giovedì 21 luglio 2022

VITO TETI, LA RESTANZA, EINAUDI 2022

 Devo ammettere che, allorquando mi addentro nella lettura/studio dei saggi dellamico Vito Teti, avverto dei veri sentimenti di stima e ammirazione.

Ciò, quasi certamente, perché le sollecitazioni emotive che Teti suscita generalmente nel lettore dipendono anche dal fatto che egli ragiona come un poeta, si commuove come un poeta, scandaglia i luoghi della memoria con la stessa ansietà di chi crede nella forza evocativa dei versi.

La sua scrittura, infatti, in qualche passaggio cede alla commozione, diventa lirica alloccorrenza, si trasforma in melanconia creativa specie quando sorvola paesaggi lunari, deserti dellanima, paesi abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio delle antiche genìe, degli emigranti, di chi ha dovuto, forzatamente, lasciare il mondo d’appartenenza, ovvero storie di vita, radici antropologiche ancora vive e palpitanti, sogni, tanti sogni, per reinventare altrove quanto lasciato in paese.Un linguaggio che narra dal di dentro la materia viva delle proprie indagini demo-etno-antropologiche. Ricerche effettuate sul campo, tra la gente, incontrando il territorio, la sua storia passata e quella recente.

TETI, questo va ben sottolineato, quando scrive di paesi abbandonati, di ruderi etc, lo fa solo dopo averli visitati con amorevole cura, con profondo rispetto. Vedi- ad esempio- IL SENSO DEI LUOGHI, storie e memorie dei paesi abbandonati di Calabria, 2014.



Anche il modulo linguistico del presente lavoro, LA RESTANZA, Feltrinelli, 2022,   rivela lo sforzo dell’autore nell’edificare un particolare costrutto sintattico: ora discorsivo, quasi colloquiale, per poi ritornare ad una semantica necessariamente saggistica, stante, appunto, che non parliamo né di un romanzo né di un racconto.

A Teti non poteva sfuggire il fatto che con le antiche retoriche non si progredisce, che non bastano più le solite giustificazioni storiche come la proverbiale “Magna Grecia”, la “Malaunità” e conseguente “Questione Meridionale”, la” ndrangheta” e tutto il resto, per giustificare la nostra inerzia, il nostro atavico fatalismo.

Oggi, purtroppo, dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la bellezza del Sud non sempre trovano risposte/proposte convinte e concrete presso i nuovi ceti sociali e politici, incapaci di diventare classe dirigente desiderosa di liberare, davvero e per sempre, questo luogo.

Sono tante le domande a cui Teti tenta di dare risposte concrete, specie quando è costretto ad ammettere che sul cosiddetto recupero dei borghi vige non poca retorica mista a malafede soprattutto in campo politico.

Infatti, il problema vero, per l’antropologo di San Nicola da Crissa,”… è quello di dare avvio ad una seria politica di non spopolamento, ovvero che i superstiti – se così possiamo definirli- rimangano sul posto, e non per sopravvivere malamente, schiavi di ricordi e ripensamenti laceranti su eventuali scelte non fatte, ma come protagonisti di una RESTANZA come pratica di vita, come arte del vivere in contesto socio-economico sì povero sul piano demografico, ma ancora in grado di affrontare le sfide del domani. La scelta di restare, o di tornare, infatti, è sempre più connessa al desiderio di prendersi cura e rigenerare i luoghi che abitiamo”.

I saggi del Prof. Vito Teti non sono facili da riassumere, contengono elementi culturali dove primeggiano l’antropologia, l’archeologia, la storia, soprattutto del mediterraneo, nonché richiami puntuali a scrittori e intellettuali di valore europeo.
In conclusione, va sottolineato che nel presente saggio vengono rimarcati diversi concetti che delineano le forme più concrete di RESTANZA.

”Ripartire dai restanti- scrive Teti- significa sapersi fare carico delle memorie, dei bisogni, dei progetti di chi è rimasto e attende cambiare e inventare una nuova comunità. Bisogna essere utopici e concreti. Sono necessari nuovi pensieri per uscire da visioni localistiche e per immaginare una vita ancora pensabile e praticabile in questi luoghi. Una via duscita possibile che ci chiede di immaginare l’immaginabile, di prevedere l’imprevedibile”.


Vito Teti è un uomo da sempre impegnato ad affinare – con non poca tribolazione- la difficile arte della “restanza”, suggestivo neologismo da lui stesso coniato, con il quale, tra l’altro, stigmatizza che rimanere in paese ”.. non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è unarte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche dell’identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempoMi piace l’antropologia narrata – se cosi è permesso dire-  messa in atto, con passione e competenza, da Teti; un linguaggio che si oppone a qualsiasi manierismo linguistico, in particolar modo a quello accademico tout court, spesso, alloccorrenza, fin troppo gergale.


lunedì 9 maggio 2022

Breve viaggio in pullman (Arcavacata-Unical-Locri) Cronistoria di una studentessa “vittima” del docente universitario “ammazzatutti

 Il pullman sul quale viaggio (Arcavacata/Unical-Locri) è                                                   stracolmo di studenti sudati e stanchi. Quando  si avvicina a Rogliano (un tratto d’autostrada da                                 affrontare con prudenza) m’irrigidisco e cerco di allontanare la tensione pensando ad altro. L’asfalto                                  infuocato rilascia strani messaggi di luce. Manca l’aria, nonostante il buon sistema di areazione. Accanto a me è seduta una giovane studentessa universitaria. Appare triste, con gli occhi persi nel vuoto. Le dico che il caldo è soffocante, che il mezzo è troppo affollato; la ragazza, però, non mi risponde. Sono stanco, chiudo gli occhi alla ricerca di un po’ di sonno ristoratore, ma di a poco un giovane studente mi si avvicina dicendomi di conoscere i miei figli, che con uno di essi hanno frequentato lo stesso corso d’inglese ai tempi del liceo. E’ gentile. Mi saluta con garbo e torna al suo posto. La ragazza seduta al mio fianco, invece, scoppia in un pianto intenso e silenzioso; calde lacrime solcano il suo giovane viso. E’ nella mia natura cercare di capire cosa accade al prossimo. Posso fare qualcosa per te”,  le dico a bassa voce, per non farmi sentire dai presenti.

Ho paura di ritornare a casa a mani vuote”, mi risponde dopo aver inspirato a lungo.

Segue un fitto dialogo dal quale viene fuori che, per la terza volta consecutiva, non ha superato un esame importante. “Il prof. - mi dice - incute terrore, proprio ieri ha rimandato a casa la quasi totalità degli esaminandi. Lo fa sistematicamente. Tale comportamento non ci fa studiare tranquilli. L’Università è divenuta una vera ossessione, quasi un luogo di tortura psicologica”. Probabilmente opterà per una sede universitaria del Nord (forse Bologna); altri suoi colleghi di corso stanno maturando la stessa intenzione. La ragazza - lo deduco da quanto mi dice- ha alle spalle un brillante curriculum scolastico (maturità classica con 94/100), studia con passione e diligenza, non trascura mai le lezioni, in alcuni casi le registra. Mostra un’ottima proprietà di linguaggio. Cerco di calmarla, le chiedo di non demordere, di non lasciare la nostra bella terra, che sono troppi i giovani costretti ad abbandonarla. Si asciuga a più riprese le lacrime, mi risponde che ha bisogno di riflettere, che deciderà assieme ai suoi genitori. Scende   nei pressi di Locri. Mi saluta abbozzando un sorriso di gratitudine. Le auguro ogni bene. Il pullman riparte, ora è quasi vuoto. Rientro a casa turbato, quanto raccontatomi - ripeto a me stesso- non depone a favore del docente “ammazzatutti”. Difatti, quando si boccia troppo (quasi in modo compulsivo), non necessariamente si è     misurati nel giudizio. In alcuni casi, infatti, il motivo per cui gli allievi non ottengono buoni risultati può dipendere dalla rigidità didattica del docente. Senza empatia non si va da nessuna parte, infatti. Spero tanto che la ragazza non lasci l’Unical. Sarebbe una sconfitta per tutti.

U CATOJU E I PROHJ

 

Già la prima quartina è indicativa di come  Michele Germanò, anziano poetca dialettale originario di Sant'Agata del Bianco,  pensa e ripensa al suo paese  come “nu valurusu picciulu museo... di li penzeri è sempre visitatu”. Qui l’elemento poetico ben si coniuga con quello antropologico perché le rivitazioni mentali di Germanò sono quasi un’elencazione di vicende e personaggi che mai sfuggono al suo pensiero, alla sua esperienza di calabrese trasferitosi nel ventre di una storia cosmopolita (leggi CANADA) che sì lo aiuta a crescere sul piano economico, lo irrobustisce anche sul piano culturale (l’acquisizione di una’altra lingua), ma a un prezzo troppo alto. A ben leggere i suoi versi, si riscontra una nostalgia non solo da addebitare alla’emigrazione, vi è infatti  la consapevolezza che il luogo che lo ha visto nascere e crescere è irrimediabilmente cambiato, che la realtà degli oggetti che animava la civiltà contadina è ormai divenuta un triste  Museo. Difatti “…puru u foculara e senza fiamma”, “Riposa e cchju non scrusci lu tilaru”.Non più le donne, madri, sorelle, zie e fidanzate stanno chine sul telaio, non più coperte colorate realizzate in modo artigianale. E sì che un tempo i  tilari, anche di notte, facevano eco ai rumori notturni, al cammino dei contadini che si recavano di primo mattino in campagna.  Un mondo cadenzato da ritmi umani, da fatiche impregnate di sudore, questo sì, ma comunque con al centro l’uomo e la sua millenaria presenza terrena. Da segnalare il recupero di molti termini arcaici, utilizzati nelle nostre vallate fino alla metà degli anni’ 50.  Germanò in questo è alquanto abile, disegna dei quadretti semantici molto veritieri, recupera numerosi affreschi delle nostre tradizioni. In più, alla fine del testo poetico, allega un interessante glossario di detti termini  che facilitano la comprensione del loro  il signficato non solo sintattico ma anche allegorico. In conclusione, le quartine (ABAB) sono lo specchio concreto di un mondo ormai scorparso, di una generazione che ha fatto a pugni con la terra, le sue zolle aride e i tanti padroni di  turno, usurpatori senza scrupoli. Ma Germanò non recrimina contro nessuno, egli, con intelligenza e particolare senbilità, disegna tratti poetici del suo mondo d’origine, di quando  i barigghj erano recipienti in legno altamente  preziosi per il trasporto dell’acqua attinta alle poche fontane sorgive poste ai fianchi dei piccoli paesi di collina.

 “Quant’acqua, pe na vita ‘ndi portaru,

sicuramenti, cchiù di na jumara.

sabato 7 maggio 2022

HANDICAP PREGIUDIZIO LETTERATURA

  Il presente saggio,  realizzato nell’ambito dei programmi europei PETRA e ERASMUS, a cura, presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione- Università di Bologna- del Prof. Nicola Cuomo (“L’emozione di conoscere”, 2-4 settembre 1991), è stato pubblicato su “Aschesis” n. 6/9-settembre-dicembre 1991. In questa sede, è stato riveduto ed integrato in alcune sue parti.

 Vincenzo Stranieri : Pedagogista, cultore di Antropologia Culturale presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università della Calabria

Sin dall’antichità ogni manifestazione che non rientrava nell’alveo degli schemi culturali del sistema sociale era considerata un evento <<fuorinorma>> da esorcizzare in nome di principi religiosi o, anche, di criteri politico-religiosi. (1)

Gli spartani – a esempio- praticavano nei confronti dei bambini affetti da malformazioni, una sorta di giudizio di <<utilità>> per cui ritenevano giusto sopprimerli. (2)

La relazione tra gli uomini e il Potere politico-religioso era dunque fuorviata dal pregiudizio, dalla totale ignoranza dei motivi che stavano alla base dei comportamenti degli <<invasati>>, nonché degli individui oggi meglio conosciuti come portatori di handicaps.

Anche i secoli rinascimentali conobbero, non meno che in passato, forme più o meno aberranti di pregiudizio. (3)

Conseguentemente, anche nel sec.XVI° ed oltre, assistiamo al dilagarsi di un’ira persecutoria al punto che fra’ Girolamo Manghi da Viadana, Minore osservante (1529-1609), pubblica il <<Compendio dell’arte esorcistica>>, Bologna 1576. (4)

Pochi anni prima, invece, (1560) <<usciva per opera dello stampatore veneziano Lodovico Avanzi, che la pubblicava assieme alla magia Naturale di Giovan Battista della Porta, la traduzione italiana de “Occulta naturae Miracula” del medico zelandese Lievin Lemmes. Il capitolo VIII° era dedicato ai “parti mostruosi”, e, “nella copia dell’opera ora posseduta dalla biblioteca Universitaria di Bologna, accanto al titolo, una mano del XVI° sec. vergava l’avvenimento per li maritati pazzi e sporchi”>>. (5)

Inoltre, e qui i fatti diventano veracemente inquietanti, l’idea della <<terribilità>> della nascita era all’origine della tacita ma diffusa abitudine, anche in questo periodo, << di uccidere subito dopo il parto la creatura deforme che non fosse morta spontaneamente>>. (6)

lunedì 25 aprile 2022

LA PARTE DELL'0CCHIO- TESTO POETICO DI MARINA REZZONICO

Il volume di poesie, La parte dell’occhio, di Marina Rezzonico, Puntoecapo   Editrice, 2022, è composto da 7 sezioni i cui versi riproducono un tessuto linguistico alquanto unitario.

E’ anzitutto  un corposo  spazio dell’anima,  una preziosa configurazione geografica insita in un passato/presente che mai deborda in vittimismo o invocazioni nostalgiche.

Per primo è stato il porto:

moli di traffici e di industria.

Se ci fossi nata, del mare avrei serbato

Il suono di sirena,

lago di partenze, di umane distanze,

asilo di ogni arrivo.

Poesia narrata (ossimoro voluto) per non allontanarsi dal ricco bagaglio umano-culturale donatole dai luoghi fisici (Ticino, Liguria e Toscana) in cui l’artista ha vissuto e si è formata, e che ben si coniugano con quelli interiorizzati  nel corso della sua vita.

I luoghi, quelli vissuti e/o quelli ricostruiti per mezzo della memoria, producono continue rivisitazioni che trovano uno spazio preciso nella mente della poetessa, anche quando sovviene un certo timore e la natura sembra custodire segreti ormai perduti.

Le radici non attecchiscono

per caso. Richiedono lo scavo

delle generazioni.

Senza storia prevede

successive abrasioni

di ogni segno di riconoscimento.

Una poesia anche, se non soprattutto, “descrittiva”,  esplicativa dei diversi  spazi della memoria che, cosa non secondaria, non si sovrappongono al mondo intellettuale che li contiene.

Ho fatto avanti indietro

Tra pioggia e sole.

Ci ha fatto stanchi, svogliati.

Chiusi entro casa

a lasciare accartocciare

i giorni e le parole:

profani signori

alla corte del tempo.

 

Luoghi fisici e luoghi dell’anima dove l’elemento lirico tout court è sostituito dall’occhio vigile dell’autrice; e dal quale, forse, nasce La parte dell’occhio, ovvero quella porzione di sguardo che, anche da solo, è in grado di cogliere le migliori fattezze dell’umana esistenza.

Preparo una rete

per catturare con gli occhi

Il mio nome

In volo nell’aria.

La mia vita intera.

 

Sono numerosi i versi che compendiano questa particolare opera poetica. Tradizioni ormai scomparse, utensili ormai in disuso, ritmi di vita vorticosi e per questo quasi disumani.

 

Si fissava il telaio,

con una molletta,

uno strappo di carta.

E nell’andare, il fruscio

simulava il volare.

 

Dall’alto, guardavano il mondo.

 

Il rammarico pesa, non poteva essere altrimenti, nel pensiero dell’artista, i forsennati mutamenti socio-culturali aggrediscono la sua sensibilità, il  corpus intellettuale che li contiene.

 

Ogni avventura deposta,

lasciata fuori,

a tendere il suo agguato.

Silenzio.

Sguardo traverso

Sul presente disabitato.

 

In conclusione, ma molto altro nasconde questo robusto  testo poetico, va ribadita l’originale capacità della Ns artista d’intrecciare il suo mondo ideale- poetico con il cosiddetto mondo reale; quest’ultimo ancora somigliante, per fortuna,  ad  uno scrigno ricco di sentimenti veri.

 

Cerco ancora una terra da esplorare?

Una pietra da tirare,

una zolla da falciare,

una pervinca da cogliere?

Cerchi la tana dove riparare?

 


martedì 4 gennaio 2022

SALOTTI TELEVISIVI PRIVI DI SENTIMENTI VERI

 

 NO ALLA PORNOGRAFIA DEL DOLORE E ALLA SCARNIFICAZIONE DEI SENTIMENTI

           

    La pagina  di un qualsiasi quotidiano d’oggi  raccoglie  una mole di notizie che un uomo del Settecento - ad esempio- avrebbe ottenuto  in non poche decine d’anni. Notizie su notizie, rigagnoli d’inchiostro viaggiano per il mondo in cerca di fedeli lettori. Ma la notizia, oggi, corre, anzi dilaga, per mezzo di internet, si mescola a immagini colorate  pregne di proposte varie, ed appare difficile appropriarsi veramente di questa neo-babele che blatera dettagli su dettagli, proponendo, spesso, una realtà virtuale fatta di niente.Meglio oggi che ieri, naturalmente, ma è pure  opportuno quanto necessario capire che qualsiasi cervello umano non è in grado di sopportare questo bombardamento mediatico quotidiano.Non si tratta di censurare nessuno, bisogna invece non precorrere con l’attuale celerità tempi che riguardano l’intimo della natura umana (oltre che le necessità della nostra madre terra).Bisogna decelerare la corsa intrapresa, evitando s’infrangersi sugli scogli di una falsa conoscenza che, col passare del tempo, diverrà totalmente omologata.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a diatribe giornalistiche (carta stampata, tv etc) che risultano grottesche quanto inutili. Non voglio riferirmi a nessuna di queste in particolare (l’elenco sarebbe lungo, purtroppo), perché tutte presentano lo stesso vizio di forma: retorica bassa, demagogia urlata, populismo d’infima qualità. Nei salotti televisivi si parla di tutto, si giudica con non poca superficialità questa o quella vicenda, si esprimono valutazioni soggettive che intendono essere verità assolute.Si discutono sentenze, indagini ancora in corso senza essere sfiorati dal che minimo dubbio. Vige la presenza costante del tuttologo, colui/colei che discerne senza pentimenti di terremoti e piogge torrenziali, di naufragi e violenze domestiche.

Tutto è chiaro, tutto è certo in questi salotti colorati dove tutti fingono di essere  buoni amici.Ma è proprio in questi salotti televisivi che imperano due tipi di delitti culturali che Rosario Sorrentino (neurologo di fama mondiale) definisce- cito a memoria- “pornografia del dolore”, “scarnificazione dei sentimenti”.La nudità del dolore altrui  non disturba i numerosi retori, che affondano i loro bisturi conoscitivo dentro le carni più profonde della vittima di turno, scarnificandone, appunto, le emozioni più recondite. Autopsia dell’anima e del corpo, un po’ come quanto accade in alcune serie televisive americane trasmesse con solerzia anche in Italia dove gli esami necroscopici vengono mostrati in ogni loro piccolo particolare, non mancando, naturalmente, di evidenziare il rosso-cupo della carne umana distribuita in modo ordinato sui tavoli di altrettanto ordinati laboratori.Il corpo è un giocattolo che va montato e smontato senza particolari emozioni, come pure i sentimenti. Il  poter parlare di tutto eccita le menti di questi mendicanti del sapere, fa luccicare i loro occhi, esalta le loro questuanti narici.Deceleriamo la nostra folle corsa di falsa conoscenza- dicevo- solo così eviteremo gli scogli appuntiti dell’abbrutimento collettivo.

"lA RIVIERA", PRIMO GENNAIO 2022, P.19