giovedì 17 dicembre 2020

IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI

 IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI

Terza intervista di Leopoldo Ardino a Enzo Stranieri*
Buongiorno Prof., siamo giunti alla nostra terza intervista. So che lei conosce profondamente l’opera di Saverio Strati. Pertanto, sono curioso di sentirmi dire delle cose nuove, non le solite rimasticature rintracciabili in una qualsiasi antologia scolastica e non.. Cominciamo.
D:; J. Conrad scrive nel 1897 al suo amico Robert Bontin Cunninghame Graham: «Si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore».
R.: Come lettore di Saverio Strati, lo sono a partire dagli anni’70, devo confessarvi che in più d’una occasione interrompevo la lettura dei suoi libri per cercare di capire i motivi di fondo che stavano dietro la sua scrittura, in particolare riflettevo sulla sua complessa formazione letteraria. Ho sempre immaginato l’ambiente creativo di un artista come un laboratorio denso di alambicchi utilizzati per distillare -diciamo così- i nobili processi di quanti impegnati nella creazione delle diverse forme d’arte.
D. ; Ma quale laboratorio immaginare per Saverio Strati? Quali e quanti sono stati gli alambicchi del suo studio creativo?
R.; Va da sé che per scrivere bisogna possedere i rudimenti della propria lingua. Nel caso di Strati era vitale saper pensare e scrivere in lingua italiana. Sembrerebbe un’ impresa ardua, stante ch’era stato obbligato dalla famiglia a lasciare gli studi dopo il conseguimento della quinta elementare. Difatti, fino ai 21 anni conosce solo il dialetto, non sa, non può pensare in italiano. Pertanto, non è difficile immaginarlo sfiduciato di fronte alla pagina bianca, ancora immerso negli studi allo scopo di recuperare quello che per decenni gli era stato tolto in termini di conoscenza. La sua frustrazione è grande, perché nel suo animo, seppure a livello embrionale, sta crescendo lo scrittore che narrerà con maestria e coraggio le gesta del popolo meridionale.
D.; Fa una certa impressione la capacità di Strati di contenere nella mente una nutrita galassia di personaggi utili alla sua letteratura verista.
R.; E’ vero, la sua mente diviene un importante quaderno di appunti, nel quale annota, memorizza i tratti salienti della sua esperienza di operaio che, poi, utilizzerà come materia fondante della sua narrativa. . “.. Per venticinque anni – scrive STRATI- non mi sono mai mosso dalla Calabria e fino a ventuno ho lavorato. Ho parlato il dialetto, sono stato SEMIANALFABETA come tutti perché allora si doveva badare soltanto a imparare il proprio mestiere: sono stato interamente coinvolto nel mondo ho vissuto in mezzo a operai, muratori , artigiani ne ho assorbito la cultura e la LINGUA…”
D.; Ma cosa ha significato parlare fino ai 21 anni la sola lingua dialettale?
R.; Di certo un grosso limite, perché qualsiasi lingua s’impara presto e meglio da piccoli. Ma al nostro futuro scrittore non è stato consentito questo privilegio. Tuttavia , nonostante i limiti linguistici, nel suo cuore ardeva il fuoco della conoscenza. “ A giorni, come egli confida in sua breve biografia-, lo ricordo bene, ero veramente contento del lavoro che compivo (muratore), ma la mia passione segreta era di leggere, di studiare. Quando mi capitava qualche libro (anche i libri erano rarissimi nel recente passato in un ambiente contadino tagliato fuori dalla vita nazionale), lo leggevo con grande passione. Infatti lessi le opere della cosiddetta cultura popolare: Il Guerrino detto il Meschino; I paladini di Francia, I Reali di Francia, il Quo Vadis, I romanzi di A. Dumas, I miserabili di Hugo, che per noi lavoratori era il libro dei libri,, perché ricco di idee, di stimoli, di giustizia “sociale”.
D.; E comunque la fatica di STRATI per conquistare la lingua italiana è stato uno sforzo intellettuale denso di grandi sacrifici.
R.; Scrive lo stesso scrittore. “…se amavo proprio studiare, potevo diplomarmi alle magistrali ed essere così, dopo cinque- sei anni, insegnante elementare, Ripresi, con grande gioia ed entusiasmo, la scuola interrotta a undici anni. Dovetti naturalmente partire da zero, dato che avevo dimenticato tutto; cioè non sapevo scrivere senza fare anche tre sbagli in una parola…”. Strati non è un POETA, non può esserlo, c’è poco di ROMANTICO, di bucolico nella sua esperienza di vita. Ma non traduce dal dialetto, che conosce molto bene; sarebbe stato un suicidio letterario tradurre il dialetto in lingua italiana: uno scimmiottamento inutile. Utilizza, questo sì, alcuni termini dialettali, ma solo in alcuni dialoghi dove trovano spazio invettive quasi sempre urlate (Il visionario e il ciabattino. Il Diavolaro, La Teda).
D.; Introduce, però, I PROVERBI, già presenti nell’opera di Verga.
R.; Vero, compito principale dei proverbi è lasciare tracce rilevanti del mondo che lo scrittore ha inteso difendere e rappresentare. .“La pietra che non sta ferma se la porta l’acqua”. (In Il pastore maledetto”, p. 248; “Vai con i migliori di te e fagli le spese”. (Dialogo tra contadini, in La Marchesina, p.156). “Quando il ricco vende e il povero compra, il diavolo ride”. (Dialogo tra contadini, in La Marchesina, p.156).Lo fa, come in parte anticipato, con oculatezza, li posiziona al posto giusto, specie quando le vicende narrate prendono pieghe rivelatrici del CARATTERE dei personaggi. Il saggio di turno proietta la sua immagine quasi sempre a fine dialogo, si materializza per dare conclusione a un rapporto dialettico espressosi in mimiche facciali, ghigni, sorrisi maliziosi, battute sardoniche che rivelano una profonda teatralità. I PROVERBI non solo come elemento letterario, quindi, ma anche e soprattutto come cultura di un popolo , testimoni di valori secolari. Difatti, a ben riflettere, il proverbio chiude, sigilla un dialogo, ne stabilisce la valenza finale. E questo perché l’antica saggezza popolare resiste al tempo, sfugge a qualsiasi classificazione di merito.
D.; Cosicché qual è il rapporto di STRATI E LA LINGUA?
R.; Strati sa che il suo popolo, le masse -volendo essere solo per un attimo gramsciani- non possiedono una loro precipua lingua. E che, purtroppo, nessun popolo è in grado di costruirsela da sola. E’ pura realtà storica quella narrata da Strati, che conosce dal di dentro, che conserva nell’animo come prezioso lascito testamentario. Personaggi che, uniti a particolari vicende del mondo contadino, hanno dato forma e sostanza alla sua arte creativa. Egli sa che un idioma provinciale non può aspirare a lingua nazionale. Pur tuttavia può trovare espressione in un linguaggio che non scada nei localismi e che compia un viaggio purificatore -diciamo così- per mezzo dell’azione culturale di un suo straordinario rappresentante, lo stesso che, fino a 21 anni, aveva sudato assieme a loro, impastando calce e costruendo case. E’ lui, SAVERIO STRATI, la lingua del suo popolo, non lascia che altri trasformino la sua terra in sterile folclore, in una volgare imitazione del dolore, in un’azione corale di lamento per le amare vicissitudini che hanno intrappolato la vita del popolo meridionale: sottomesso al potere di turno, pietrificato dalla fatica dinanzi a signorotti gonfi di un parassitismo umano-culturale ai limiti della stupidità più atavica, incapaci com’erano di apportare migliorie ai loro fondi. Piccoli feudatari senza testa, padroni per lascito, designatori passivi di antiche eredità.
D.; Una categoria sociale che il Nostro ben conosce.
R..; Vero, Strati li conosce bene, non lascia che nei suoi romanzi avanzino per più di un passo, li mostrerà, anzi, nel loro grigiore culturale, denunciandone l’avarizia mentale. Il calabrese vuole essere parlato, scrive Corrado Alvaro. E Strati, quasi a volere prendere in prestito la sua, di Alvaro, osservazione, fa si che nei suoi romanzi il linguaggio della sua Calabria abbia forme che gli consentano di comunicare a qualsiasi livello sociale, divenendo così - se tradotta- lingua universale. E questo perché le ha tolto di dosso l’antica patina della sofferenza priva di riscatto sociale. L’uomo stratiano ha imparato a lottare, non è più fermo nei suoi passi, comprende che solo per mezzo del lavoro può cambiare la propria condizione socio-economica. Va da se che per essere una lingua capace di penetrare nella realtà nazionale bisogna scrollarsi di dosso costrutti arcaici elementari, e anche CEDERE il giusto prezzo idiomatico alla lingua italiana, ma senza per questo perdere il proprio carattere di fondo, cercando, per quanto possibile, di riservare un minimo di ossigeno ai termini più caratteristici degli idiomi ereditati dai diversi popoli che hanno conquistato la nostra terra nei secoli passati.
D.: Cosa terribilmente difficile.
R.; Da una parte la lingua italiana appresa da Strati a tarda età, lingua letteraria completamente diversa dal suo antico dialetto. Ed è proprio in questo frangente che egli sfodera una bravura fino ad allora ritenuta improbabile. Scrivere utilizzando una lingua che non tradisca le origini, che sappia narrare il problema della sua miseria secolare, il dramma dell’emigrazione e tutto quello che ne consegue, appare un compito gigantesco. Strati non si considera uno scrittore neorealista, anzi. “…Avrei scritto come ho scritto anche se il Neorealismo non fosse mai esistito; mi sono limitato a trasformare la mia esperienza in conoscenza e la conoscenza in scrittura. Ma - e qui STRATI esagera un po’- all’interno del Neorealismo, invece, trovarono collocazione scrittori borghesi che si accostarono agli umili per puro populismo.”. Cosicché Il suo linguaggio dovrà essere, alla fine del suo processo purificatorio, più REALISTA DEL RE. E ciò in assenza di una qualsivoglia mielosa RETORICA, mille leghe lontano da forme di LIRISMO PIAGNONE, lo stesso che annovera ancora parecchi proseliti nella nostra terra, Conseguentemente, egli elabora un linguaggio semplice, asciutto, ma non per questo elementare. Usa spesso i verbi rafforzativi, costruisce intensi dialoghi dove i personaggi, all’occorrenza, sfoderano locuzioni brevi ma intense, spesso intrise di acredine antica. E’ la lingua, finalmente, di un popolo che dalle scorie di un passato senza gloria, trova nel suo mentore, ovvero Saverio Strati, la concreta speranza di non rimanere ancorato per sempre ai margini della storia.

Eccome, se serve una lingua!
* Cultore di Etnologia e Antropologia Culturale Presso Università della Calabria