Saverio Strati è senza alcun dubbio tra i più grandi scrittori
italiani del Novecento. Essere nati in Calabria, serbarla nel cuore, amarla,
tradurla in letteratura non vuol dire necessariamente essere solo calabresi. E’ vero
che l’humus antropologico è quello in cui si nasce, ma è pure vero che quando
uno scrittore è tradotto in diverse lingue, appassiona lettori di mezza Europa,
allora vuol dire che ci si trova di fronte a valori universali. Strati, assieme
a pochi altri grandi scrittori italiani (Calvino, Sciascia e qualcun’altro che
mi sfugge) è presente anche nelle antologie americane. La provincia è una forma
mentale e non un ambito geografico.
Strati nel narrare il nostro meridione
narra il mondo. Bisogna non cadere nei
regionalismi tantomeno nei provincialismi. O si è scrittori universali o non si
è niente. Nato in Calabria va bene, è la definizione, statica quanto auto lesiva,
di scrittore calabrese che genera ambiguità e confusione. Questo, naturalmente,
vale per qualsiasi artista che opera sul pianeta terra. Scrittore vero è chi ha
un mondo da raccontare. E Strati lo ha,
eccome. Nel momento in cui i suoi libri
incontrano il lettore la sua scrittura si
spoglia dei connotati originari e dona ai suoi interlocutori le forme di un’umanità
ricca di storia e di valori. Il problema
è il modulo stilistico, la struttura linguistica che ogni scrittore utilizza
per non cadere nella trappola del già detto e del già scritto. Strati è unico nel suo
genere. Inventa (meglio costruisce) un linguaggio nuovo, tutto suo, e lo dà in
prestito alla sua gente, ne diviene voce narrante. Difatti, da semplice
apprendista-muratore diviene “glossa”
della sua gente, cantore del bene e del male del Meridione, non facendo sconti
a nessuno, soprattutto a se stesso. Siamo
tutti debitori di questo grande artista, mai domo, perennemente impegnato a narrare la storia antropologica del nostro
“maledetto sud”.“ Io l’amo profondamente la mia Calabria, ho
dentro di me il suo silenzio, la sua solitudine tragica e solenne. Sento che
pure qualcosa dovrà venire fuori di lì: un giorno o l’altro dovrà ritrovare
dentro d sé ancora quelle tracce che conserva dell’antica civiltà della Magna
Grecia”. Narrava
dal di dentro, dicevano, il suo stile cesellava come pochi le forme della
civiltà contadina, ne delineava le fattezze più remote, ne sollecitava la vera conoscenza. Grande e appassionato era il
suo amore per i poveri, i diseredati al punto da estremizzare al massimo il suo
linguaggio, il suo stile iper-realista. La sua mente conservava una sterminata
galassia di personaggi: le vicende
familiari, gli esiti di una semina, i tomoli di grano prodotti, le cattive
annate dovute alla siccità o a qualche
improvvida alluvione. Un amore viscerale
profondo, quasi una ossessione implacabile. In quasi tutti i suoi romanzi,
però, egli non poteva non denunciare il nostro cattivo modo di essere, la
nostra cattiva voglia di migliorare le sorti socio-economiche della nostra
terra. Sono “arrabbiature” sincere, non volevano accusare nessuno, intendevano
spronare chi era immerso nel fatalismo, quanti non volevano/vogliono lottare
contro lo status quo. Mentre il mondo cambia, si evolve, il meridione appare
pietrificato. Mentre in altri lidi è giunta la primavera, nel Sud regna un
inverno fitto, un modello sociale che intende perpetrare le antiche regole. Non
è stato uno scrittore sfortunato, però. In quegli anni (anni’50-’60) il cinema
era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti popolari erano
protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi subalterne trovavano
spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché anche la narrativa
realista era acclamata di pari passo a quella cineasta. Anche la critica fu
dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e in numero notevole.
Poi, però, Mondadori, la casa editrice che
aveva pubblicato la maggior parte delle sue opere, gli chiuse la porta. Strati, conseguentemente, va in crisi, comprende che il mondo di cui è
stato testimone non riesce a trovare una collazione ottimale presso il vasto
pubblico, nemmeno in quello calabrese. Si sente solo, abbandonato. Egli merita
gratitudine e rispetto, perché- tra l’altro-
ha saputo dare dignità e fisionomia ad un mondo che, altrimenti, la
cultura ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore delle ipotesi,
trasformato in mero folclore. La
speranza è che il suo impegno non venga dimenticato, che le sue opere trovino
giusta collocazione nelle scuole e nelle università. Me lo auguro tanto. Ma
il pessimismo, specie in una regione
come la nostra, è più che mai d’obbligo.
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