sabato 27 ottobre 2012

UN FITTO ORIZZONTE SEGNATO DI SCURO

S.Agata del Bianco, 4 aprile 1994
L’altro ieri ho incontrato una ragazza da tempo emigrata al Nord. Si trovava in paese per il funerale di un suo parente.

 “ Ti accorgi di essere veramente un estraneo, quando ti rechi in un cimitero. Le foto sulle lapidi mostrano defunti a te completamente sconosciuti e, nonostante la sacralità del luogo, riesci ad avvertire solo un profondo disagio, la netta percezione che tra te e il Nord non vi è/sia alcun legame”, ebbe a dirmi nel mentre si parlava dei morti custoditi nel nostro camposanto. Il suo volto era pallido, tipico di chi vive al Nord. Guardai i suoi occhi, piccoli e neri, e provai un senso di pena. Lo so che il discorso emigrazione presenta il rischio di una stanca retorica, lo so. Ma il peso della partenza l’ho vissuto personalmente e da allora il suo segno è dentro di me come una cicatrice mai rimarginata. Sapevo di non dover partire, ch’era meglio restare sulla collina che custodiva il mio mondo. Ma seguendo consigli sbagliati in momenti in cui la stanchezza non lascia spazio al buon senso, andai a collocarmi nei pressi del lago di Como tanto caro al Manzoni. Inutile ripetere luoghi comuni sulle difficoltà di trovare una casa, inutile ricordare il buio del clima nordico sordo ad ogni piccola luce capace di sollecitare lo spirito. Tentavo di immaginare il colore del mare Ionio, ma il fondo della pianura nascondeva solo un fitto orizzonte segnato di scuro. Cercavo nei pioppi disseminati per lunghi tratti di strada un qualche legame gli alberi nei pressi della fiumara della mia infanzia, ma in essi era più facile trovare una macchina distrutta per la troppa velocità con dentro giovani al di sotto dei vent’anni. Nei piccoli mercati rionali v’era il dominio di una lingua a me sconosciuta, foneticamente dura, quasi irraggiungibile. Col tempo l’ansia cresceva, e la malinconia divenne padrona dei giorni. Quando decisi, forse era meglio farlo prima, di tornare al Sud, feci un viaggio inenarrabile, un’esperienza che ancora oggi mi sovviene alla mente col suo carico di profondo dolore. Anche mio padre ha conosciuto i segni dell’emigrazione, ma per breve tempo, non lasciandosi alienare dalla catena di montaggio della Ford tedesca.
Tornò a lavorare la terra, a potare le viti che di notte sognava nella piccola baracca che imprigionava i suoi sogni.
A combattere il peso dell’emigrazione è rimasto mio fratello Gianni. Le sue vicende oniriche narrano eventi vissuti prima della partenza. Un rifiuto dell’inconscio, una forte rimozione per combattere il dramma della lontananza che, in non poche occasioni, può annullare ogni volontà di riscatto.










Nessun commento:

Posta un commento