di
Vincenzo Stranieri
Con
Gioacchino Criaco, scrittore nato ad Africo (RC), la letteratura italiana ha
inserito nel suo grembo un artista pregevole quanto inaspettato. “Anime nere”,
romanzo d’esordio pubblicato da Rubbettino nel 2008, è divenuto, grazie al
passaparola dei lettori, un caso letterario, facendo conoscere al grosso
pubblico il popolo dei boschi, così Criaco ama definire i suoi pastori
d’Aspromonte, che, con le loro gesta efferate, hanno, paradossalmente,
contribuito alla conoscenza di un popolo ancora in fuga (Africo, paese
aspromontano, a seguito dell’alluvione dell’ottobre 1951, è stato trasferito
coattamente nelle lande desolate di un arido terreno adiacente capo Bruzzano,
poco distante dal mare Ionio). Una diaspora che, per lo scrittore, sta alla
base del demone delinquenziale che si è impadronito di un popolo per millenni
abbarbicato sui crinali d’impervi costoni e che, per questo ed altro, stenta di
darsi un’identità concreta.
Criaco
appartiene alla schiera di scrittori-testimoni che si sono accollati l’arduo
compito d’essere voce narrante della comunità natia. Nel suo caso, il luogo
d’origine è antropologicamente sospeso tra un recente passato (la montagna
amica, i boschi ricchi di ghianda, il pane nero, le foto scattate ad Africo da
Tino Petrelli nel 1948, la preziosa testimonianza di Umberto Zanotti Bianco etc.)
ed un presente preda dei flutti del mar Ionio.
Quello
di Criaco può essere definito un diario di bordo, la testimonianza diretta di
chi conosce le imprese omicide, le rapine e tanti altri misfatti commessi dalle
anime nere che, deliberatamente, hanno scelto la via del male, la stessa
che si respira in Zefìra, secondo romanzo noir di Criaco.
Ho faticato non poco a leggere Anime nere. Alcune
pagine le ho rilette più volte. Il linguaggio dell’autore osserva una scala
musicale, se cosi è permesso dire, alquanto desueta. Abbassa i toni allorquando
ci si aspetta degli acuti, emette quest’ultimi senza preavviso, disorientando,
ma solo agli inizi, il lettore, che sbanda, si guarda attorno, annaspa alla
ricerca di un appiglio certo. La bellezza del libro sta proprio nel linguaggio:
sequenze brevi ma efficaci con dietro l’intento di delineare l’esegesi del
demone che si è impadronito dei protagonisti (Luciano, Luigi e
la voce narrante). Forse l’autore si è ispirato alla pastorizia (si
vanta, giustamente, d'essere figlio di servi di pastori ed agogna di tornare a
fare il pastore in Aspromonte) ad un mondo che scandiva i suoi tempi senza
fretta, con meticolosità, la stessa che ha armato i giovani ‘ndranghetisti
narrati nel romanzo. Criaco tiene a precisare che “
Anime nere non è un semplice romanzo, è l’urlo di dolore di un popolo. Di una
generazione che ha fatto il male. Ma di quel male è la prima vittima (…).
Una schiera di superstiti, che si mostra
nuda confessando peccati ed errori. Che implora i ragazzi a non percorrere il
loro nauseante viaggio infernale. Che ha preso coscienza del male fatto, e non
ricerca alibi o facili vie di fuga. Una schiera di supersiti che però non è
ipocrita.
Che non vede un mondo splendido intorno a se. Che riconosce i propri errori, ma é conscia delle colpe altrui. Che vuol cambiare per se stessa e non perché moralmente inferiore alla realtà circostante. Che è cattiva ma non mafiosa, anzi nella ‘ndrangheta ha sempre individuato il suo nemico peggiore, il responsabile principale della propria autodistruzione.
Le anime nere hanno combattuto una guerra sbagliata, trasformandosi man mano in esseri simili ai loro carnefici. Hanno subito piccole e grandi ingiustizie, alle quali hanno reagito con l’unico mezzo che conoscevano, la violenza. Oggi hanno rimosso definitivamente e unilateralmente la violenza dalle loro vite, e a lei non torneranno più. Ma continuano a subire piccoli soprusi da chi si ritiene migliore di loro”. (“La Riviera”, 31 gennaio 2010 pag.15). E’ vero, non è un messaggio facile da digerire quello di Criaco. Non mi è ancora chiaro- tanto per cominciare- se Luciano e Luigi sono figli della vecchia ‘ndrangheta (l’Onorata Società) o dei semplici cani sciolti che, pur applicando i comportamenti e i codici dei vecchi malavitosi un tempo operanti tra i vasti boschi dell’ Aspromonte, sono altro da quest’ultimi perché capaci di pagare per intero il male commesso e, soprattutto, perché consapevoli dei gravi errori commessi. Se è questo l’intimo desiderio di Criaco, quello di differenziare le colpe di alcuni giovani scellerati dal resto di un'organizzazione criminale i cui traffici sono ormai divenuti planetari, allora ci troviamo dinanzi ad un’opera sì noir ma con una decisa impronta sociologica dove l’artista è la voce narrante di un’esigua minoranza di africoti che, sbagliando, ha pensato di edificarsi seminando inopinatamente lutti e rovine. Nondimeno, utilizzare il paravento dell’esodo forzato dalla montagna alla marina come motivo scatenante della realtà delinquenziale di una comunità, mi sembra alquanto fuorviante. Il seme ‘ndranghetistico era già presente ancor prima della tragica alluvione del 1951 e non solo ad Africo ma in quasi tutti i paesi del reggino. E’ vero, invece, che la realtà rivierasca ha consentito alla ‘ndrangheta di promuovere con maggiore rapidità la sua azione criminale. Su “Famiglia Cristiana” (n.44/2009, p.105) Luciano Scalettari ha scritto di Zèfira utilizzando una tecnica efficace: il critico recensisce facendo parlare quasi in simultanea l’autore pervenendo così ad un breve ma interessante saggio a due voci. Nel romanzo, annuncia Scalettari, “l’intrigo comincia subito. Due pagine, non di più, e avviene il primo omicidio. Niente preamboli. Zefìra, il secondo romanzo noir di Gioacchino Criaco, parte a ritmo serrato e non lascia tregua (… ) Criaco sembra raccontare di delitti e di indagini, ma in Zefìra com’era anche in Anime Nere, la scena conta tanto quanto i protagonisti che vi si muovono.
Perché pagina dopo pagina emerge un pezzo di Calabria, e vi si narra una realtà misconosciuta, quella dei “ragazzi della Locride”, come li chiama l’autore ( …) Così, in Zèfira, nel ruolo di protagonista Criaco mette un commissario di polizia milanese, giunto da pochi mesi dalla metropoli del nord. Un commissario sveglio che, analizzata la situazione, ritiene presto di essersi fatto un’idea chiara della realtà in cui si trova. Uno stratagemma efficace, dal punto di vista narrativo, perché l’investigatore si trova a vivere un progressivo strania mento, dove ciò che sembrava chiaro diventa confuso e l’evidenza delle cose sbiadirà fino a perdere contorni e distinzioni”. Specie in tale frangente, il romanzo risente della presenza ingombrante di Leonardo Sciascia, particolarmente delle atmosfere sociologiche de “Il giorno della civetta”. Ma ciò non è un male. Sciascia è un maestro di cui non si può fare a meno, infatti. A Criaco, comunque, , va riconosciuto il merito di opporsi con caparbietà agli stereotipi che vigono su Africo: ‘ndrangheta, solo ‘ndrangheta, egli, con passione e senso dell’appartenenza, cerca di spiegare che ad Africo c’è una bella gioventù che aspetta una sua legittimazione storico-culturale. E in ciò fa bene a insistere.
Tuttavia Criaco sostiene che “Oltre il noir c’è un altro piano di lettura, che cerca di far vedere l’immobilismo millenario che caratterizza questa società. E’ un mondo dove si ereditano le professioni, il ruolo sociale, la propria “casella”. Quel sistema ha interesse ad autoconservarsi, e dice ai ragazzi della Locride che il loro destino è puzzare di capra facendo i pastori. O sulla strada”. Non è semplice capire dove, specie in questo frangente storico, andrà a posizionarsi il popolo dei boschi. Tornare in montagna è ormai impossibile, lì non ci sono più capre, esiste solo il silenzio dei boschi, i giovani dovranno sbrigarsela diversamente, facendo tesoro proprio da quanto narrato dal loro compaesano dovranno sforzarsi, con o senza la presenza dello Stato, di non divenire le nuove “Anime nere”. Eviterebbero così di farsi del male, un male fatto di sangue e delitti, aiutando Criaco e tutta la società civile dell’ex popolo dei boschi a sfuggire in modo definitivo allo stereotipo che raffigura Africo con l’effige del male. Tuttavia, chi intende essere la voce narrante di un microcosmo criminale rischia di limitare la propria azione culturale in nome e per conto di un mondo conchiuso, salvaguardando atmosfere e vicende ormai preda della cronaca giornalistica. La realtà umano-culturale di Criaco- e con ciò spero di non addentrarmi in valutazioni affrettate -, non credo sia rapportabile con le vicende vissute dalle anime nere delle sue prime due opere letterarie. Sarebbe un suicidio culturale, un’incomprensibile immolazione sull’altare di una solidarietà cieca. Il suo linguaggio- come anticipato- può senz’altro aspirare a mete più vaste, universali. Chi scrive- ma il discorso vale per qualunque forma artistica- è impegnato a rivelare agli altri il proprio mondo intellettuale. E lo compie mettendo in azione uno scavo interiore pregno di fatica. Non è facile denudare il proprio essere. Non è semplice smascherare i propri sentimenti. Una fatica senza la quale, però, l’impegno artistico diviene sterile pantomima. E questo, a Criaco, non deve accadere.
Che non vede un mondo splendido intorno a se. Che riconosce i propri errori, ma é conscia delle colpe altrui. Che vuol cambiare per se stessa e non perché moralmente inferiore alla realtà circostante. Che è cattiva ma non mafiosa, anzi nella ‘ndrangheta ha sempre individuato il suo nemico peggiore, il responsabile principale della propria autodistruzione.
Le anime nere hanno combattuto una guerra sbagliata, trasformandosi man mano in esseri simili ai loro carnefici. Hanno subito piccole e grandi ingiustizie, alle quali hanno reagito con l’unico mezzo che conoscevano, la violenza. Oggi hanno rimosso definitivamente e unilateralmente la violenza dalle loro vite, e a lei non torneranno più. Ma continuano a subire piccoli soprusi da chi si ritiene migliore di loro”. (“La Riviera”, 31 gennaio 2010 pag.15). E’ vero, non è un messaggio facile da digerire quello di Criaco. Non mi è ancora chiaro- tanto per cominciare- se Luciano e Luigi sono figli della vecchia ‘ndrangheta (l’Onorata Società) o dei semplici cani sciolti che, pur applicando i comportamenti e i codici dei vecchi malavitosi un tempo operanti tra i vasti boschi dell’ Aspromonte, sono altro da quest’ultimi perché capaci di pagare per intero il male commesso e, soprattutto, perché consapevoli dei gravi errori commessi. Se è questo l’intimo desiderio di Criaco, quello di differenziare le colpe di alcuni giovani scellerati dal resto di un'organizzazione criminale i cui traffici sono ormai divenuti planetari, allora ci troviamo dinanzi ad un’opera sì noir ma con una decisa impronta sociologica dove l’artista è la voce narrante di un’esigua minoranza di africoti che, sbagliando, ha pensato di edificarsi seminando inopinatamente lutti e rovine. Nondimeno, utilizzare il paravento dell’esodo forzato dalla montagna alla marina come motivo scatenante della realtà delinquenziale di una comunità, mi sembra alquanto fuorviante. Il seme ‘ndranghetistico era già presente ancor prima della tragica alluvione del 1951 e non solo ad Africo ma in quasi tutti i paesi del reggino. E’ vero, invece, che la realtà rivierasca ha consentito alla ‘ndrangheta di promuovere con maggiore rapidità la sua azione criminale. Su “Famiglia Cristiana” (n.44/2009, p.105) Luciano Scalettari ha scritto di Zèfira utilizzando una tecnica efficace: il critico recensisce facendo parlare quasi in simultanea l’autore pervenendo così ad un breve ma interessante saggio a due voci. Nel romanzo, annuncia Scalettari, “l’intrigo comincia subito. Due pagine, non di più, e avviene il primo omicidio. Niente preamboli. Zefìra, il secondo romanzo noir di Gioacchino Criaco, parte a ritmo serrato e non lascia tregua (… ) Criaco sembra raccontare di delitti e di indagini, ma in Zefìra com’era anche in Anime Nere, la scena conta tanto quanto i protagonisti che vi si muovono.
Perché pagina dopo pagina emerge un pezzo di Calabria, e vi si narra una realtà misconosciuta, quella dei “ragazzi della Locride”, come li chiama l’autore ( …) Così, in Zèfira, nel ruolo di protagonista Criaco mette un commissario di polizia milanese, giunto da pochi mesi dalla metropoli del nord. Un commissario sveglio che, analizzata la situazione, ritiene presto di essersi fatto un’idea chiara della realtà in cui si trova. Uno stratagemma efficace, dal punto di vista narrativo, perché l’investigatore si trova a vivere un progressivo strania mento, dove ciò che sembrava chiaro diventa confuso e l’evidenza delle cose sbiadirà fino a perdere contorni e distinzioni”. Specie in tale frangente, il romanzo risente della presenza ingombrante di Leonardo Sciascia, particolarmente delle atmosfere sociologiche de “Il giorno della civetta”. Ma ciò non è un male. Sciascia è un maestro di cui non si può fare a meno, infatti. A Criaco, comunque, , va riconosciuto il merito di opporsi con caparbietà agli stereotipi che vigono su Africo: ‘ndrangheta, solo ‘ndrangheta, egli, con passione e senso dell’appartenenza, cerca di spiegare che ad Africo c’è una bella gioventù che aspetta una sua legittimazione storico-culturale. E in ciò fa bene a insistere.
Tuttavia Criaco sostiene che “Oltre il noir c’è un altro piano di lettura, che cerca di far vedere l’immobilismo millenario che caratterizza questa società. E’ un mondo dove si ereditano le professioni, il ruolo sociale, la propria “casella”. Quel sistema ha interesse ad autoconservarsi, e dice ai ragazzi della Locride che il loro destino è puzzare di capra facendo i pastori. O sulla strada”. Non è semplice capire dove, specie in questo frangente storico, andrà a posizionarsi il popolo dei boschi. Tornare in montagna è ormai impossibile, lì non ci sono più capre, esiste solo il silenzio dei boschi, i giovani dovranno sbrigarsela diversamente, facendo tesoro proprio da quanto narrato dal loro compaesano dovranno sforzarsi, con o senza la presenza dello Stato, di non divenire le nuove “Anime nere”. Eviterebbero così di farsi del male, un male fatto di sangue e delitti, aiutando Criaco e tutta la società civile dell’ex popolo dei boschi a sfuggire in modo definitivo allo stereotipo che raffigura Africo con l’effige del male. Tuttavia, chi intende essere la voce narrante di un microcosmo criminale rischia di limitare la propria azione culturale in nome e per conto di un mondo conchiuso, salvaguardando atmosfere e vicende ormai preda della cronaca giornalistica. La realtà umano-culturale di Criaco- e con ciò spero di non addentrarmi in valutazioni affrettate -, non credo sia rapportabile con le vicende vissute dalle anime nere delle sue prime due opere letterarie. Sarebbe un suicidio culturale, un’incomprensibile immolazione sull’altare di una solidarietà cieca. Il suo linguaggio- come anticipato- può senz’altro aspirare a mete più vaste, universali. Chi scrive- ma il discorso vale per qualunque forma artistica- è impegnato a rivelare agli altri il proprio mondo intellettuale. E lo compie mettendo in azione uno scavo interiore pregno di fatica. Non è facile denudare il proprio essere. Non è semplice smascherare i propri sentimenti. Una fatica senza la quale, però, l’impegno artistico diviene sterile pantomima. E questo, a Criaco, non deve accadere.
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