domenica 7 marzo 2021

MICHELE PAPALIA, SULL’ONORE NOSTRO, CITTÀ DEL SOLE, RC, 2020

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Dopo aver letto e apprezzato il breve prologo del primo capitolo (immagini incisive anche sul piano poetico) ho pensato che il resto del romanzo avrebbe avuto un suo celere seguito seguendo i canoni classici del romanzo: azione e caratteristiche peculiari dei protagonisti, trama e ambiente geografico umano d’azione; ma poi ho notato che altre sedici brevi introduzioni facevano capolino a ogni cap. e, conseguentemente, mi sono convinto che era meglio leggere il testo di Michele Papalia non come un romanzo tout court bensì come il frutto di diciassette testi narrativi brevi (da notare che il pregiudizio iettatorio riferito al numero 17 non trova riscontro da parte dell’autore) che, se uniti, potevano ugualmente reggere l’impalcatura romanzata. E questo perché ogni breve racconto, nonostante le similitudini dei protagonisti, è autonomo, non ha bisogno d particolari allegorie, tantomeno di evidenti spazi geografici. Nei paesi di un’Italia ricca di piccoli, medi e grandi paesi stanno scomparendo i personaggi tipici, rappresentativi dell’antropologia profonda dei luoghi che, invece, nell’opera di Papalia rappresentano l’ossatura più sostanziosa, sintetizzano storie e memorie di un mondo che, purtroppo, non ha retto alla forza violenta dei tempi mutati. Le fantasie amorose e di rivalsa sociale (priva di esiti positivi) di Don Ciccio o Poeta che desidera la bella Cata, “ I capelli color carbone (che) lambivano le punte dei seni”. Ma è proprio quando la prospettiva della lettura muta, quando si decide di unire i componenti di questa collana antropologica dedicata a un piccolo paese aspromontano che la storia prende un’altra piega e i brevi incipit ai capitoli non hanno più la forza di rimanere autonomi all’interno dell’intero tessuto narrativo. In fondo non è bello creare sofferenza, penetrare nelle profondità del mondo in cui si vive, narrarne la storia, evidenziarne soprattutto le sconfitte. Prepotenze, le stesse che, forse, hanno alimentato il seme maligno dell’Onorata Società, che rappresenta la nascita e lo sviluppo di violenze altrettanto feroci se comparabili alle ingiustizie perpetrate dai Potenti di turno ( Il Cigno e Giosafatto, aristocratici avidi e senza scrupoli). Alla fine non vince nessuno, le sorti di questo isolato paese dell’estremo Sud non interessano ai più , o meglio, andando avanti nel tempo, esso, suo malgrado, viene a tutt’oggi additato come brutto e cattivo, fornace viva della criminalità organizzata. Per finire, va dato merito a Michele Papalia del suo profondo atto d’amore verso la sua Platì, dove e nato e dove ha deciso di viverci, e questo, si badi bene, in una realtà antropologica sì romanzata, ma dove il blocco spazio-tempo vissuto dai personaggi sembra ancora imperare sulla realtà attuale. Un microcosmo avvolto in una cornice di luci inquietanti che vuole ricordare a tutto a tutti che senza lotta non si vince, che maledire il fato vuol dire sprofondare ancor più nel ventre sterile del vittimismo.
Pieno merito a questo giovane autore, testimone mai passivo del suo mondo d’origine, proteso , all’occorrenza, verso più vasti orizzonti.

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