Lei ha
scritto alcuni interessanti saggi su Saverio Strati dai quali si evince una
frequentazione culturale con l’autore de La
Marchesina (1956), se pur limitatamente ai periodi in cui l’artista faceva
ritorno nella sua casa di contrada “Cola” in S. Agata del Bianco, suo paese natio.
E’ vero, ho avuto la fortuna e il piacere di
incontrare diverse volte Saverio Strati. Era sua abitudine ritornare con una
certa regolarità a S. Agata del Bianco, ciò per riposarsi, ma anche per
lavorare ad alcune sue opere. Le bozze de Il
selvaggio di Santa Venere (Premio Campiello 1977) sono state, se mal non
ricordo, riviste e corrette nella casa di contrada “Cola” posta su di un poggio con lo sguardo sul mare Ionio (una
vista che abbraccia circa 50 Km di costa- capo Bruzzano- Punta Stilo). Era sempre
gentile, misurato nei giudizi, ed anche un po’ geloso delle sue cose. Ma ero
troppo giovane per capire la grandezza della sua arte, mi accontentavo di
dialogare sulle bellezze della nostra Magna Grecia, sul fatto che questa era
stata tradita dalle nuove mode e dalla violenza della malavita. Ricordo le sue
esortazioni a lavorare in difesa della civiltà contadina. “E’ il nostro humus,
non tradiamolo”, soleva ripetermi. Le sue parole facevano trasparire l’angoscia
per un mondo ormai preda del cosiddetto vivere moderno. Una lezione che non ho
dimenticato e che, tra l’altro, sta alla base delle mie recenti ricerche etnografiche.
Gli ho fatto avere “La Koinè
agro-pastorale nella Locride (Massari e pastori tra medioevo e modernità) Age,
Ardore Marina 2010, mia ultima fatica antropologica. Per telefono si è detto
commosso, ricorda molti dei protagonisti citati nel mio saggio, le numerose
foto lo hanno aiutato a ricordare alcuni eventi del suo/nostro passato. Per non
disturbarlo, mi limito a qualche sporadica telefonata.
In un
recente saggio, lei ha scritto che Saverio Strati si è fatto da solo, ha
edificato la propria scrittura lontano dagli odierni “ascensori sociali”. Vuole
spiegarci meglio tale concetto?
Fino a vent’anni, Strati ha fatto il muratore, non si
è mosso dal paese, ha conosciuto la fatica, quella che emana sudore, che rende
gli uomini carne bruciata dal sole o, diversamente, scalfita dal vento e dal
freddo che non manca nelle montagne calabresi. Ha lavorato ad Africo Vecchio,
prima che l’alluvione dell’ottobre 1951 lo rendesse un paese fantasma. Qui,
poi, ha ambientato il suo primo romanzo (La teda, 1957). Ha narrato dal di
dentro l’amara realtà di Terrarossa, il suo isolamento, la sua particolare
condizione antropologica. La scrittura stava, pur se lentamente, lievitando nel
suo animo e, spinto da un bisogno vero quanto incontenibile, intraprese la via
degli studi. A Messina, assieme a Walter
Pedullà e Carmelo Filocamo, fu allievo del grande critico Giacomo de Benedetti,
che, letti i suoi primi racconti, lo incoraggiò ad andare avanti “segnalandolo”
alla Casa Mondadori e ad alcune importanti riviste del tempo (“Il Ponte” etc). Era un “ascensore sociale” lecito, di quelli che,
appunto, segnalano un valore vero, non
un fesso qualunque privo di talento. Certo, dalla sua ebbe anche la fortuna. In
quegli anni il cinema era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti
popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi
subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché
anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a quella cineasta.
Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e
in numero notevole. A mio modesto avviso, le pagine più belle su Strati sono
state scritte da Pasquino Crupi, che gli ha dedicato un’intera monografia,
Walter Pedullà, Giuliano Manacorda e Geno Pampaloni. Strati abita da circa
quarant’anni a Scandicci, alle porte di Firenze, al quarto piano di un
fabbricato privo di ascensore (sic!); egli ha dedicato la sua esistenza
all’arte, al punto da non pensare ad altro, ai soldi, ad esempio. E ha dovuto,
a malincuore, chiedere per sé la Bacchelli, un sussidio per continuare a
vivere. Altro che ascensore sociale! Strati ha sempre pensato alla sua
Calabria, se la è cucita addosso per sempre, come delle stimmate.
Saverio
Strati, il primo dicembre prossimo, sarà insignito della “laurea ad honorem” in Scienze letterarie (Filologia Moderna) presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Cosa ci dice?
L’Unical ha voluto con forza che a Saverio Strati fosse
conferito tale titolo. A tal fine, il
ministro Gelmini è stato “incalzato” a più riprese perché firmasse l’autorizzazione
di sua competenza. Tra i principali sostenitori di tal evento vi sono i Proff.
Vito Teti, Nicola Merola, Margherita Graneri e Raffaele Perrelli, Preside della
Facoltà di Lettere. Vito Teti (ordinario di Etnologia e Direttore del Dipartimento
di Filologia e del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo) è amico
dell’artista calabrese, si stimano da qualche tempo; l’etnologo di S. Nicola da
Crissa ha pubblicato parecchi saggi sullo scrittore di S. Agata del Bianco, dove,
oltre alla valenza letteraria, ha tratteggiato con maestria il valore
antropologico della sua opera. A
Saverio Strati, negli anni cinquanta, mancava solo la discussione della tesi
per conseguire la laurea in Lettere. Subito venne la letteratura, il tempo
doveva essere impiegato per edificarsi scrittore, e il titolo fu messo da
parte, con grande dispiacere per i suoi genitori-contadini, che speravano tanto
in un figlio laureato. Peccato che la salute cagionevole non consenta al nostro
amato artista di partecipare all’importante cerimonia (a ricevere per
lui la preziosa pergamena sarà sua nipote Palma Comandé, scrittrice); sarebbe bello assistere alla sua emozione,
nel mentre – di certo- dedica la preziosa onorificenza anche ai suoi cari
genitori.
Se le affidassero l’incarico di scrivere
la motivazione della laurea ad honorem a Saverio Strati, cosa scriverebbe?
“ A Saverio Strati, nato a S. Agata del Bianco il 16
agosto 1924, è conferita la laurea ad honorem in Scienze Letterarie perché per
mezzo dei suoi numerosi romanzi sulla civiltà contadina e l'emigrazione del
popolo meridionale, ha saputo dare dignità e fisionomia a un mondo che,
altrimenti, la cultura ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore
delle ipotesi, trasformato in mero
folclore".
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