sabato 10 settembre 2016


PROLOGO


I poeti non hanno bisogno di viaggiare, conoscono spazi infiniti, volgono il loro sguardo su distese dove non giunge nemmeno l’occhio insolente dei nuovi sistemi satellitari, perché la visione d’insieme  di  un poeta, il suo radar intellettuale è in grado di opporsi  a chi crede - e sono in molti, purtroppo - di  poter trasformare l’esistenza vera in realtà virtuale, costruita sulla totale finzione. 
Certo - per dirla con Pessoa-  anche i poeti sono dei fingitori, non perché falsi o ipocriti, ma perché necessariamente avversi alla cosiddetta realtà. Un poeta vero, infatti,  non può che opporsi allo status quo. 
La Poesia dà valore alla vita, la scandaglia a suo modo, rappresentando una delle cime più alte del pensiero umano. Un poeta non vive in un preciso luogo spirituale: scruta, s’immerge negli abissi marini alla ricerca di luce, riemerge per dare conto delle sue visioni, del suo sguardo sul mondo. 
E tuttavia - ciò non è una contraddizione - ha bisogno di ancorarsi fisicamente a un luogo fisico, trasformarlo in finestra sul mondo. Il luogo può essere quello natio dove egli sarà testimone di mutamenti radicali e dal quale - a un prezzo altissimo -, potrà intraprendere la sua azione intellettuale, oppure porsi su altri lidi alla ricerca di un’altra dimensione, considerata-  a torto o a ragione, cosmopolita. 



VINCENZO   STRANIERI








PENSAVAMO
FOSSE ARRIVATO
IL NOSTRO TEMPO




(Pensavamo fosse arrivato il nostro tempo,
la nostra fetta di vita.

Ma siamo ritornati nei nostri buchi,
profondi, neri come la morte).



                                                ( testo poetico)





                                        


                                              L’AVAMPOSTO   (1986)






Mi accade di entrare in una stanza dove c’è
gente che scherza, ride e d’istinto assumo il
ruolo dell’istrione.
Finita la festa, me ne vado pensando che
dietro il pagliaccio  davvero s’annida
l’ombra del dramma.
                            (Vincenzo Stranieri)



Ai miei genitori

1
Per viver abbiamo rubato il nettare
alle api, cospargendo di acre dolcezza
le nostre menti stanche.

Pensavamo fosse arrivato il nostro tempo,
la nostra fetta di vita.

Ma siamo ritornati nei nostri buchi,
profondi, neri come la morte.

Per scaldare i nostri cuori traditi
abbiamo rubato il magma ai vulcani.

Ma il freddo ha macchiato di sangue
le nostre dita indurite.

2
Se uscito dal tuo guscio senza lo scudo
e le frecce avvelenate.

Il sole brucia la tua pelle di latte.

Non mentire: sei nato per parlare a gran voce,
lontano da ipocrisie malcelate.

I granelli di sabbia lacerano il tuo corpo indifeso,
come schegge di mortaio.

Torna nel tuo labirinto, non sei nato
per creare complotti, commedie con attori
scaduti.

         ( è guerra, ormai).


3

Tra le mura del villaggio,
gli occhi cercano una scena inventata,
una mano da stringere forte

       ( i brividi i una carezza)

Non sei solo.

Ma sembra di vivere l tempo
delle streghe maligne
con gli uomini divenuti ranocchi

    (padroni di un misero stagno).


4

Non aspetto più il giorno,
forse neanche il sole
sorgerà tra le colline.

Quando avete squarciato i ventri
delle vostre madri, non pensavo
a una fuga senza ritorno.

Dieci, centro, mille ventri squarciati.

Sono rimasto solo, con in mano
un coltello luccicante.


5

Ti pensavo incline alla beffa,
con in mano un pugnale di carta.

Sospettavo semplici risate,
l’onesta burla di un clown.

Finito il tempo dei coriandoli
hai rimesso maschere e vestiti
tra i tuoi giochi di sempre.

E ti sei travestito da uomo.

6

Siamo cavalli dal galoppo sfrenato,
gli zoccoli spaccati dai sassi.

Il fiume rallenta la fuga, inumidisce
le piaghe.

Il galoppo diviene folle, il sudore
incrosta le groppe, e il pianto traccia
una strada in salita.

Ma resta solo il nitrito nell’aria,
i cappi attorno al collo, come al tempo
del Far West.



7

Ho lasciato che i tronchi scendessero
a valle.

Il mio cavallo alato è caduto nel fango.

Ma la zattera naviga sul fiume,
nel grido lacerante degli uccelli.



8

I pugni sono sul petto e le bestemmie
nel cuore, vecchio blasfemo tradito
dal fato.

Non urlare al vento i tuoi sogni trafitti,
la terra non ha bisogno del tuo pianto
di ghiaccio.

Sono terminati gli attimi della rivolta,
quando i visi illuminavano la notte.


9

I guerrieri hanno perso le lance.

L’albero è rimasto senza foglie
e solo il pianto dei tronchi denuda
le rocce.

Gli eroi hanno spesso di gridare,
il bosco è covo di fantasmi, ora.

All’alba, gli uomini si alzano eroi,
i petti sono gonfi, ma la sera in agguato
e solo allora compare l’amarezza.


10

Non sono venuto a trovarti
con le manette nascoste.

(Le prigioni non hanno senso per chi
ha avuto come casa stanze sbarrate,
portoni di ferro, mense maleodoranti).

E se ti puzzeranno i piedi non chiedermi
perché manca l’acqua.

E se avrai fame non chiedermi cibo.

Le crepe dei muri, feritoie profonde
che nascondono la verità
  
                 (terrificante).

E i lutti, i corpi senza nome, la terra arsa.

Non chiedermi nulla.


11

Tra misteri  scavati nella notte,
la polvere delle arene fugge lontano,
insegna da uomini in ginocchio.

                 (sconfitti).

Tra le pieghe di armonie cancellate
si nascondono sordide imprese

          (e la disperazione).

E’ salita sulle spalle del tempo,
la infedeltà alla vita.



12

Le barche navigano stanche,
i pesci si rifugiano negli anfratti
delle scogliere amiche.

Le reti trascinano solo se stesse,
come uomini soli, claun senza applausi,
disperati profughi.

A che serve cantare i silenzi della notte?

All’orizzonte si intravedono i bagliori
del giorno, della sua luce accecante

                     (senza vita).



13

Non puoi mentire a te stesso

                (e agli altri).

L’attesa degli eventi lascia tracce
nell’anima.

Ti ritrovi in delirio, con viso riflesso
in uno specchio di niente.




14

La dita sui tasti.

Cosa scriviamo in questo tempo di quiete?

Una storia nuova?

Una favola nuova?

La tentazione di battere con violenza,
coraggio.

La consapevolezza del vuoto.

Cosa scriviamo in questo tempo
di quiete?




15
Non pensarmi a capo in giù nel mezzo
di un campo di grano.

Non farlo.

Quel che mi resta non penzolerà per la gioia
di chi ci vuole a capo chino,
inginocchiati fino allo spasimo

                                    (derisi).

I miei piedi non guarderanno
il cielo stellato, batteranno forte,
con rabbia sulla terra indurita.

Avrò ancora la forza di stringere le tue mani
e cancellare dal viso le mie pene.  



SOLO IL VENTO
1

Hai voglia di correre, gridare,
amare qualcuno, qualcosa.

Hai voglia di creare un momento,
un attimo di vita migliore.

Anche i bimbi vorrebbero,
anche i vecchi vorrebbero,
tutti vorrebbero,

    ( ma nessuno si muove).

Solo il vento ha la forza
di muovere le cose
strapparle dal loro
eterno  torpore.

Tu non sei il vento, la pioggia
che dà vita alle cose, e nemmeno
Il fuoco che distrugge ciò che
la vita la costruito.

Tu sei.


2
E’ una posizione bassa, la mia
       (un’immensa pianura di sassi).

Mi guardano ansiosi gli occhi del paese
                                 (e le ingiurie).

Se venisse il sonno!

Lo abbraccerei come il corpo
della mia donna.

Io cercavo l’amore.

Ma solo acredine intravedo all’orizzonte.




3

Il respiro solleva nell’aria
la polvere di antiche nostalgie.

Scruti il tuo corpo alla ricerca
del sogno.

Sei stanco.

Questa notte non basterà
a mandare vie le lacrime.


4
Tra le colline le case sono forti e robuste.

Sulla terra solo il pianto dei vecchi
parla il linguaggio dei poveri.

Non lasciarmi nel bosco come rovo antico
che teme il freddo della notte

        (con dentro l’ansia dei giorni perduti).

5

Cerco di entrare nella tua carcassa,
vecchio.

E’ buio e stretto il labirinto
delle tue vie interne.

Non è distante la tua saggezza,
i colori delle albe incrociate di grano,
quando i visi cercavano lo sguardo
della terra.

Userò la forza.


6

Hai marciato su  la schiena dura
delle colline, scavano un buco di sangue
sul petto bruno.

Tra le rovine hai cercato un brandello
di vita
           
(l’intenso brivido del tuo corpo di carta).

E le tue trecce, offerte da un gitano
al prezzo di trenta denari.

7
La citta ti accoglie nel suo ventre
                    (sei tornato anzitempo).

Lontano dalle unghiate velenose dei
giorni intrisi di pianto

                      (e di bestemmie).

Il tuo occhio sul mondo, la sua carne.

Anche senza la luce del cielo saprai
scherzare con gli occhi della luna.



8

I capelli neri sfiorano i gins, con il vento
che si diverte a disperderli sui fianchi

Solo ora il burrone appare mostruoso
                             
                             ( al di là dei campi di grano).

E la corsa d’amore si spegne senza un grido,
con il vento che si diverte a stuzzicare i
capelli neri, a coprire gli occhi dilatati d’amore
                               
                             ( e di tristezza).      

9

Sono ritornati i fantasmi di un tempo

 ( e la loro perfida danza).

Non avverto più le carezze dei giorni
privi d’angoscia, quando camminavo
per i marciapiedi della città.

Non è tempo di magiche risurrezioni

          (le croci sono perite tra le fiamme).

Offro le spalle al vento.



10


Non è solitudine, questa.

E’ il silenzio dell’inesistente

                     (l’odore, anche).

Gli uccelli rimasti turbano la quiete

                   ( arida, eterna).

Un ritorno alle origini

       (un lampo abbagliante).

Non è solitudine, questa.




11

Su un cerchio di cemento lasciammo
svanire di nostri gesti d’amore.

La voce, l’urlo anzi, di un compagno maldestro
lacerò i nostri corpi accaldati

        ( una morsa di carne viva).

E la stretta d’amore svanì senza parole,
lasciandosi alle spalle un inquietante
mistero.

Con gli anni, la vita ha riproposto
i suoi veti e noi, impotenti, ci parliamo
con gli occhi.


PAESAGGIO LUNARE

1
Le impronte dei mie passi hanno
Costruito un paesaggio lunare.

Io non amo la luna, i cuoi crateri
di cenere, le sue forme cangianti.

(la tentazione di voltarmi indietro,
 la paura di andare avanti, cadere nel vuoto).

Non voglio pensare. Ho terrore.

        ( Non sarà come a Pompei).

2
Il tetto, i muri graffiati dal tempo,
il silenzio del paese.

Il tetto della fanciullezza cigola
sotto il peso del mio corpo adulto.

La ‘Comune’, il ‘Che’ mi guardano
incuriositi.

La mia barba non confonde
i loro occhi: sanno chi sono.


3

Io non ho attivato alcun congegno
esplosivo.

Non potevo.

La mia vita non ha conosciuto
l’orgasmo della follia.

Sulle strade del mondo i ‘Pilato’
offrono l’ecce homo alla folla.

Molti, troppi, soni corpi disfatti.

4

Un volo, dolce, solitario.

Poi l’atterraggio in un mondo deforme,
sconosciuto: la terra.

I covoni bruciano in fretta e le fiamme
lambiscono le notte come la scure
il legno del bosco.

I granelli di sabbia tremano, anche il mare
trema, ha paura degli uomini,

           (pirati dei fondali più bui).

Anche gli stormi hanno cessato di volare.

 5

Gli occhi stanchi, pietrificati,

Un sorriso folle, quasi.

Non era bello guardare il fiume
insanguinato.

I cani annusano l’acqua

                ( senza sazio).

Auschwtiz…Beirut.       


6

Corriamo assieme al tempo, ora

     (il ritmo, inquietante, dei suoi battiti).

I latrati sono dietro le nostre spalle.

Per questo cerchiamo uno spazio
dove lasciare i nostri sogni.


7

Danzano impazzite le parole,
fluendo per le vie come passi
di uomini in corsa.

Lasciano sui muri scie d’inchiostro
maledetto.

E una cinica carezza sulle mie
mani dipinte d’angoscia.





martedì 26 luglio 2016

Il "Saltozoppo" di Gioacchino Criaco, Feltrinelli 2015.

L’ultimo romanzo di Gioacchino Criaco, Il saltozoppo, Feltrinelli 2015, ha subito  riportato alla mia memoria  le forme  burlesche di un gioco tradizionale  praticato fino agli anni ’60 nei nostri piccoli paesi. Ciancapuglieglia, questo il suo nome dialettale, ovvero pollastra azzoppata  che camminava saltando su una zampa. Da bambino ne ho viste un bel po’ muoversi sbilenche per le vie polverose della mia ruga.  Spesso erano proprio i ragazzini ad azzopparle  con la scusa che tanto era un gioco privo di vera cattiveria. Già, privo di cattiveria, ma per il piccolo animale domestico significava la morte imminente perché in quello stato poco serviva al suo padrone.  Ne Il saltozoppo Criaco  utilizza l’antico gioco come metafora per sottolineare il destino dei tre principali protagonisti del romanzo (Julien Therime, Agnese  Dominici e suo fratello Alberto). Ma  protagonista  è  pure l’Aspromonte “che pasce la gente a odio e amore” dove ancora feroci insidie tribali si mescolano con una modernità male assorbita. Ma non starò qui a riassumere per intero i fatti, sarà il lettore a penetrarvi come meglio crede. Il saltozoppo differisce alquanto dalla struttura stilistica dei precedenti impegni letterari di Criaco, specialmente da  Anime nere (Rubbettino, 2008) che ha dato ampia  notorietà allo scrittore di Africo Nuovo. E questo, molto probabilmente, perché egli avverte da sempre  il bisogno vitale di non farsi intrappolare da un progetto creativo che  inevitabilmente peschi nello stagno antropologico della criminalità locridea. Un rischio che  Criaco, per fortuna, ha sempre tenuto  presente,  relegato ai margini. Ciò, appunto, per non essere additato come narratore  esclusivo delle “anime nere” che abbondano per le nostre contrade e non solo. La conseguenza - altrimenti- sarebbe funesta:  a furia di stigmatizzare le tristi vicende del mondo criminale,  prevarrebbe  il rischio di rendere circoscritto e  non di vasto respiro l’humus  della sua scrittura.  Provo ammirazione e rispetto per questo  nostro conterraneo  impegnato a  limare la sua tecnica narrativa nel tentativo, finora riuscito, di costruire un  suo specifico linguaggio non riconducibile all’abbondante e variegato mondo del sottobosco letterario che, specie in Calabria, cresce senza pudore alcuno. Mi preme, in questa sede,   sottolineare il modulo stilistico (a più voci, polifonico) adoperato dall’artista ne Il saltozoppo. L’io narrante delinea le fattezze, le gesta dei protagonisti lasciando da parte pretese conoscitive  troppo vincolanti. Voglio dire che l’autore, specie in questo romanzo, non intende più rimanere allo scoperto,  muta la sua azione stilistica in una sorta  di narrativa  a più voci  (Il geco, la ninfa, il cucciolo, il serpente, l’aquila, Silvestro)  che nel narrare  se stesse svelano, non senza dolore, le forme della loro immersione  nella fitta logica della faide  secolari e per questo ancora “anime nere” che  solo dopo varie perizie, prove fatte d’angoscia e qualche pentimento, riescono (Agnese e Jiulien, soprattutto) a comprendere, forse, che i rivoli di sangue sparso per l’Aspromonte  comportano solo morte e distruzione . (“E poi venne la peste. Il vento nero soffiò forte, oscurando gli usci e spezzando le favole…”).  Ma è una polifonia strategica, in realtà il burattinaio è sempre l’autore, che cerca spazi umano-culturali più vasti, anche se è ancora presto per lasciarsi alle spalle il mondo che lo ha partorito e dove, finalmente, oltre al sangue vi è la presenza di un amore profondo e pregno di promesse, quello tra Julien ed Agnese, che si manifesta in tutta la sua dirompenza solo nei luoghi di nascita: nelle calde acque del mare Ionio, che accarezza i loro corpi per poi ricoprirli di sabbia tiepida simile a carezze materne. Certo, è ancora amore giovanile, passionale e pregno di erotismo, tuttavia è amore eterno, mai scalfito dal dubbio e per questo in grado di scontrarsi con la realtà malavitosa del Nord che li obbligherà a scelte di vita drammatiche: morte, carcere, sequestri e conseguenti ricatti. Ma quando il lettore, scavando nelle intense pagine del romanzo, sembra rassegnato ad un epilogo funesto (“Ma il desiderio dei bambini non mutano il destino costruito dai grandi”), certo che i protagonisti  non  hanno saputo (o potuto) scrollarsi di dosso le malsane regole dei luoghi d’origine fatte di antiche faide (sviluppatesi dagli Aragonesi  in poi), traffici e altre trame illegali (droga in  primis), viene fuori un finale aperto che ben si collega ad un desiderio espresso a metà romanzo da uno dei protagonisti: “La rivoglio la mia favola. Per sempre”.






martedì 25 agosto 2015

IL RICORDO. LETTERA NON RECAPITATA A GIANNI CARTERI


SCRITTO DA VINCENZO STRANIERI - . -PUBBLICATO  inAspromonte"IN AGGIORNAMENTICOPERTINECULTURALIBRI E SCRITTORIRITRATTI
«Se vi viene il sospetto che state per morire
 mettetevi una scatola di fiammiferi in tasca.
Che la notte sarà lunga, lunga…»
Tonino Guerra-
EPSON DSC picture
Carissimo Gianni, *
non so di preciso perché oggi sono venuto a casa tua; ho dubbi sul fatto che il mio sia stato solo un gesto di generosità, il desiderio di stare accanto ad un amico in procinto di lasciare per sempre l’avventura terrena cui tutti noi siamo destinati.
Forse è stato un involontario gesto d’egoismo, non soltanto l’intima esigenza di salutarti prima dell’estremo viaggio verso l’eterno.
E di ciò ti chiedo umilmente scusa.
Mai, però, avrei voluto vederti annientato dal male incurabile che il destino (chi altro?) ti ha imposto senza alcun ritegno, sconvolgendo il tuo corpo, lasciando che le ossa prevalessero sulla carne.
Il male, almeno questo, niente ha potuto contro la tua mente vigile, ma non so se questo sia stato un vantaggio oppure un altro modo per farti sentire ancora più forte la sofferenza tua e di quanti ti vogliono bene.
Il tuo respiro, pesante e annegato nell’affanno, mi ha sconvolto; avrei voluto fare qualcosa, ma niente ho potuto.
Il tuo/nostro Dio ancora una volta non ha fatto sconti, a modo suo ha voluto indicarti la strada del dolore più irto.
Non hai mai preteso di essere un neo-Giobbe, dicevi di non averne la statura. Come darti torto!
So di certo che nella preghiera, tu cristiano impenitente- stai cercando forza e conforto, che i tuoi genitori li senti vicini in quel cielo celeste che ogni credente  agogna. Ti aspetta tua madre, Peppina Sideri, che ti  ha indicato la strada della fede ad anche quella della scrittura.
Da trent’anni  convivi con una grave  patologia che, nel tempo, ti ha indebolito e reso fragile, ma non per questo domo.
Hai lottato contro la malattia attraverso la scrittura, scrivendo articoli e saggi sui più importanti scrittori calabresi e non.
Nonostante la sofferenza, hai sempre partecipato con generosità e competenza ai numerosi convegni letterari, e di certo ha ragione Vito Teti quando scrive che “Gianni Carteri è un intellettuale raffinato, scrittore originale, uomo religioso garbato, buono e generoso. Un amico vero della migliore Calabria”.
Un abbraccio forte, tuo Enzo Stranieri
S.Agata del Bianco, 9 agosto 2015  

*Gianni Carteri, nato a Brancaleone, ha vissuto, dopo il matrimonio, a Bovalino, Ha collaborato al mensile “Studi Cattolici” e al settimanale cattolico “Il nostro tempo”. Ha scritto numerosi saggi su Cesare Pavese e Corrado Alvaro. Nel 1994 gli è stato assegnato il premio “Pavese” per la critica letteraria ed il premio “Amantea” per la saggistica.

sabato 25 ottobre 2014


L’OPINIONE. AL CINEMA CON “ANIME NERE”

SCRITTO DVINCENZO STRANIERI IL . PUBBLICATO IN AGGIORNAMENTICOPERTINECULTURA

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Un mio amico calabrese che vive al Nord è rimasto sorpreso quando, tempo addietro, gli dissi per telefono che presto sarei andato al cinema a vedere Anime nere del regista Francesco Munzi, film liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) e che, al recente Festival del cinema di Venezia, aveva riscosso un buon successo. «Perché vai a vedere un film che tratta di cose che ben conosci. Vivi nel cuore geografico che ha partorito la ‘ndrangheta ed i suoi famuli. Sarà di certo un film che ricalcherà i soliti stereotipi», così ebbe a rimproverarmi benevolmente il mio amico. É persona intelligente, nonostante abbia lasciato la nostra terra da circa trent’anni, conosce bene il suo/nostro mondo d’origine. Qui aveva lottato con impegno contro i soprusi, i suoi comizi erano vibranti e ricchi di passione giovanile. Ma il suo consiglio non poteva trovare il mio consenso.
ANDAVO AL CINEMA soprattutto perché un buon film è sempre un’opera d’arte ed anche perché io sono socratico per convinzione (so di non sapere), certo che c’è sempre qualcosa d’apprendere. Inoltre, fatto non secondario, avevo quattro anni or sono recensito positivamente il libro di Gioacchino Criaco. Il film ha inizio, una strana ansia mi assale, respiro profondamente alla ricerca di una concentrazione che mi consenta di seguire una storia che narra dal di dentro un mondo incastonato nell’alveo antropologico della ‘ndrangheta. È un’opera volutamente lenta, il regista fa lievitare le singole vicende evitando la presenza d’intrepidi eroi. Il sangue non scorre a fiumi ed è pure assente l’eco assordante di fucili ultramoderni in grado di lacerare il silenzio notturno dell’Aspromonte. Guardo le immagini volutamente velate da un buio trasparente, ascolto le locuzioni dialettali dei protagonisti. Non ho bisogno di leggere i sottotitoli. É una lingua che conosco bene. Il pensiero corre veloce, la mente s’arrovella, cerca un filo conduttore al quale aggrapparsi per non cadere in errore. Mi soccorre la pausa tra un tempo e l’altro.
PRENDO APPUNTI. Mia moglie li sbircia incuriosita. Mi chiede perché le scene, specie i primi piani, non sono nitide. Le dico che è una scelta del regista. Di anime nere come la notte si tratta, infatti. «É vero – mi risponde – ma devi ammettere che in una terra arsa dal sole ci si aspetterebbe squarci di luce abbagliante. Ed invece anche le parole dei protagonisti sembrano prigioniere del buio che incombe su uomini e cose». Comincia il secondo tempo, la mia attenzione è al massimo, ascolto e guardo tutto quello che Munzi ha costruito con fatica greve, stante che i fondi erogati dalle nostre istituzioni locali sono stati esigui se non del tutto assenti. Siamo al finale, drammatico quanto inaspettato. Anche i miei due amici, che hanno assistito al film nella fila di fianco alla mia, sono rimasti spiazzati, increduli per una chiusa così tragica, pregna di profonda intensità emotiva. Luciano, infatti, uccide suo fratello Rocco (che fino ad allora s’era goduto lo status sociale raggiunto nel regno del malaffare milanese) colpevole di non avere saputo proteggere Leo (figlio ventenne di Luciano) eliminato da un gruppo rivale per avere progettato all’insaputa di tutti l’uccisione di un potente boss locale.
LEO VIENE consegnato ai suoi aguzzini dal suo migliore amico (vai a fidarti!). Prima di lui era stato ucciso Luigi, il terzo dei fratelli Carbone, dedito al traffico internazionale di droga. Solo Luciano vive stabilmente in Calabria in compagnia del suo gregge di capre. Egli è lontano da traffici e violenze varie. Prima di ritornare all’epilogo, mi preme sottolineare come Munzi abbia saputo mettere in evidenza (tutto il film stimola questa riflessione) lo scontro generazionale all’interno delle ‘ndrine: la vecchia ‘ndrangheta (composta da quanti negli anni ‘70 avevano eliminato i capi-bastoni del reggino), e quella dei nostri giorni sempre più smaniosa di guadagnare in fretta denaro e prestigio all’interno della criminalità organizzata che, come si sa, è divenuta un’holding internazionale. Il film presenta delle peculiarità che lo rendono fortemente originale. Munzi, infatti, compie un viaggio all’interno delle forme culturali di una famiglia calabrese che si rivela disomogenea e non sempre ligia alle regole del mondo ‘ndranghetistico.
TRE FRATELLI, segnati dall’uccisione del padre per via di una faida che per lungo tempo aveva insanguinato il territorio alimentando sgomento e terrore nelle popolazioni del basso Aspromonte orientale. Lo Stato (rappresentato dalle forze dell’ordine) è presente solo quando vengono uccisi Luigi e Leo. Lo è per prassi, idem la chiesa, rappresentata da un giovane sacerdote che, durante il funerale del giovane Leo, proferisce un’omelia incapace, specie in quel frangente, di produrre alcuna consolazione. I cuori sono in piena accelerazione, pronti a scoppiare per la rabbia ed il dolore, nonché per il desiderio di una pronta vendetta. Non ci sono magistrati, organi inquirenti impegnati a contrastare le ‘ndrine, cosicché non ci sono tribunali, testimoni, avvocati alle prese con alibi, prove e/o possibili codicilli in grado di aiutare gli imputati di turno. Non è un giudizio negativo contro la Giustizia e/o la Chiesa, a Munzi interessa che sia la famiglia Carbone a denudarsi, e questo senza filtri o intromissioni che ne modificherebbero la vera natura. Trattasi, quindi, dell’affresco amaro di un mondo ancora legato ad un passato/presente capace di partorire anime nere pronte ad immolarsi in nome d’insani valori.
IL FILM DIFFERISCE alquanto dal romanzo di Criaco, ma non per questo ne violenta la morfologia. É una libera interpretazione del regista, infatti. Andrebbe visto almeno due volte un film. Di certo qualcosa mi è sfuggito, ma la tarantella no (ballo secolare musicato in modo semplice ma in grado di creare ritmi vorticosi nella mente dei partecipanti). Luigi guarda gli altri ballare appoggiato ad un palo della vecchia baracca che ospita alcune famiglie legate alla criminalità organizzata. Balla da fermo, mima estasiato i suoi ritmi, sembra posseduto, ne vuole gustare ogni attimo, sente la frescura della montagna amica dove ha vissuto da piccolo. Quell’antico ballo gli comunica visioni paradisiache, un’inimitabile pace interiore. E questo a poche ore della sua tragica esecuzione da parte di un gruppo rivale. E le donne? Quale il loro ruolo? Sono donne senza sorriso (mogli, figlie e nipoti), sottomesse a figure maschili che inseguono facili guadagni a costo della vita. Ogni giorno le sfiora la morte ed i loro cuori si gonfiano d’eterno dolore. Hanno anche l’ingrato compito di riproporre la ritualità (ereditata dal mondo greco-romano) dei funerali di un tempo, quelli dove si recitano litanie (con atteggiamenti da prèfiche) inneggianti le qualità positive del defunto. Ed anche interminabili pianti capaci di esaurire le poche lacrime custodite con parsimonia, stante che, purtroppo, un morto tira l’altro. Ed è bene tenere sempre pronto l’abito scuro. E ciò in contrasto con l’eleganza della bionda moglie di Rocco, donna del Nord che non riesce a capire il mondo del marito e che desidera tornare al più presto nella sua Milano dove fino ad allora aveva goduto di rispetto e privilegi (si era mai domandata il motivo di tanto benessere?).
DICEVO DEL tragico epilogo. Le interpretazioni sono molteplici. È certo, però, che senza quel tipo di finale lo scenario avrebbe avuto come protagonista un mondo senza scampo, privo di qualsiasi prospettiva. È vero, ciò costa sangue, dolore atroce; il tutto, infatti, rimbalza pesantemente all’interno della famiglia Carbone, dei suoi pochi sopravvissuti. Ho letto su facebook diversi post che invitano il regista a realizzare al più presto la continuazione del film, una sorta di Anime nere 2, 3, 4 etc. Mi auguro che ciò non accada, spero tanto che questo film sia considerato un’opera cult (un classico) in grado di sfidare il tempo.

martedì 23 settembre 2014




 Francesco Stilo, il pastore africotu

Scritto da Vincenzo Stranieri il . Pubblicato in Aggiornamenti, Copertine, Cultura, Ritratti
Francesco Stilo. Un’intera esistenza trascorsa ad allevare capre e a far laureare i suoi sette figli
FAMIGLIA STILO
Nella foto in alto da sinistra: Santoro Criaco, Francesco Stilo e sua moglia Domenica Criaco, Andrea Stilo, figlio di Francesco. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia

Francesco Stilo, classe 1926, è uno dei pochi pastori di Africo vecchio ad essere tornato a vivere nel luogo d’origine dopo la disastrosa alluvione dell’ottobre 1951. Alluvione che ha comportato la fondazione di Africo nuovo, nei pressi di Capo Bruzzano.
É un vero resistente, il nostro pastore di lattare, fiero della sua scelta, affezionato alle sue bestie forse ancor più che agli uomini. Ma non è un uomo isolato, un eremita che intende sfuggire al cosiddetto mutare dei tempi. Egli conosce quanto avviene fuori dal suo raggio d’azione lavorativo, lo sanno i suoi sette figli (tre maschi e quattro femmine, tutti laureati), che ha voluto mandare a scuola a tutti i costi, sacrificandosi assieme alla moglie perché potessero realizzarsi.
E dunque, oltre che pastore, il nostro è stato/è un ottimo educatore, una guida sicura, soprattutto sul piano etico, della propria famiglia. Conosco alcuni dei suoi sette figli, che vivono l’essere professionisti con dedizione ed umiltà. Nessuno di loro ha dimenticato il mondo dell’infanzia e, di tanto in tanto, ritornano nei luoghi d’origine, per rivivere, quasi in un processo catartico, il tempo dell’infanzia trascorso sul dorso di una montagna sì aspra ma capace d’infondere valori profondi e sicurezza interiore.
Francesco Stilo è stato un ottimo educatore, ma senza il peso della vendetta sociale, perché egli non maledice il proprio destino, non lo considera ingrato. È una saggezza antica, la sua, che lo posiziona nell’alveo di un equilibrio socio-culturale in grado di proteggerlo dall’invettiva gratuita e dalle facili lamentele. Occhi e carnagione chiari, lineamenti scolpiti dalla fatica e dal sole, corporatura media ed atletica, quasi una leggerezza dell’essere, oltre che del fisico. Desta meraviglia ed anche un po’ d’invidia quest’uomo che non teme la solitudine ed i rumori della notte che avvolgono le montagne di Africo vecchio e di Casalinuovo, ormai preda di sterpi e rovi. Non è difficile immaginare lo sgomento delle due popolazioni montane, in quell’ottobre del 1951, quando la devastante alluvione procurò gravi danni ad uomini e cose.
la TOSATURA
 Nella foto in alto la tosatura delle pecore. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia
Un diluvio universale in cui la chiesa divenne il solo rifugio per combattere la malasorte, nel mentre la preghiera si trasformava in disperata implorazione, riconoscimento del limite umano. In quell’ottobre del 1951 successe mezzo finimondo, piovve incessantemente per alcuni giorni, la montagna franò in più punti portando con sé uomini, animali e case a fondo valle.
Questo è il modo più drammatico per ritrovarsi senza alcun bene materiale, senza un tetto dove ripararsi e soprattutto senza un’attività lavorativa né riconoscimento del limite umano. E alla violenza della natura s’aggiunse quella politica, e le due comunità, da secoli abbarbicate sui crinali della montagna, si trovarono, loro malgrado, a vivere prima in baracche di legno e poi in piccole e mal costruite case popolari poste a poche centinaia di metri dal mare Ionio (Capo Bruzzano), detto u Capu. Facile immaginare lo sgomento, intuire la paura per un futuro che appariva lontano ed incerto, ma la violenza era stata perpetrata e bisognava cominciare daccapo.
E il passato? Bisognava negarne l’esistenza? Allontanarlo dai pensieri? Violenza su violenza, dunque, e assieme alla cultura di un popolo s’era persa la vasta gamma di mestieri che ne sorreggeva l’economia, pur se povera e fragile. Ed è proprio a questo che Francesco Stilo ha voluto opporsi: alla perdita della sua identità umana e lavorativa, facendo di tutto per rimanere pastore.
Alcuni figli di Francesco Stilo vivono con le rispettive famiglie a Reggio Calabria, mentre Costantino, farmacista per circa vent’anni a Caraffa del Bianco, si è da poco trasferito in Puglia. La moglie del nostro pastore, Domenica Criaco, si è stabilita da circa 20 anni a Caraffa del Bianco dove la figlia Annunziata è stata per alcuni anni medico di base. In realtà, il nostro pastore si considera un africotu, e non ha per niente legato col posto di neo-residenza.
Egli è altro da questo luogo, si sente un uomo libero solo a contatto con la sua mandria che bruca per i crinali dell’antica montagna amica. Il suo scopo attuale non è quello economico, la sua ricchezza è il mantenimento della libertà personale, quella di vivere a diretto contatto con la natura, in un continuo dialogo con le bestie e le cose, dialogo, di tanto in tanto, interrotto da qualche altro resistente pastore o da qualche temerario cacciatore. Torna a casa poche volte al mese, giusto il tempo di rifornirsi di provviste, per poi ritornare a vivere in libertà le sue lunghe giornate trascorse tra le montagne amiche*.
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Nella foto Francesco Stilo, foto di Enzo Penna
Pastori di Africo Vecchio che fino alla fine degli anni ‘80 pascolavano le loro greggi nei territori d’origine:
Andrea Stilo, fratello di Francesco, Pietro Stilo, Giovanni Stilo, Pietro Maviglia, Domenico Maviglia, Costa Stilo, Bruno Criaco (quest’ultimi hanno abbandonato la pastorizia da circa vent’anni o scomparsi).
L’elenco mi è stato fornito dal medesimo Francesco Stilo.
*La storia di Francesco Stilo è stata scritta alcuni anni addietro. Attualmente il nostro pastore, a malincuore e su insistenza della famiglia, ha smesso di fare il pastore a tempo pieno e vive con la moglie a Caraffa del Bianco. Ma il richiamo ancestrale della pastorizia è rimasto vivo come un tempo. In un appezzamento di terreno di suo figlio Costantino (contrada “Musco” in S. Agata del Bianco), oltre a curare l’uliveto e l’orto, ha realizzato un piccolo Jazzo per pochi ovini. Gli ricordano il suo mondo, la sua infanzia… la sua vita.