mercoledì 13 ottobre 2010

Entroterra in agonia

PER SALVARE LE NUMEROSE ZONE INTERNE CALABRESI ORMAI IN AGONIA, BISOGNA NON PERDERE ALTRO TEMPO PREZIOSO

VI E’ IL RISCHIO CONCRETO CHE INTERE COMUNITA’ DELL’ENTROTERRA ABBANDONINO PER SEMPRE I LUOGHI D’ORIGINE

                                                                di Vincenzo Stranieri

Vivo da sempre in un piccolo comune della vallata La Verde (Locride). Credo di avere scelto una vita stanziale fin dall’infanzia, quando tutto appare vasto e privo d’incognite. L’adolescente, come è giusto che sia, pensa alla vita utilizzando i riferimenti più prossimi: la famiglia, gli amici, la scuola, i giochi, che rappresentano un mondo conchiuso, un bozzolo che attende di aprirsi al giorno che nasce.
Si era figli di contadini, negli anni ’60, pochi gli artigiani ed i professionisti. Le nostre madri, come pure nonni e zie, si presentavano ai nostri occhi come un unico blocco affettivo, simboleggiando le tradizioni e i riti della civiltà contadina: abiti neri indossati per la perdita di qualche familiare, donne davanti alle bocche dei forni comunali nell’atto di cuocere il pane prodotto con grano proprio, i dolci tradizionali, i giochi di un tempo e, soprattutto, la vita all’aria aperta, tra i vicoli stretti del paese, senza i pericoli dell’odierno traffico automobilistico. E’ vero, il mondo cambia, prosegue nel suo lungo cammino. Ma un adolescente non può capire che la vita è un viaggio, spesso accidentato, verso il cosiddetto mondo adulto: famelico e privo di scrupoli. E quindi anch’io non ero preparato a comprendere, crescendo, che la mia terra, la mia regione erano/ sono ancora sottosviluppate e che bisogna/va adoperarsi per mutare in meglio le cose.
A scuola, all’Università mi hanno parlato della questione meridionale, del fatto che i nostri problemi affondavano le loro radici nella “mancata” Unità d’Italia, stante che al Nord stavano le fabbriche, e che l’agricoltura s’era modernizzata a spese della nostra: priva di tecnologia, capace di un’economia chiusa di mero stampo familiare.
Tutto era colpa dello Stato (“Piove, governo ladro”!), eravamo delle vittime predestinate, perché la nostra povertà era frutto d’una precisa strategia culturale da parte delle classi politiche di turno che consideravano il Sud solo un utile bacino elettorale.
Le mie lotte (sindacali, politiche e culturali) le ho fatte carico di ideali, con l’orgoglio di un giovane convinto d’essere sempre nel giusto, manicheo come è normale esserlo a quella età.
Negli anni ‘70, ho visto emigrare interi nuclei familiari. Al vuoto prodotto dalle precedenti fughe, s’aggiungevano così le genti che potevano contribuire alla tanto agognata rinascita delle nostre comunità.
Ma il paese non era in grado d’offrire alcuna sicurezza economica, la forestale era/è il tentativo sbagliato di tenere in loco gente demotivata, attratta, purtroppo, da un lavoro privo di riscontri produttivi, deleterio per le poche abilità artigianali rimaste: il muratore, il fabbro, il calzolaio, il carpentiere, il contadino, si trasformano infatti in operai forestali (spesso precari), lasciandosi lusingare da un impiego demotivante e privo di reali prospettive.
Contestualmente, altri nuclei familiari scelgono di lasciare il luogo d’origine, si trasferiscono nei paesi di marina, investendo i loro risparmi in terreni e case. E la tentazione d’una nuova quanto definitiva diaspora ancor oggi si prospetta all’orizzonte col suo volto maligno. Vi è il rischio concreto che i paesi interni muoiano definitivamente, costituiti come sono da una popolazione composta per la maggior parte da anziani e bimbi. Inoltre, la maggior parte degli studenti che ha conseguito una laurea si è trasferita definitivamente nei maggiori centri urbani del nord, impoverendo ancor più il tessuto sociale dei luoghi d’origine.
Oggi i nostri anziani vivono (subiscono) la solitudine dei loro omologhi urbanizzati. Le loro pensioni danno sollievo alle numerose badanti venute dall’est che, in alcuni casi, formano famiglia, cercando così di trasformare l’emigrazione in evento positivo, e ciò nonostante le difficoltà economiche del luogo in cui hanno deciso di mutare il loro destino. Povertà aggiunta ad altra povertà, dunque.
Il mondo cammina, si muove più velocemente che in passato. Le etnie si mescolano alacremente, stimolano interrogativi e paure, radicalizzano l’idea di appartenenza, sollecitano interventi oppositivi a quelli dell’accoglienza e dell’integrazione. E questo in tutto il mondo occidentale, che si sente minacciato nella sua stabilità economica, scardinato nelle sue strutture di fondo.
Da noi (in Calabria) il problema è poco avvertito, i cosiddetti extracomunitari non tolgono il lavoro a nessuno. E come potrebbero farlo, stante che questo non esiste? Gli emigranti cercano d’inserirsi in modo disparato: giornalieri campagna (i neo braccianti del terzo millennio), badanti (triste neologismo!), commessi, operai, venditori ambulanti etc.
Tali mestieri fanno parte di un‘economia chiusa, senza mercato, spesso di natura familiare. Un’ economia minima, se così può essere definita, che non garantisce a nessuno una sussistenza tranquilla. Crea, questo sì, un aumento, se pur lieve, dei consumi, ma sempre all’interno di una realtà priva di prospettive economiche di largo respiro.
In Storia dei paesi abbandonati di Calabria di Vito Teti (Donzelli, 2004), l’elenco delle comunità interne preda di rovi e lucertole è abbastanza lungo. Lo sguardo dell’antropologo di S. Nicola da Crissa (VV) coglie nelle vecchie mura uno stimolo forte per la conoscenza della storia umana delle nostre genti, delle antiche lotte per la sopravvivenza. Ci troviamo in presenza di “luoghi” fortemente connotati sul piano storico- antropologico, infatti.
Periodicamente, specie il giorno del Santo Patrono, alcuni di questi borghi sono visitati dagli ex abitanti , ed Africo, Casalinuovo, Brancaleone, Nicastrello, Bruzzano Vecchio, Bianco Vecchio, etc., tornano a popolarsi come un tempo.
Ma se è vero che la storia è maestra di vita, allora dobbiamo imparare in fretta che vi é il rischio concreto che anche noi si possa diventare ruderi abbandonati. Una realtà vera, che bussa alle porte con insistenza (Staiti e Ferruzzano Superiore- a esempio- rischiano di divenire paesi fantasma) . E dunque dobbiamo adoperarci perché nessun’altro antropologo scriva ancora una pubblicazione intitolata come quella di Vito Teti, che di certo si è poco divertito a svolgere un compito così mesto.
Danaro pubblico distribuito in mille rivoli: mani rapaci che dilaniano le nostre migliori energie, le nostre ultime speranze di cambiamento. E’ vero, parlar male delle istituzioni regionali e provinciali è un nostro difetto, ma è pure vero che non vi è amore alcuno per la nostra tartassata Calabria. Siamo ultimi in tutto, tranne che nel malaffare politico-mafioso, terreno florido di numerosi mercenari dell’etica e dell’economia.
E gli amministratori locali, con le dovute eccezioni, non vogliono comprendere che in assenza di una progettazione comune di largo respiro, l’implosione socio-economica delle nostre vallate è prossima. Si è perso tempo prezioso, non è più possibile perderne dell’altro, inutile vagabondare negli spazi sterili del campanilismo, perché sulla nave che sta affondando ci stiamo tutti noi, nessuno escluso.
Ma cosa fare perché i paesi interni non muoiano?
So di un vecchio elenco che contiene voci mai depennate.
1. Il turismo (non quello senza infrastrutture adeguate e a prezzi salati, col mare gonfio di scarichi fognari ecc., e con le nostre montagne prive d’arterie viarie, quasi irraggiungibili):
2. gli itinerari storico- culturali, che esistono davvero, ma che attendono d’essere valorizzati e protetti in modo adeguato;
3. l’artigianato (morto da tempo e che non può sperare in alcuna resurrezione?);
4. il cooperativismo (mai decollato, sconosciuto ai più);
5. la zootecnia (vedi  “vacche sacre” e poi muori!)
6. la forestazione (la difesa del territorio, il rimboschimento, la produttività…) può, se si inverte in modo radicale la cultura clientelare che la pervade in tutti i suoi settori, operai inclusi, un serio volano per lo sviluppo delle zone interne. Ma deve essere sganciata dal controllo politico ed affidata ad un sistema manageriale di tipo privatistico all’insegna di un positivo “do ut des”, ovvero si torna a lavorare sul serio, e per farlo bisogna essere presenti sul posto di lavoro, consapevoli che ogni cosa fatta è buona e utile anche e soprattutto per le generazioni future.
7. La diffusione della banda larga anche nei paesi interni non è un fatto secondario, rompe l’isolamento e induce a sperare in qualche iniziativa economica positiva.
8. Varie ed eventuali
L’ironia non fa decollare i nostri paesi, è vero, ma serve, pur se temporaneamente, a mitigare l’amaro fiele custodito in corpo.
Intanto una prima risposta.
I piccoli comuni dell’entroterra devono al più presto applicare la politica delle unioni (preludio dell’unificazione tout court), convenzionare tutti i servizi essenziali, condividendo in tal modo le spese più rilevanti e, di conseguenza, stabilizzare i propri bilanci, non più basati su ipotetiche entrate che, quasi mai, trovano un effettivo riscontro finanziario. Potranno essere così garantiti i servizi essenziali .
La gente, specie in questo particolare momento storico, si sposta nei paesi di marina anche e soprattutto perché i comuni interni sono quasi privi di una rete commerciale e produttiva in grado di soddisfare i bisogni primari delle famiglia. In molte realtà, inoltre, mancano le figure artigianali storicamente più vitali: barbiere, fabbro, calzolaio etc..
Nei comuni che vedono la presenza di queste figure, si nota un certo fermento economico, gli artigiani riescono ad avere una loro autonomia economica, puntando a valorizzare la loro professione nell’ambito geografico d’appartenenza. E dunque non sempre è bene lasciare la collina per il mare.
Fermare l’emorragia dell’emigrazione giovanile non è semplice. Viviamo nel mondo della globalizzazione imperante, i modelli proposti sono molteplici (vi è pure la globalizzazione delle cattive idee, per dirla con Francesca Viscone), ed appare difficile poter chiedere ad un giovane di fermarsi a guardare i bei paesaggi nel mentre il sole illumina le nostre coste.
Non so cosa dire a un giovane. Anche i miei figli, potendo, tornerebbero a vivere al Sud, ma le competenze che stanno acquisendo al Nord non trovano alcun riscontro positivo nel posto da dove sono partiti. Ma senza giovani qualsiasi realtà è costretta a morire, senza la presenza di una forza intellettuale i nostri luoghi ancor prima che scomparire rischiano di divenire dei veri dormitori. E dunque bisogna inventarsi una politica capace di richiamare l’attenzione di aziende che operano nei settori emergenti dell’economia mondiale, ed anche piccole e medie aziende di vario tipo in grado di penetrare il mercato nazionale e non, valorizzando alcuni prodotti tipici che attendono d’essere conosciuti al di là delle nostre aride fiumare.
Per fare ciò, è chiaro, bisogna indirizzare gli investimenti nell’ammodernamento della rete viaria (sia quella ferroviaria che gommata), nelle infrastrutture primarie (vedi autostrada Salerno- Reggio Calabria, Statale 106 e altre importanti bretelle di collegamento col porto di Gioia Tauro, nonché le numerose strade pedemontane, alcune già avviate, perché la nostra regione non sia più considerata una terra lontana e irraggiungibile.
Il tempo non più quello di ieri. Un decennio odierno vale quanto due o tre secoli passati, perché i mutamenti che vi avvengono sono vorticosi e spesso imprevedibili. Siamo dunque ancora in tempo per unire le forze in un’azione dialettica comune che ci aiuti preservare la nostra cultura, le nostre radici. E’ vero, non è sempre bello e proficuo entrare negli immensi spazi del villaggio globale, vi è il rischio di perdere per sempre la propria identità, le proprie forme, ma pure l’inerzia è segnale di un declino che, inevitabilmente, conduce alla scomparsa definitiva delle nostre comunità.
E questo non è cosa buona e giusta.











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