DI VINCENZO STRANIERI*
Su FB (facebook) tanti sono stati i post attestanti la sincera vicinanza ai familiari di Don Massimo Alvaro. Persone ora residenti al Nord, suoi ex alunni intristiti per la morte del caro Maestro.
Mi colpito, tra le altre, la riflessione puntuale del mio caro amico Salvatore Stelitano, che scrive: “Di Don Massimo ricorderò sempre i suoi consigli dati con qualche mezza frase, di gesti fatti senza clamori e di attestati di stima (o disistima) pronunciati con qualche battuta che, accompagnata da quel suo sorriso ironico, doveva essere decifrata e interpretata a fondo per comprenderne il suo significato e spesso la lucidità del giudizio”. Il ritratto, pur sintetico, ben traccia il temperamento Don Massimo Alvaro: schivo, poco incline ai convenevoli, alle mode. Un prete semplice, lontano dal pronunciamento di omelie altosonanti, ai limiti della retorica. Parole normali, come normale era stata la sua esistenza. Non faceva vita mondana, accettava di tanto in tanto l’invito a pranzo di qualche amico. Custode attento delle opere inedite del fratello Corrado, scrittore europeo nato anch’esso a S. Luca (1895) e morto prematuramente a Roma nel 1956 all’età di sessantuno anni, Don Massimo è stato sacerdote per sessantasette anni della piccola comunità di Caraffa del Bianco, dove ha celebrato messa fino all’età di novantacinque anni.
La sua canonica era semplice e priva d’inutili fronzoli. Amava i libri e la cultura. Un uomo “antico” che ricalcava i modelli umani della civiltà contadina che lo aveva partorito. Caraffa del Bianco, però, era più che una seconda patria, forse rappresentava il luogo che lo aveva aiutato a riconciliarsi col mondo. Non aveva molta fiducia nel prossimo Don Massimo, e ciò rappresentava un’angustia forte e tagliente. Tutte le volte che si era fidato degli uomini aveva dovuto prendere atto che La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile.(Corrado Alvaro). E poi doveva combattere con due ansie che ogni volta che i suoi occhi chiari incontravano l’alba si divertivano ad angustiargli l’esistenza. L’ansia di alimentare la vocazione sacerdotale (bisogna mettersi alla prova in ogni gesto, consapevoli che la grazia di Dio ci insegue sempre, soleva ripetermi nei nostri incontri presso la sua canonica) andava a confrontarsi/scontrarsi con la paura di dover conservare le opere inedite di suo fratello Corrado. Studiosi veri e altri di mezza tacca lo incitavano a disfarsene, a consegnare loro il pensiero scritto di suo fratello, e lui, sotto il peso di una cosi schiacciante responsabilità, ne soffriva, spesso s’irrigidiva, divenendo quasi muto. Il suo volto, specie in questi frangenti, prendeva la forma di un “pugno chiuso”, la stessa che il critico Pancrazi coniò per suo fratello Corrado, quando lo vide parlare (anni ‘30) nel corso di un’importante conferenza. Questo dualismo psicologico-culturale avrebbe schiacciato chiunque, ma Don Massimo si affidò sempre alla sua profonda fede cristiana. Di certo le sue preghiere includevano la richiesta d’aiuto perché potesse sopportare un peso cosi grande, per non esserne schiacciato. Non è facile, infatti, essere considerato fratello di uno scrittore di levatura europea. Ci sente posti in seconda fila, subordinati rispetto alle proprie capacità individuali. Ma egli questa interna lacerazione ha saputo affrontarla con equilibrio e onestà intellettuale, senza recriminazioni inutili. E’ stato un prete contadino, nel senso che la sua vita pubblica si è svolta esclusivamente a contatto con la gente semplice. Tutti sapevano della sua profonda cultura, ma quasi nessuno poteva aiutarlo ad alleviare la profonda solitudine intellettuale cui era stato costretto. Negli anni ‘60 sono stato uno dei numerosi chierichetti che animavano la canonica della chiesa di Piazza Nazauro Sauro, a Caraffa, quando la messa era ancora celebrata in latino. Ho conosciuto sua madre, Antonia Giampaolo, di carnagione bianca. Il suo viso era affilato, quasi aristocratico. Parlava poco, ci chiedeva da bere, era sofferente a letto, il suo volto era teso, forse aspettava qualche messaggio scritto di Corrado (morto anzitempo l’11 giugno del 1956 a Roma), che, puntualmente arrivava per mano di Don Massimo, che non voleva farla soffrire. Corrado sarebbe di certo tornato dal suo lungo viaggio. Com’è noto, le donne di alcuni romanzi e racconti alvariani sono spesso vittime dell’ambiente familiare e paesano, che li costringe ad affrontare la vita sotto il segno dei sacrifici, delle rinunzie, un po’ come le “madri greche” tanto amate dall’artista. Sono madri legate visceralmente ai figli, fedeli al ruolo riproduttivo, un caposaldo in una famiglia patriarcale costruita nel rispetto di regole secolari. Corrado Alvaro aveva una particolare venerazione per sua madre: una donna dal carattere dolce e caritatevole, Lo scrittore stesso riconosce che il “cammino della sua infanzia (…) era stato un viaggio attraverso la madre (…) “la madre buona come il pane, tenera come la polpa dell’albicocca, limpida come l’acqua” . In “Madre di paese” fa comprendere come la madre lo abbia armato degli strumenti per capire, trasfigurare il mistero della conoscenza, stabilire un contatto creativo con la realtà di scrittura, “ percepire il segreto del mondo ed a trasformare in simbolo universale ogni frammento del cosmo”. L’artista visse a S. Luca fino all’età di nove anni, poi, dovendo divenire poeta (vedi L’età breve), lascia il suo paese per ritornarvi solo in alcune particolari circostanze (ad esempio, in occasione della morte del padre, 1941). Il piccolo borgo natio è però custodito nella sua memoria in modo indelebile; egli è come divorato dai ricordi e sua madre gli si rivela in un alone quasi magico, in un ambiente, il paese, dove i ragazzi giocano liberi come uccelli, felici nonostante la povertà del tempo, protetti da una terra dove “ogni conquista è la tradizione, la vita, il passato, e ogni merce rappresenta le arti più antiche del mondo”.
Mi colpito, tra le altre, la riflessione puntuale del mio caro amico Salvatore Stelitano, che scrive: “Di Don Massimo ricorderò sempre i suoi consigli dati con qualche mezza frase, di gesti fatti senza clamori e di attestati di stima (o disistima) pronunciati con qualche battuta che, accompagnata da quel suo sorriso ironico, doveva essere decifrata e interpretata a fondo per comprenderne il suo significato e spesso la lucidità del giudizio”. Il ritratto, pur sintetico, ben traccia il temperamento Don Massimo Alvaro: schivo, poco incline ai convenevoli, alle mode. Un prete semplice, lontano dal pronunciamento di omelie altosonanti, ai limiti della retorica. Parole normali, come normale era stata la sua esistenza. Non faceva vita mondana, accettava di tanto in tanto l’invito a pranzo di qualche amico. Custode attento delle opere inedite del fratello Corrado, scrittore europeo nato anch’esso a S. Luca (1895) e morto prematuramente a Roma nel 1956 all’età di sessantuno anni, Don Massimo è stato sacerdote per sessantasette anni della piccola comunità di Caraffa del Bianco, dove ha celebrato messa fino all’età di novantacinque anni.
La sua canonica era semplice e priva d’inutili fronzoli. Amava i libri e la cultura. Un uomo “antico” che ricalcava i modelli umani della civiltà contadina che lo aveva partorito. Caraffa del Bianco, però, era più che una seconda patria, forse rappresentava il luogo che lo aveva aiutato a riconciliarsi col mondo. Non aveva molta fiducia nel prossimo Don Massimo, e ciò rappresentava un’angustia forte e tagliente. Tutte le volte che si era fidato degli uomini aveva dovuto prendere atto che La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile.(Corrado Alvaro). E poi doveva combattere con due ansie che ogni volta che i suoi occhi chiari incontravano l’alba si divertivano ad angustiargli l’esistenza. L’ansia di alimentare la vocazione sacerdotale (bisogna mettersi alla prova in ogni gesto, consapevoli che la grazia di Dio ci insegue sempre, soleva ripetermi nei nostri incontri presso la sua canonica) andava a confrontarsi/scontrarsi con la paura di dover conservare le opere inedite di suo fratello Corrado. Studiosi veri e altri di mezza tacca lo incitavano a disfarsene, a consegnare loro il pensiero scritto di suo fratello, e lui, sotto il peso di una cosi schiacciante responsabilità, ne soffriva, spesso s’irrigidiva, divenendo quasi muto. Il suo volto, specie in questi frangenti, prendeva la forma di un “pugno chiuso”, la stessa che il critico Pancrazi coniò per suo fratello Corrado, quando lo vide parlare (anni ‘30) nel corso di un’importante conferenza. Questo dualismo psicologico-culturale avrebbe schiacciato chiunque, ma Don Massimo si affidò sempre alla sua profonda fede cristiana. Di certo le sue preghiere includevano la richiesta d’aiuto perché potesse sopportare un peso cosi grande, per non esserne schiacciato. Non è facile, infatti, essere considerato fratello di uno scrittore di levatura europea. Ci sente posti in seconda fila, subordinati rispetto alle proprie capacità individuali. Ma egli questa interna lacerazione ha saputo affrontarla con equilibrio e onestà intellettuale, senza recriminazioni inutili. E’ stato un prete contadino, nel senso che la sua vita pubblica si è svolta esclusivamente a contatto con la gente semplice. Tutti sapevano della sua profonda cultura, ma quasi nessuno poteva aiutarlo ad alleviare la profonda solitudine intellettuale cui era stato costretto. Negli anni ‘60 sono stato uno dei numerosi chierichetti che animavano la canonica della chiesa di Piazza Nazauro Sauro, a Caraffa, quando la messa era ancora celebrata in latino. Ho conosciuto sua madre, Antonia Giampaolo, di carnagione bianca. Il suo viso era affilato, quasi aristocratico. Parlava poco, ci chiedeva da bere, era sofferente a letto, il suo volto era teso, forse aspettava qualche messaggio scritto di Corrado (morto anzitempo l’11 giugno del 1956 a Roma), che, puntualmente arrivava per mano di Don Massimo, che non voleva farla soffrire. Corrado sarebbe di certo tornato dal suo lungo viaggio. Com’è noto, le donne di alcuni romanzi e racconti alvariani sono spesso vittime dell’ambiente familiare e paesano, che li costringe ad affrontare la vita sotto il segno dei sacrifici, delle rinunzie, un po’ come le “madri greche” tanto amate dall’artista. Sono madri legate visceralmente ai figli, fedeli al ruolo riproduttivo, un caposaldo in una famiglia patriarcale costruita nel rispetto di regole secolari. Corrado Alvaro aveva una particolare venerazione per sua madre: una donna dal carattere dolce e caritatevole, Lo scrittore stesso riconosce che il “cammino della sua infanzia (…) era stato un viaggio attraverso la madre (…) “la madre buona come il pane, tenera come la polpa dell’albicocca, limpida come l’acqua” . In “Madre di paese” fa comprendere come la madre lo abbia armato degli strumenti per capire, trasfigurare il mistero della conoscenza, stabilire un contatto creativo con la realtà di scrittura, “ percepire il segreto del mondo ed a trasformare in simbolo universale ogni frammento del cosmo”. L’artista visse a S. Luca fino all’età di nove anni, poi, dovendo divenire poeta (vedi L’età breve), lascia il suo paese per ritornarvi solo in alcune particolari circostanze (ad esempio, in occasione della morte del padre, 1941). Il piccolo borgo natio è però custodito nella sua memoria in modo indelebile; egli è come divorato dai ricordi e sua madre gli si rivela in un alone quasi magico, in un ambiente, il paese, dove i ragazzi giocano liberi come uccelli, felici nonostante la povertà del tempo, protetti da una terra dove “ogni conquista è la tradizione, la vita, il passato, e ogni merce rappresenta le arti più antiche del mondo”.
Don Massimo amava Caraffa, la sua gente umie, le vecchiette che rispondevano all’invito serale della messa. Mi rendo conto di non averlo capito a fondo, di averlo giudicato poco incline alla socialità. Mi sbagliavo. Un uomo che aveva conosciuto Pirandello, Panzini, Bontempelli e tanti altri grandi intellettuali del Novecento, poteva di certo aspirare ad una vita nella capitale di diversa levatura. Ha scelto la sua piccola/grande Calabria. E senza recriminazioni. Era il suo stile. Aveva appreso l’arte della restanza, per dirla con le parole dell’amico Vito Teti.
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