Nel mondo rurale del secolo
scorso la donna calabrese lavora nei campi, cucina,bada agli animali
domestici, cresce in figli. Così è stato per secoli, le donne
d’Aspromonte lavorano senza sosta, sudano copiosamente nel mentre
trasportano pietre e calce da utilizzare per la costruzione delle
loro piccole case, sfidano le fiumare alle cui rive lavano e fanno asciugare panni,
mettono a bagno le ginestra da cui ricaveranno grezzi vestiti e larghi mantelli
da offrire ai propri sposi .
Mentre il massaro/pastore, specie quello di
lattare (pecore e capre), pascola per un’intera annata il suo gregge, la donna
massara lo sostituisce nella cura e custodia dei prodotti (lana,
formaggi, cereali etc). Un po’ meno disagiata era la vita della massare, mogli di contadini benestanti,
chiamati massari perché
possedevano terreni che venivano lavorati con l’aratro tirato da una paricchia di buoi. La minore
povertà consentiva loro di condurre una vita meno insicura. Molti dei lavori
domestici, però, richiedevano l’aiuto di più donne della ruga,
con le quali, nel tempo libero, collaboravano alle faccende domestiche.
Al nome proprio della moglie del massaro,
si andava ad aggiungere l’appellativo di donna,
indicante per la gente del luogo, il ceto sociale di appartenenza della donna e
quindi della famiglia. Come ci ricorda Emanuela Chiarantano, l’abitazione della massara era sempre aperta a tutti e
le donne andavano a farle visita volentieri, in quanto donna saggia e di cuore.
Infatti le famiglie bisognose del paese si rivolgevano a lei per avere un
lavoro. In determinate periodi dell’anno una delle mansioni svolte dalle
massaie era di preparare e poi recapitare u marzegliu, la prima colazione e u
mangiari, il pranzo al marito e ai suoi uomini che si trovavano a
lavorare nei campi. Il marzegliu, indicava la colazione
delle otto durante il mese di marzo, in quanto le giornate erano più lunghe. La
massaia raggiungeva con a cofina n’testa, cesto in castagno,
il marito che si trovava nei campi con un gruppo di altri uomini che lavoravano
per lui nel suo podere, in questa cesta portava pani, livi
(vvrivi) e fica sicchi.
Alle volte il marzegliu lo portava la figlia
maggiore, poiché la moglie rimaneva a casa a preparare il pranzo che
successivamente sarebbe andata lei a consegnare. Era tradizione che gli
uomini al servizio del massaru mangiassero tre volte a sue spese, così la moglie
doveva preparare anche la cena, attendendo e poi servendo i lavoratori.
Tutta la ricchezza della famiglia si basava sui frutti che dava la terra, molto spesso gli uomini al servizio del
massaru
ricevevano in cambio del lavoro prestato parte del raccolto. Vi era una
sorta di economia del baratto tra il lavoro svolto sia dagli uomini che dalle
donne, ed i beni che si producevano. Durante i momenti vuoti della giornata, la
donna si sedeva sul mignanu, davanti la porta di casa
insieme con le altre vicine di ruga,
a ripezzari
trusci i rrobbi,
rammendare mucchi di indumenti della famiglia, o ricamare le tele precedentemente tessute. La giornata
lavorativa delle massare come quella delle contadine iniziava prima di quella
degli uomini e terminava sempre dopo. Anche alla sera seppur stanca, con la
luce debole della lumera, filava
col suo fusu.
Ora
la lumera si è spenta da un pezzo, a
noi il compito di non disperdere la sua preziosa luce.
Foto postate su FB da Mario Leone
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