L’ultimo romanzo di Gioacchino Criaco, Il saltozoppo, Feltrinelli 2015, ha
subito riportato alla mia memoria le forme
burlesche di un gioco tradizionale
praticato fino agli anni ’60 nei nostri piccoli paesi. Ciancapuglieglia, questo il suo nome
dialettale, ovvero pollastra azzoppata
che camminava saltando su una zampa. Da bambino ne ho viste un bel po’
muoversi sbilenche per le vie polverose della mia ruga. Spesso erano proprio i ragazzini ad
azzopparle con la scusa che tanto era un
gioco privo di vera cattiveria. Già, privo di cattiveria, ma per il piccolo
animale domestico significava la morte imminente perché in quello stato poco
serviva al suo padrone. Ne Il saltozoppo Criaco utilizza l’antico gioco come metafora per
sottolineare il destino dei tre principali protagonisti del romanzo (Julien
Therime, Agnese Dominici e suo fratello
Alberto). Ma protagonista è pure
l’Aspromonte “che pasce la gente a odio e
amore” dove ancora feroci insidie tribali si mescolano con una modernità
male assorbita. Ma non starò qui a riassumere per intero i fatti, sarà il
lettore a penetrarvi come meglio crede. Il saltozoppo differisce alquanto dalla struttura stilistica dei
precedenti impegni letterari di Criaco, specialmente da Anime
nere (Rubbettino, 2008) che ha dato ampia
notorietà allo scrittore di Africo Nuovo. E questo, molto probabilmente,
perché egli avverte da sempre il bisogno
vitale di non farsi intrappolare da un progetto creativo che inevitabilmente peschi nello stagno
antropologico della criminalità locridea. Un rischio che Criaco, per fortuna, ha sempre tenuto presente, relegato ai margini. Ciò, appunto, per non
essere additato come narratore esclusivo
delle “anime nere” che abbondano per le nostre contrade e non solo. La
conseguenza - altrimenti- sarebbe funesta:
a furia di stigmatizzare le tristi vicende del mondo criminale, prevarrebbe
il rischio di rendere circoscritto e
non di vasto respiro l’humus
della sua scrittura. Provo
ammirazione e rispetto per questo nostro
conterraneo impegnato a limare la sua tecnica narrativa nel
tentativo, finora riuscito, di costruire un
suo specifico linguaggio non riconducibile all’abbondante e variegato
mondo del sottobosco letterario che, specie in Calabria, cresce senza pudore
alcuno. Mi preme, in questa sede,
sottolineare il modulo stilistico (a più voci, polifonico) adoperato
dall’artista ne Il saltozoppo. L’io narrante delinea le fattezze, le gesta dei
protagonisti lasciando da parte pretese conoscitive troppo vincolanti. Voglio dire che l’autore,
specie in questo romanzo, non intende più rimanere allo scoperto, muta la sua azione stilistica in una
sorta di narrativa a più voci
(Il geco, la ninfa, il cucciolo, il serpente, l’aquila, Silvestro)
che nel narrare se stesse
svelano, non senza dolore, le forme della loro immersione nella fitta logica della faide secolari e per questo ancora “anime nere”
che solo dopo varie perizie, prove fatte
d’angoscia e qualche pentimento, riescono (Agnese e Jiulien, soprattutto) a
comprendere, forse, che i rivoli di sangue sparso per l’Aspromonte comportano solo morte e distruzione . (“E poi venne la peste. Il vento nero soffiò
forte, oscurando gli usci e spezzando le favole…”). Ma è una polifonia strategica, in realtà il
burattinaio è sempre l’autore, che cerca spazi umano-culturali più vasti, anche
se è ancora presto per lasciarsi alle spalle il mondo che lo ha partorito e
dove, finalmente, oltre al sangue vi è la presenza di un amore profondo e
pregno di promesse, quello tra Julien ed Agnese, che si manifesta in tutta la sua dirompenza solo nei luoghi di nascita: nelle calde acque del mare Ionio, che
accarezza i loro corpi per poi ricoprirli di sabbia tiepida simile a carezze
materne. Certo, è ancora amore giovanile, passionale e pregno di erotismo,
tuttavia è amore eterno, mai scalfito dal dubbio e per questo in grado di
scontrarsi con la realtà malavitosa del Nord che li obbligherà a scelte di vita
drammatiche: morte, carcere, sequestri e conseguenti ricatti. Ma quando
il lettore, scavando nelle intense pagine del romanzo, sembra rassegnato ad un
epilogo funesto (“Ma il desiderio dei
bambini non mutano il destino costruito dai grandi”), certo che i
protagonisti non hanno saputo (o potuto) scrollarsi di dosso
le malsane regole dei luoghi d’origine fatte di antiche faide (sviluppatesi
dagli Aragonesi in poi), traffici e
altre trame illegali (droga in primis),
viene fuori un finale aperto che ben si collega ad un desiderio espresso a metà
romanzo da uno dei protagonisti: “La
rivoglio la mia favola. Per
sempre”.
Francesco Stilo, il pastore africotu
Nella foto in alto da sinistra: Santoro Criaco, Francesco Stilo e sua moglia Domenica Criaco, Andrea Stilo, figlio di Francesco. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia
Francesco Stilo, classe 1926, è uno dei pochi pastori di Africo vecchio ad essere tornato a vivere nel luogo d’origine dopo la disastrosa alluvione dell’ottobre 1951. Alluvione che ha comportato la fondazione di Africo nuovo, nei pressi di Capo Bruzzano.
É un vero resistente, il nostro pastore di lattare, fiero della sua scelta, affezionato alle sue bestie forse ancor più che agli uomini. Ma non è un uomo isolato, un eremita che intende sfuggire al cosiddetto mutare dei tempi. Egli conosce quanto avviene fuori dal suo raggio d’azione lavorativo, lo sanno i suoi sette figli (tre maschi e quattro femmine, tutti laureati), che ha voluto mandare a scuola a tutti i costi, sacrificandosi assieme alla moglie perché potessero realizzarsi.
E dunque, oltre che pastore, il nostro è stato/è un ottimo educatore, una guida sicura, soprattutto sul piano etico, della propria famiglia. Conosco alcuni dei suoi sette figli, che vivono l’essere professionisti con dedizione ed umiltà. Nessuno di loro ha dimenticato il mondo dell’infanzia e, di tanto in tanto, ritornano nei luoghi d’origine, per rivivere, quasi in un processo catartico, il tempo dell’infanzia trascorso sul dorso di una montagna sì aspra ma capace d’infondere valori profondi e sicurezza interiore.
Francesco Stilo è stato un ottimo educatore, ma senza il peso della vendetta sociale, perché egli non maledice il proprio destino, non lo considera ingrato. È una saggezza antica, la sua, che lo posiziona nell’alveo di un equilibrio socio-culturale in grado di proteggerlo dall’invettiva gratuita e dalle facili lamentele. Occhi e carnagione chiari, lineamenti scolpiti dalla fatica e dal sole, corporatura media ed atletica, quasi una leggerezza dell’essere, oltre che del fisico. Desta meraviglia ed anche un po’ d’invidia quest’uomo che non teme la solitudine ed i rumori della notte che avvolgono le montagne di Africo vecchio e di Casalinuovo, ormai preda di sterpi e rovi. Non è difficile immaginare lo sgomento delle due popolazioni montane, in quell’ottobre del 1951, quando la devastante alluvione procurò gravi danni ad uomini e cose.
Nella foto in alto la tosatura delle pecore. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia
Un diluvio universale in cui la chiesa divenne il solo rifugio per combattere la malasorte, nel mentre la preghiera si trasformava in disperata implorazione, riconoscimento del limite umano. In quell’ottobre del 1951 successe mezzo finimondo, piovve incessantemente per alcuni giorni, la montagna franò in più punti portando con sé uomini, animali e case a fondo valle.
Questo è il modo più drammatico per ritrovarsi senza alcun bene materiale, senza un tetto dove ripararsi e soprattutto senza un’attività lavorativa né riconoscimento del limite umano. E alla violenza della natura s’aggiunse quella politica, e le due comunità, da secoli abbarbicate sui crinali della montagna, si trovarono, loro malgrado, a vivere prima in baracche di legno e poi in piccole e mal costruite case popolari poste a poche centinaia di metri dal mare Ionio (Capo Bruzzano), detto u Capu. Facile immaginare lo sgomento, intuire la paura per un futuro che appariva lontano ed incerto, ma la violenza era stata perpetrata e bisognava cominciare daccapo.
E il passato? Bisognava negarne l’esistenza? Allontanarlo dai pensieri? Violenza su violenza, dunque, e assieme alla cultura di un popolo s’era persa la vasta gamma di mestieri che ne sorreggeva l’economia, pur se povera e fragile. Ed è proprio a questo che Francesco Stilo ha voluto opporsi: alla perdita della sua identità umana e lavorativa, facendo di tutto per rimanere pastore.
Alcuni figli di Francesco Stilo vivono con le rispettive famiglie a Reggio Calabria, mentre Costantino, farmacista per circa vent’anni a Caraffa del Bianco, si è da poco trasferito in Puglia. La moglie del nostro pastore, Domenica Criaco, si è stabilita da circa 20 anni a Caraffa del Bianco dove la figlia Annunziata è stata per alcuni anni medico di base. In realtà, il nostro pastore si considera un africotu, e non ha per niente legato col posto di neo-residenza.
Egli è altro da questo luogo, si sente un uomo libero solo a contatto con la sua mandria che bruca per i crinali dell’antica montagna amica. Il suo scopo attuale non è quello economico, la sua ricchezza è il mantenimento della libertà personale, quella di vivere a diretto contatto con la natura, in un continuo dialogo con le bestie e le cose, dialogo, di tanto in tanto, interrotto da qualche altro resistente pastore o da qualche temerario cacciatore. Torna a casa poche volte al mese, giusto il tempo di rifornirsi di provviste, per poi ritornare a vivere in libertà le sue lunghe giornate trascorse tra le montagne amiche*.
Nella foto Francesco Stilo, foto di Enzo Penna
Pastori di Africo Vecchio che fino alla fine degli anni ‘80 pascolavano le loro greggi nei territori d’origine:
Andrea Stilo, fratello di Francesco, Pietro Stilo, Giovanni Stilo, Pietro Maviglia, Domenico Maviglia, Costa Stilo, Bruno Criaco (quest’ultimi hanno abbandonato la pastorizia da circa vent’anni o scomparsi).
L’elenco mi è stato fornito dal medesimo Francesco Stilo.
*La storia di Francesco Stilo è stata scritta alcuni anni addietro. Attualmente il nostro pastore, a malincuore e su insistenza della famiglia, ha smesso di fare il pastore a tempo pieno e vive con la moglie a Caraffa del Bianco. Ma il richiamo ancestrale della pastorizia è rimasto vivo come un tempo. In un appezzamento di terreno di suo figlio Costantino (contrada “Musco” in S. Agata del Bianco), oltre a curare l’uliveto e l’orto, ha realizzato un piccolo Jazzo per pochi ovini. Gli ricordano il suo mondo, la sua infanzia… la sua vita.