venerdì 20 settembre 2013

L’antico dialetto dei paesi grecanici posti tra impervie montagne a metà strada tra Locri e Reggio Calabria . A Salvino Nucera (Chorìo di Roghudi, 1952) si deve un innovativo ampliamento degli orizzonti compositivi con un percorso che tenta di coniugare una lingua molto arcaica, dall'aspro e, talvolta, ristretto bagaglio lessicale con nuove esigenze espressive.



di  Vincenzo Stranieri
Ho letto con piacevole sorpresa, nonché con un certo ritardo, le poesie di Salvino Nucera pubblicate dall’editore Qualecultura- Jaca Book di Vibo Valentia (1999),  intitolate Chimàrri (Rivoli). Avevo già apprezzato l’animo lirico dell’autore  in  Chalònero (Sogno svanito), primo romanzo in assoluto della letteratura in lingua greca di Calabria, e nella raccolta di poesie Agapao na graspo (Amo scrivere). Come per le due opere citate, anche in Chimàrri, oltre  alla versione in dialetto grecanico, vi è a fronte quella in lingua italiana.

E’ una persona singolare Salvino Nucera: riservato ma non chiuso in se stesso, essenziale nel linguaggio parlato ma non per questo poco comunicativo. La sua natura umana sa di equilibrio, pur nel vortice che avviluppa ogni  umana esistenza interessata a percorrere lo stretto sentiero della conoscenza.
Chi scrive narra sempre se stesso, anche quando parla di cose che paiono distanti da lui, e ciò perché non esiste alcuna dicotomia tra scrittura e   materia trattata.
Nel caso di Salvino, avviene un fenomeno insolito: la scrittura, oltre ad essere impegno artistico tout court, è contestualmente memoria, testimonianza di un patrimonio culturale che diviene storia umana, luogo dove reperire le forme migliori dei greci di Calabria.
Nucera ben conosce l’antico dialetto dei paesi grecanici (Roghudi, Chorìo di Roghudi, Bova, Roccaforte del Greco, Pentedattilo, Africo Vecchio e Casalinuovo, Condofuri etc.) posizionati in luoghi montani a metà strada tra Locri e Reggio.
Luoghi quasi tutti disabitati, e per questo oggetto di studio di Vito Teti (vedi Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, (prefazione di Predrag Matvejevic), Donzelli, Roma 2004) che, accompagnato da Salvino, non poteva essere altrimenti, ha provveduto, se così è permesso, al loro triste censimento. Quella di Vito Teti e Salvino Nucera non è stata un’escursione tra vecchi amici, ma un  viaggio intellettuale dentro l’animo dei numerosi paesi abbandonati di Calabria, i cui ruderi risultano sconosciuti e privi di senso soprattutto ai calabresi, che, in quanto a volontà di conoscenza, a valorizzazione della propria storia, peccano senza particolari rimorsi.
Una lingua in via d’estinzione, quella grecanica, per via dello spopolamento di questi luoghi aspri e mal collegati, nonché, nel corso dei secoli, oggetto di terremoti e devastanti alluvioni. Oggi, purtroppo, solo pochissimi “anziani agricoltori e pastori parlano ancora il dialetto greco che, giunto fino a noi attraverso una tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un passato ed una sua storia”(G.A.Crupi).
Ed è bene ribadire a gran voce che non bisogna avere paura dei dialetti, specie nell’epoca odierna della globalizzazione, che sì unisce ma pure disgrega, che sì fa crescere l’integrazione a livello mondiale ma pure alimenta il seme della non appartenenza.
“ Occorre cioè passare dalla “vergogna” di parlare greco, all’orgoglio di parlare greco; dal sentire la propria grecità come una condizione negativa alla valorizzazione di essa come fatto di ricchezza culturale e sociale”. (S.Zito).
Tutto questo è ben presente nella coscienza di Salvino (per fortuna, altri assieme a lui sono impegnati  perché detta lingua non muoia, pur se la lotta  appare quanto mai ardua e densa d’insidie).
Tutte le lingue sono in pericolo, da quelle ufficiali a quelle delle più minoritarie genìe.
Il pericolo d’estinzione lambisce in modo subdolo anche le lingue dialettali che hanno resistito all’ansia del tempo, quelle che, per fortuna,  nei nostri paesi vengono ancora trasmesse oralmente (quasi nessuno sa però scrivere in dialetto, pochi ne conoscono le non facili regole  lessicali).
In Chimàrri  la prima cosa che si rivela in modo inequivocabile è la condizione di perenne emigrato dell’autore. Per circa un decennio ha insegnato Lettere in diverse scuole medie del bergamasco, poi è tornato a Chorìo di Roghudi per assistere gli anziani genitori, per ritornare a Bergamo e di nuovo far ritorno in Calabria. Ma questa volta non più nella casa paterna. In paese è rimasto solo qualche pastore, le popolazioni montane dei paesi grecanici, causa l’incuria e gli esiti nefasti delle alluvioni degli anni ’70, sono stati trasferiti in marina, in  case alveari senza alcuna identità.
Salvino vive in Calabria da forestiero, nel senso che si sente culturalmente radicato, ma nell’impossibilità fisica di vivere nel paese dove ha trascorso molti anni della sua vita. E per continuare a vivere senza lamenti e nostalgie capaci di trafiggere il cuore, intensifica, con intelligenza e raffinatezza culturale rare, il suo impegno culturale in difesa di se stesso e dunque della sua cultura natia. Ma per fare questo deve “uccidere” il paese, lo deve trasformare in metafora di vita.
Difatti, “L’emigrato - come ci ricorda Vito Teti - ha bisogno di non dimenticare il punto di partenza e, nello stesso tempo, non può restare irretito nella trappola di una memoria, che spesso mitizza, falsifica, inventa il passato. L’emigrato deve uccidere il paese e, insieme, farlo rivivere. Egli non può restare prigioniero dei ricordi, ma ha bisogno che i ricordi  fondino nuove azioni”.
Le azioni poetiche di  Salvino, in Chimàrri sono straordinariamente fertili, disegnano il passato-presente con immagini liriche dense di passioni  amare e laceranti (La fantasia vola/farfalla fra i fiori/ma in nessun luogo aspetta), ma anche capaci di ridestare nella memoria del cuore un mondo dove  La vita è un sorriso felice/un saluto scritto negli occhi di una donna/ Un soffio del vento/Il guado di un fiume/ che scende  riversandosi in mare.
Sul piano fonetico il lettore può assaporare ritmi semantici di una lingua ancora viva e palpitante.
NASIDA
Sti mmegàli thàlassa
crimmèni st’arthàmmiasu
feni mia nasìda
chlorì, andìgghi.
I spichi chamèni
sto chìmarro ti zoì
theli n’apotonài
mesa ste ppàsine merìe
ismìa me tin Agàpi
sulavrònda i cossìfi
ta riàcia tragudònda.

ISOLA
Sul mare sconfinato
nascosto nei tuoi occhi
s’intravede un’isola
lussureggiante, assolata.
L’anima sperduta
nel rigagnolo della vita
anela riposarsi
nei lidi ospitali
assieme all’Amore
tra il fischiettìo dei merli,
il mormorìo dei ruscelli



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