Già la prima quartina è indicativa di come Michele Germanò, anziano poetca dialettale originario di Sant'Agata del Bianco, pensa e ripensa al suo paese come “nu valurusu picciulu museo... di li penzeri è sempre visitatu”. Qui l’elemento poetico ben si coniuga con quello antropologico perché le rivitazioni mentali di Germanò sono quasi un’elencazione di vicende e personaggi che mai sfuggono al suo pensiero, alla sua esperienza di calabrese trasferitosi nel ventre di una storia cosmopolita (leggi CANADA) che sì lo aiuta a crescere sul piano economico, lo irrobustisce anche sul piano culturale (l’acquisizione di una’altra lingua), ma a un prezzo troppo alto. A ben leggere i suoi versi, si riscontra una nostalgia non solo da addebitare alla’emigrazione, vi è infatti la consapevolezza che il luogo che lo ha visto nascere e crescere è irrimediabilmente cambiato, che la realtà degli oggetti che animava la civiltà contadina è ormai divenuta un triste Museo. Difatti “…puru u foculara e senza fiamma”, “Riposa e cchju non scrusci lu tilaru”.Non più le donne, madri, sorelle, zie e fidanzate stanno chine sul telaio, non più coperte colorate realizzate in modo artigianale. E sì che un tempo i tilari, anche di notte, facevano eco ai rumori notturni, al cammino dei contadini che si recavano di primo mattino in campagna. Un mondo cadenzato da ritmi umani, da fatiche impregnate di sudore, questo sì, ma comunque con al centro l’uomo e la sua millenaria presenza terrena. Da segnalare il recupero di molti termini arcaici, utilizzati nelle nostre vallate fino alla metà degli anni’ 50. Germanò in questo è alquanto abile, disegna dei quadretti semantici molto veritieri, recupera numerosi affreschi delle nostre tradizioni. In più, alla fine del testo poetico, allega un interessante glossario di detti termini che facilitano la comprensione del loro il signficato non solo sintattico ma anche allegorico. In conclusione, le quartine (ABAB) sono lo specchio concreto di un mondo ormai scorparso, di una generazione che ha fatto a pugni con la terra, le sue zolle aride e i tanti padroni di turno, usurpatori senza scrupoli. Ma Germanò non recrimina contro nessuno, egli, con intelligenza e particolare senbilità, disegna tratti poetici del suo mondo d’origine, di quando i barigghj erano recipienti in legno altamente preziosi per il trasporto dell’acqua attinta alle poche fontane sorgive poste ai fianchi dei piccoli paesi di collina.
“Quant’acqua, pe na vita ‘ndi portaru,
sicuramenti,
cchiù di na jumara.
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