Devo ammettere che, allorquando mi addentro nella lettura/studio dei saggi dellamico Vito Teti, avverto dei veri sentimenti di stima e ammirazione.
Ciò, quasi certamente, perché le sollecitazioni emotive che Teti suscita generalmente nel lettore dipendono anche dal fatto che egli ragiona come un poeta, si commuove come un poeta, scandaglia i luoghi della memoria con la stessa ansietà di chi crede nella forza evocativa dei versi.
La sua scrittura, infatti, in qualche passaggio cede alla commozione, diventa lirica alloccorrenza, si trasforma in melanconia creativa specie quando sorvola paesaggi lunari, deserti dellanima, paesi abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio delle antiche genìe, degli emigranti, di chi ha dovuto, forzatamente, lasciare il mondo d’appartenenza, ovvero storie di vita, radici antropologiche ancora vive e palpitanti, sogni, tanti sogni, per reinventare altrove quanto lasciato in paese.Un linguaggio che narra dal di dentro la materia viva delle proprie indagini demo-etno-antropologiche. Ricerche effettuate sul campo, tra la gente, incontrando il territorio, la sua storia passata e quella recente.
TETI, questo va ben sottolineato, quando scrive di paesi abbandonati, di ruderi etc, lo fa solo dopo averli visitati con amorevole cura, con profondo rispetto. Vedi- ad esempio- IL SENSO DEI LUOGHI, storie e memorie dei paesi abbandonati di Calabria, 2014.
Anche il modulo linguistico del presente lavoro, LA RESTANZA, Feltrinelli, 2022, rivela lo sforzo dell’autore nell’edificare un particolare costrutto sintattico: ora discorsivo, quasi colloquiale, per poi ritornare ad una semantica necessariamente saggistica, stante, appunto, che non parliamo né di un romanzo né di un racconto.
A Teti non poteva sfuggire il fatto che con le antiche retoriche non si progredisce, che non bastano più le solite giustificazioni storiche come la proverbiale “Magna Grecia”, la “Malaunità” e conseguente “Questione Meridionale”, la” ndrangheta” e tutto il resto, per giustificare la nostra inerzia, il nostro atavico fatalismo.
Oggi, purtroppo, dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la bellezza del Sud non sempre trovano risposte/proposte convinte e concrete presso i nuovi ceti sociali e politici, incapaci di diventare classe dirigente desiderosa di liberare, davvero e per sempre, questo luogo.
Sono tante le domande a cui Teti tenta di dare risposte concrete, specie quando è costretto ad ammettere che sul cosiddetto recupero dei borghi vige non poca retorica mista a malafede soprattutto in campo politico.
Infatti, il problema vero, per l’antropologo di San Nicola da Crissa,”… è quello di dare avvio ad una seria politica di non spopolamento, ovvero che i superstiti – se così possiamo definirli- rimangano sul posto, e non per sopravvivere malamente, schiavi di ricordi e ripensamenti laceranti su eventuali scelte non fatte, ma come protagonisti di una RESTANZA come pratica di vita, come arte del vivere in contesto socio-economico sì povero sul piano demografico, ma ancora in grado di affrontare le sfide del domani. La scelta di restare, o di tornare, infatti, è sempre più connessa al desiderio di prendersi cura e rigenerare i luoghi che abitiamo”.
I saggi del Prof. Vito Teti non sono facili da riassumere, contengono elementi culturali dove primeggiano l’antropologia, l’archeologia, la storia, soprattutto del mediterraneo, nonché richiami puntuali a scrittori e intellettuali di valore europeo.
In conclusione, va sottolineato che nel presente saggio vengono rimarcati diversi concetti che delineano le forme più concrete di RESTANZA.
”Ripartire dai restanti- scrive Teti- significa sapersi fare carico delle memorie, dei bisogni, dei progetti di chi è rimasto e attende cambiare e inventare una nuova comunità. Bisogna essere utopici e concreti. Sono necessari nuovi pensieri per uscire da visioni localistiche e per immaginare una vita ancora pensabile e praticabile in questi luoghi. Una via duscita possibile che ci chiede di immaginare l’immaginabile, di prevedere l’imprevedibile”.