di Vincenzo
Stranieri
Ho letto con piacevole sorpresa,
nonché con un certo ritardo, le poesie di Salvino Nucera pubblicate
dall’editore Qualecultura- Jaca Book di Vibo Valentia (1999), intitolate Chimàrri
(Rivoli). Avevo già apprezzato l’animo lirico dell’autore in Chalònero
(Sogno svanito), primo romanzo in assoluto della letteratura in lingua
greca di Calabria, e nella raccolta di poesie Agapao na graspo (Amo
scrivere). Come per le due opere citate, anche in Chimàrri,
oltre alla versione in dialetto grecanico, vi è a fronte quella in lingua
italiana.
E’ una persona singolare Salvino
Nucera: riservato ma non chiuso in se stesso, essenziale nel linguaggio parlato
ma non per questo poco comunicativo. La sua natura umana sa di equilibrio, pur
nel vortice che avviluppa ogni umana esistenza interessata a percorrere
lo stretto sentiero della conoscenza.
Chi scrive narra sempre se stesso,
anche quando parla di cose che paiono distanti da lui, e ciò perché non esiste
alcuna dicotomia tra scrittura e materia trattata.
Nel caso di Salvino, avviene un
fenomeno insolito: la scrittura, oltre ad essere impegno artistico tout court,
è contestualmente memoria, testimonianza di un patrimonio culturale che diviene
storia umana, luogo dove reperire le forme migliori dei greci di Calabria.
Nucera ben conosce l’antico dialetto
dei paesi grecanici (Roghudi, Chorìo di Roghudi, Bova, Roccaforte del Greco,
Pentedattilo, Africo Vecchio e Casalinuovo, Condofuri etc.) posizionati in
luoghi montani a metà strada tra Locri e Reggio.
Luoghi quasi tutti disabitati, e per
questo oggetto di studio di Vito Teti (vedi Il senso dei luoghi. Memoria e
storia dei paesi abbandonati, (prefazione di Predrag Matvejevic), Donzelli,
Roma 2004) che, accompagnato da Salvino, non poteva essere altrimenti, ha
provveduto, se così è permesso, al loro triste censimento. Quella di Vito Teti
e Salvino Nucera non è stata un’escursione tra vecchi amici, ma un
viaggio intellettuale dentro l’animo dei numerosi paesi abbandonati di
Calabria, i cui ruderi risultano sconosciuti e privi di senso soprattutto ai
calabresi, che, in quanto a volontà di conoscenza, a valorizzazione della
propria storia, peccano senza particolari rimorsi.
Una lingua in via d’estinzione,
quella grecanica, per via dello spopolamento di questi luoghi aspri e mal
collegati, nonché, nel corso dei secoli, oggetto di terremoti e devastanti
alluvioni. Oggi, purtroppo, solo pochissimi “anziani agricoltori e pastori
parlano ancora il dialetto greco che, giunto fino a noi attraverso una
tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un passato ed una
sua storia”(G.A.Crupi).
Ed è bene ribadire a gran voce che
non bisogna avere paura dei dialetti, specie nell’epoca odierna della
globalizzazione, che sì unisce ma pure disgrega, che sì fa crescere
l’integrazione a livello mondiale ma pure alimenta il seme della non
appartenenza.
“ Occorre cioè passare dalla
“vergogna” di parlare greco, all’orgoglio di parlare greco; dal sentire la
propria grecità come una condizione negativa alla valorizzazione di essa come
fatto di ricchezza culturale e sociale”. (S.Zito).
Tutto questo è ben presente nella
coscienza di Salvino (per fortuna, altri assieme a lui sono impegnati
perché detta lingua non muoia, pur se la lotta appare quanto mai ardua e
densa d’insidie).
Tutte le lingue sono in pericolo, da
quelle ufficiali a quelle delle più minoritarie genìe.
Il pericolo d’estinzione lambisce in
modo subdolo anche le lingue dialettali che hanno resistito all’ansia del
tempo, quelle che, per fortuna, nei nostri paesi vengono ancora trasmesse
oralmente (quasi nessuno sa però scrivere in dialetto, pochi ne conoscono le
non facili regole lessicali).
In Chimàrri la prima
cosa che si rivela in modo inequivocabile è la condizione di perenne emigrato
dell’autore. Per circa un decennio ha insegnato Lettere in diverse scuole medie
del bergamasco, poi è tornato a Chorìo di Roghudi per assistere gli anziani
genitori, per ritornare a Bergamo e di nuovo far ritorno in Calabria. Ma questa
volta non più nella casa paterna. In paese è rimasto solo qualche pastore, le
popolazioni montane dei paesi grecanici, causa l’incuria e gli esiti nefasti
delle alluvioni degli anni ’70, sono stati trasferiti in marina, in case
alveari senza alcuna identità.
Salvino vive in Calabria da
forestiero, nel senso che si sente culturalmente radicato, ma
nell’impossibilità fisica di vivere nel paese dove ha trascorso molti anni
della sua vita. E per continuare a vivere senza lamenti e nostalgie capaci di
trafiggere il cuore, intensifica, con intelligenza e raffinatezza culturale rare,
il suo impegno culturale in difesa di se stesso e dunque della sua cultura
natia. Ma per fare questo deve “uccidere” il paese, lo deve trasformare in
metafora di vita.
Difatti, “L’emigrato - come ci
ricorda Vito Teti - ha bisogno di non dimenticare il punto di partenza e, nello
stesso tempo, non può restare irretito nella trappola di una memoria, che
spesso mitizza, falsifica, inventa il passato. L’emigrato deve uccidere il
paese e, insieme, farlo rivivere. Egli non può restare prigioniero dei ricordi,
ma ha bisogno che i ricordi fondino nuove azioni”.
Le azioni poetiche di Salvino,
in Chimàrri sono straordinariamente fertili, disegnano il
passato-presente con immagini liriche dense di passioni amare e laceranti
(La fantasia vola/farfalla fra i fiori/ma in nessun luogo aspetta), ma
anche capaci di ridestare nella memoria del cuore un mondo dove La
vita è un sorriso felice/un saluto scritto negli occhi di una donna/ Un soffio
del vento/Il guado di un fiume/ che scende riversandosi in mare.
Sul piano fonetico il lettore può
assaporare ritmi semantici di una lingua ancora viva e palpitante.
NASIDA
Sti mmegàli thàlassa
crimmèni st’arthàmmiasu
feni mia nasìda
chlorì, andìgghi.
I spichi chamèni
sto chìmarro ti zoì
theli n’apotonài
mesa ste ppàsine merìe
ismìa me tin Agàpi
sulavrònda i cossìfi
ta riàcia tragudònda.
|
ISOLA
Sul mare sconfinato
nascosto nei tuoi occhi
s’intravede un’isola
lussureggiante, assolata.
L’anima sperduta
nel rigagnolo della vita
anela riposarsi
nei lidi ospitali
assieme all’Amore
tra il fischiettìo dei merli,
il mormorìo dei ruscelli
|
Nessun commento:
Posta un commento