L’ultimo drago d’Aspromonte”, Rizzoli, Milano 2020, adornato dalle pregevoli tavole/disegni di Vincenzo Filosa. L'ho letto a più riprese, mi è piaciuto da subito, quasi ad ogni pagina dicevo a me stesso che di strada ne aveva fatto lo scrittore di “Anime nere”, una strada senz’altro accidentata, perché la scrittura è capace di trabocchetti che possono sortire anche pesanti sconfitte. Egli, a mio modesto parere, sin dal suo esordio, si è posto un compito, non facile, ma che sta perseguendo con tenacia, ovvero delineare il vero volto umano-culturale del suo/nostro mondo nel tentativo di evidenziare non solo le ombre ma anche e soprattutto le luci. Lui stesso si porta addosso antiche stimmate, soffre ancora per le gravi contraddizioni che hanno animato per decenni le “anime nere” nascoste nei fitti boschi dell'amato Aspromonte, e tuttavia sembra dire loro in ogni suo scritto, che è necessario fermarsi, che la vita è breve e che bisogna assaporarne la parte migliore. Ma tornando alla struttura stilistica di questo suo ultimo romanzo, va subito detto che esso segna una maturazione rilevante rispetto al resto delle opere precedenti e questo perché Criaco ha saputo non ripetersi. Non mi aspettavo un romanzo così bello, non mi aspettavo una scrittura così robusta e al tempo stesso leggera, quasi eterea.
La figura del giovane trasferito quasi con forza in una comunità dell'Aspromonte per disintossicarsi dalla droga è solo un pretesto simbolico, una potente allegoria per portare alla luce le ansie dello scrittore, le sue interne lacerazioni culturali che trovano piena esplicazione in una necessaria sospensione spazio-temporale utile per portare alla luce le sue ferite interiori. E questo perché in questo generoso romanzo il protagonista è sempre Criaco, ogni personaggio lo rispecchia in pieno, gli ricorda vecchie questioni, ma non rancori, Non è tempo di rancori /vendette, Il giovane infatti, vivendo a stretto contatto con la natura e gli animali, sta, se pur lentamente, divenendo un strano eremita : beve molto vino, mangia senza mai saziarsi , parla con gli ortaggi del piccolo orto, ma è pur sempre inquieto e insoddisfatto e affida alla natura, appunto, la sua agognata risurrezione. Quest'ultima si è rivelata una marcia purificatoria per i boschi, e questo soprattutto di notte, allorquando il popolo dei boschi parla, sussurra, ricorda al giovane antiche profezie, sogni rimasti incompiuti. Un viaggio dentro le ombre notturne, i misteri che animano la sua giovane vita . Egli ha così modo di apprendere uno strano linguaggio: la parola appartiene anche alle piante, che nel mentre parlano invitano il giovane a compiere fino alla fine il suo cammino verso saperi antichi ma ancora capaci di forza e magia creativa. In queste pagine il romanzo cresce di vigore e progettualità (allegorie sospese tra sogno e magia), ci fa apprendere l'esistenza di un mondo divenuto luogo di fantasmi stanchi di nascondersi nei boschi di un monte aspro, solitario, sospeso tra vallate fiorenti e radure senza vita, prive di uomini e anche animali. Ma anche i rovi, i muri a secco, gli ovili dismessi nascondono tesori perduti, verità che non desiderano essere sotterrati nella nuda terra. E quindi il viaggio purificatorio del giovane (di Criaco) deve per forza avvenire nei boschi, dentro le terre arse dal sole dove un tempo i pastori portavano orgogliosamente al pascolo le loro greggi. Ed è un proprio un vecchio pastore (saggio e ricco di buon senso) che rivela al giovane la nascosta verità inerente il suo luogo d'origine, soprattutto le menzogne a lui taciute dai suoi familiari (da alcuni vecchi giornali custoditi dal vecchio il giovane scopre la natura criminale dei suoi, la loro appartenenza alla ndrangheta). “In questa montagna, ci sono solo peccatori” (pag.163), qui nascono e crescono peccati che vanno espiati. Pure il porco/sindaco è un animale corrotto, che cura i suoi interessi, che ingrassa quando non è tempo di uccidere i maiali e dimagrisce volutamente (lo si risparmia perché denutrito) proprio nel periodo in cui i maiali diventano carne per l'intera annata. Qui Criaco insiste con maestria sulla leva allegorica che sorregge l'intero romanzo; gli animali assomigliano alle persone, infatti…”mi mostrano il rifugio dei peccatori" (p.171). Il finale rimanda a: 1) Lo scrittore fa ritorno alle origini, quelle vere, le stesse che ancora custodiscono le forme, la memoria antropologica di quanti dalla montagna sono stati deportati verso il mare. E la fama di questo popolo, alimentata da pregiudizi e faciloneria, ha prodotto nelle anime sensibili volontà di riscatto e profondo desiderio di costruirsi altro rispetto ai facili luoghi comuni; 2) Il drago che dà il titolo al romanzo, e che generalmente rappresenta le forme magiche, ancestrali che regolano la vita e i profondi misteri dell'Universo, nell’opera diviene sia fustigatore (specie a livello onirico) dei peccati commessi da quanti avidamente hanno remato verso approdi sbagliati, sia fedele custode delle fattezze antiche, primordiali, di un Aspromonte che non vuole essere invaso da quanti non ne comprendono la storia e la bellezza. Utopia? Sterile sogno? Non credo, il romanzo di Criaco è quanto mai realistico: metafore e allegorie sottendono sempre e comunque alla necessità di proteggere e valorizzare antropologicamente ciò che in apparenza appare perduto, sollecitano un impegno verso un cammino non necessariamente assolutorio rispetto a responsabilità che da individuali sono divenute quasi collettive. E’ il sogno, questo sì, di una rinascita che sempre e comunque celebri senza retorica le fattezze culturali e storiche del mitico Aspromonte. Ciò non rappresenta un limite, non circoscrive l’opera in un preciso ambito geografico, perché in ogni luogo della terra vi è un Aspromonte da conoscere, interrogare e, soprattutto, da proteggere.

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