lunedì 28 febbraio 2011

LE VIE DEL CANTO Nel recentissimo saggio-racconto Pietre di pane (Un’ antropologia del restare), Quodlibet, Macerata 2011, Vito Teti, antropologo, narra l’avventura del restare- la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della “restanza”. Pubblicato su "il Quotidiano della Calabria", giovedi 24 febbraio 2011, pag.46

di Vincenzo Stranieri
I poeti non hanno bisogno di viaggiare, conoscono spazi infiniti, volgono il loro sguardo su distese dove non giunge nemmeno l’occhio insolente dei nuovi sistemi satellitari, perché la visione d’insieme  di  un poeta, il suo radar intellettuale è in grado di opporsi  a chi crede- e sono in molti, purtroppo- di  poter trasformare l’esistenza vera in realtà virtuale, costruita sulla totale finzione.
Certo- per dirla con Pessoa- anche i poeti sono dei fingitori,  non perché falsi o ipocriti, ma perché necessariamente avversi alla cosiddetta realtà. Un poeta vero, infatti,  non può che opporsi all’esistente, allo status quo. La Poesia dà un valore alla vita, la scandaglia a suo modo, rappresentando una delle cime più alte del pensiero umano. Sfugge al concretismo dei più, e, all’occorrenza, crea turbamento in chi non crede nella forza della parola scritta, giudicata vana, innocua, ridicola perfino. Un poeta non vive in un preciso luogo spirituale: scruta, s’immerge negli abissi marini alla ricerca di luce, riemerge per dare conto delle sue visioni, del suo sguardo sul mondo. E tuttavia - ciò non è una contraddizione- ha bisogno di ancorarsi a un luogo fisico, trasformarlo in finestra sul mondo. Il luogo può essere quello natio  dove egli sarà testimone di mutamenti radicali e dal quale -a un prezzo altissimo-, potrà intraprendere la sua azione intellettuale, oppure porsi su altri lidi alla ricerca di un’altra dimensione, considerata-  a torto o a ragione, cosmopolita. Vito Teti, antropologo di professione,  è – secondo chi scrive-, prima di tutto poeta, perché ragiona come un poeta, si commuove come un poeta, scandaglia i luoghi della memoria con la stessa ansietà di chi crede nella forza dei versi.
La sua scrittura, infatti, cede alla commozione, diventa lirica all’occorrenza, si trasforma in melanconia creativa quando sorvola paesaggi lunari, deserti dell’anima, paesi abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio dei poveri, degli emigranti, di chi ha dovuto lasciare per sempre un mondo conchiuso, con le sue storie, le sue radici, i suoi sogni, per reinventare altrove quanto lasciato in paese. Un conflitto, più intellettuale che psicologico, affiora in molti suoi lavori e prende ancor più  forma e dimensione nel suo recentissimo saggio-racconto Pietre di pane (Un’ antropologia del restare), Quodlibet, Macerata 2011, dove- dopo anni di dubbi e lacerazioni -, afferma che restare in paese ”… non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche dell’identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa  esperienza del tempo”.  Teti compie un viaggio quasi espiatorio nei  luoghi dell’emigrazione di suo padre Nicola in Canada, partito quando lui era appena un bambino,  e dove ha modo di incontrare numerosi compaesani stabilitisi in quella nazione lontana ormai da qualche tempo.  E’ un andirivieni di viaggi intellettuali  e viaggi veri, una sorta di psicoanalisi della stanzialità. Il “privilegio” (si fa per dire) d’essere rimasto in paese, Teti lo sconta vivendo e narrando il dramma del distacco, della recisione ombelicale con il luogo d’origine  che non ha potuto proteggere dal distacco tutti i suoi figli. I meridionali, infatti, crescono  con il marchio di una maledizione storica:  occupazioni, alluvioni, terremoti, e,  infine, l’emigrazione, una violenza che affonda il suo coltello luccicante nella carne della civiltà contadina, i suoi figli migliori, stranieri dentro e fuori le proprie mura, e la consapevolezza del tradimento, dell’impossibilità di ritornare in patria, con nel cuore le forme incancellabili dell’infanzia . Nel racconto Il cammino di Vallelonga Teti registra il tempo perduto, “…le prestidigitazioni della memoria che non di rado inventa, riorganizza  il passato, lo fa affiorare diversamente da come lo abbiamo realmente vissuto”.  Egli rivive, ricostruisce “Le vie del canto”, l’amarezza per la “perdita di forma”, direbbe Calvino. “Le vie del canto,” narrano dell’amata infanzia,  quando tutto sembrava immenso, anche  le strette rughe (vie) di Villalonga , clonate in un luogo (il doppio” oltreoceano), dove gli emigranti  cercano disperatamente di reinventare il paese d’origine nel rispetto delle antiche forme, dei riti, delle tradizioni, abitudini etc. Qui la scrittura di Teti s’impregna d’angustie che gli  rimbalzano dentro come lame sottili in grado d’incidere la carne, di farlo soffrire più del dovuto.  Il Teti   dei primi racconti è ancora un emigrante, e con un senso di colpa che gli scava l’anima. E’ ancora alla ricerca culturale che giustifichi la sua stanzialità, il suo essere rimasto in Calabria, nel suo paese d’origine, San Nicola da Crissa. E sì perché bisogna  pure giustificarsi d’essere rimasti a combattere da soli in una terra bella e piena di luce, ma ancora ferma alle leggi  del sopruso e del malaffare, anche se, questo va detto, vi è una bella società civile che tenta in ogni modo di arginare i danni, di  combattere la neo barbarie. Va riconosciuto a Teti, sul piano del linguaggio, di non essere caduto nella trappola del già detto e/o del già scritto, in quel surrogato  di neorealismo che ancora imperversa per le nostre stanche provincie. Chi scrive, chi fa letteratura non può, non deve rappresentare alcuna genia o glossa. L’artista deve coltivare il suo essere individuo/universo consapevole di appartenere  al mondo.  Il linguaggio di Teti, che sfugge ai limiti del neorealismo storico,  è cristallino, i segni incisi sulla carta provengono da memorie che affondano le loro radici nella dimensione spazio-temporale della civiltà contadina, ma non certo per mera nostalgia, non agogna di certo alcun asino con in groppa contadini stanchi dopo la mietitura e le lunghe giornate ad arare i campi arsi dal sole. Si tratta, invece, dell’arduo  tentativo di donare memoria, elementi utili alla conoscenza del mosaico umano appena trascorso cui Teti regala non poche tessere per una sua- si spera-  non lontana ricomposizione.  Ciò non è una colpa, un difetto, ma un modo di avversare l’idea di rimozione globale (la formattazione dell’umano!) che oggigiorno tende a cancellare ogni traccia dei microcosmi antropologici che compongono il mondo. “Chi lo sa? Forse la vita è piena di reti, vere o inventate da noi stessi, che non possiamo evitare e più ci affrettiamo e più ci avviciniamo alla nostra ultima rete”.  La crisi è planetaria, Teti lo sa bene, l’uomo  si allontana a grandi passi da un neo-umanesimo in grado di partorire un’etica per il futuro. S’incammina, invece, verso una neo-barbarie che tutti dovremmo cercare di combattere  o perlomeno arginare. Il testo di Teti è composto da 14 racconti-saggi, introdotti da un’emozionante quanto lucido “Prologo del restare” e chiusa da una nota bibliografica anch’essa un racconto, stante che descrive le fonti utilizzate, ma in modo non tecnico-burocratico, ma con un’enfasi linguistica arguta quanto originale. Leggere per credere. Teti è innamorato dei grandi scrittori  nati nella  Locride del  Novecento (C. Alvaro, S. Strati, M. La Cava,  F. Perri ecc.),  li conosce bene, li ha scandagliati e dal lato letterario  e da  quello strettamente antropologico. Li cita  in diversi passi di questa sua fatica letteraria, omaggiando Alvaro - a esempio-  intitolando uno dei suoi racconti Madre di paese, lo stesso titolo col quale Alvaro pubblicò un omonimo racconto negli anni ’30. Alvaro è un maestro di levatura altissima, ma Teti, con intelligenza e misurata umiltà, non ne scimmiotta la struttura formale, si sottrae alla stretta pericolosa del registro stilistico alvariano,  proponendoci un ritratto di sua madre ora immerso nella vis tragica ora in quella comico-grottesca. Mi piace chiudere queste mie modeste considerazioni, citando il passo di Alvaro che ha sollecitato in Teti l’idea d’intitolare il suo saggio Pietre di pane, riportato nella quarta di copertina. Scrive Corrado Alvaro in  “Pane e pietre” : “A volte i sassi hanno forma di pane. Bisogna vederli, a una svolta di una strada biancheggiante, umili di sassi che sembrano pani. Sono i sassi dei torrenti, arrotondati e dorati. La prima idea è quella del pane. Poi della pietra. E la fantasia oscilla tra questo due estremi. Sono i mucchi dei sassi trasportati dal greto de torrenti e ammucchiati per fabbricare la casa”.









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