Saverio Strati versa in condizioni di salute pessime. Non si fa trovare da nessuno, ha staccato il telefono, non comunica più con l’esterno. Probabilmente la caduta dalle scale (abita in Toscana, precisamente a Scandicci, al IV piano di un palazzo privo di ascensore), avvenuta tempo addietro, l’ha debilitato nel fisico e nel morale.
Spiace sapere di questo suo isolamento. Anche se ha quasi novant’anni, è ancora lucido, ma forse non è più curioso, è depresso.
Da circa
quattro anni usufruisce della Legge
Bacchelli, un sussidio che gli consente di
continuare a vivere dignitosamente. Ma quando arriva la cattiva salute,
quando non si trova più la forza per
scrivere, narrare il proprio mondo interiore tutto sembra immerso nell’oblio,
non si ha voglia di andare avanti, di sperare nel futuro. Certi stati
d’animo non tengono conto di quello che si è fatto in tanti anni di proficuo
lavoro intellettuale, alimentano
l’amarezza, allontanano dalla creatività.
Non lo
incontro da molto tempo, ormai. Ho avuto la fortuna e il privilegio di
confrontarmi con lui quando ancora faceva ritorno a S.Agata del Bianco, suo
amato paese natìo, precisamente in contrada Cola.
Incontri che
mi hanno fatto capire tante cose, in particolar modo l’urgenza di adoperarsi in
difesa della nostra memoria storica, del nostro passato/presente.
Una lezione
di vita importante che rammento ancora con riconoscenza.
Ha lottato
tanto, Saverio Strati. Da semplice apprendista-muratore è divenuto “glossa”
della sua gente, si è trasformato in
cantore del bene e del male del Meridione, non facendo sconti a nessuno,
nemmeno a se stesso. Narra dal di
dentro, conosce profondamente, infatti, la materia della sua scrittura, il suo
stile cesella le forme della civiltà contadina, ne delinea le fattezze più
remote, ne sollecita la vera conoscenza. E’ tanto
grande e appassionato il suo amore per i poveri, i diseredati al punto da
estremizzare al massimo il suo linguaggio, il suo stile iper-realista. E’ proprio
tutto vero quello che narra Strati, spesso anche i nomi, le contrade. La sua mente
conserva una galassia sterminata di personaggi, le vicende familiari, gli esiti
di una semina, i tomoli di grano prodotti, le cattive annate dovute alla
siccità o qualche improvvida alluvione.
Un amore viscerale profondo, quasi una ossessione implacabile. In quasi
tutti i suoi romanzi, però, Strati denuncia il nostro cattivo modo di essere,
la nostra cattiva voglia di migliorare le sorti socio-economiche della nostra
terra. Prima di
fermarsi a Scandicci, egli ha conosciuto altre nazioni (Germania, Svizzera),
altre usanze. Ha fotografato realtà in crescita, rispettose delle regole,
attaccate alle loro identità. per questo,
specie in “Noi Lazzaroni( Mondadori, 1972), “Il diavolaro” ( Mondadori, 1980),
“Il selvaggio di Santa Venere”, Mondadori, Premio Campiello, 1977), egli
esprime rabbia per il lassismo della sua
gente, per la imperante rassegnazione che anima il popolo calabrese. Sono
pagine di profonda denuncia sociale,
costringono alla riflessione, fanno arrossire anche le menti più recalcitranti,
specie quando lo scrittore indica le soluzioni per un riscatto non impossibile. “Quando mi trovo a S.Agata e guardo dall’alto
verso il mare sento l’animo che mi si apre; se invece osservo ciò che mi
circonda, se entro nelle case del paese, la sensazione è terribile. Mi prende
un’angoscia davvero infernale. Non è sufficiente guardare le cose dall’esterno,
come ha fatto Carlo levi per la Lucania: il vero dramma è guardarle quelle
cose, quelle situazioni dal di dentro[…] Altro che Calabria pittoresca, altro
che odori, colori, silenzi poetici!…”.
Sono
“arrabbiature” sincere, non vogliono accusare nessuno, tendono a spronare chi è
immerso nel fatalismo, quanti non vogliono lottare contro lo status quo. Mentre il
mondo cambia, si evolve, il meridione appare pietrificato. Mentre in altri lidi
è giunta la primavera, nel Sud regna un inverno fitto, un modello sociale che
intende perpetrare le antiche regole. “C’è sempre
stato in Calabria uno spirito feroce di autodistruzione; la storia stessa della
nostra regione ha questa terribile impronta [… ] il calabrese è terribilmente geloso: guai
se un altro fa un passo più avanti di lui[....] anche il paesaggio risente di
questa indifferenza […]”. Strati (è possibile immaginare la sua profonda
amarezza) di certo si sarà molte volte sentito sconfitto, avrà pensato che le
sue opere non siano servite ad aiutare il suo popolo. Così non è
stato, per fortuna. Ma l’amarezza (quella che angustia l’animo ed il cuore) di
certo l’ha debilitato nel fisico e nel morale. La speranza è
che Strati torni a parlare alla sua gente e al mondo, che continui a battere,
con forza creativa, sui tasti della sua vecchia macchina per scrivere.
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