lunedì 9 maggio 2022

U CATOJU E I PROHJ

 

Già la prima quartina è indicativa di come  Michele Germanò, anziano poetca dialettale originario di Sant'Agata del Bianco,  pensa e ripensa al suo paese  come “nu valurusu picciulu museo... di li penzeri è sempre visitatu”. Qui l’elemento poetico ben si coniuga con quello antropologico perché le rivitazioni mentali di Germanò sono quasi un’elencazione di vicende e personaggi che mai sfuggono al suo pensiero, alla sua esperienza di calabrese trasferitosi nel ventre di una storia cosmopolita (leggi CANADA) che sì lo aiuta a crescere sul piano economico, lo irrobustisce anche sul piano culturale (l’acquisizione di una’altra lingua), ma a un prezzo troppo alto. A ben leggere i suoi versi, si riscontra una nostalgia non solo da addebitare alla’emigrazione, vi è infatti  la consapevolezza che il luogo che lo ha visto nascere e crescere è irrimediabilmente cambiato, che la realtà degli oggetti che animava la civiltà contadina è ormai divenuta un triste  Museo. Difatti “…puru u foculara e senza fiamma”, “Riposa e cchju non scrusci lu tilaru”.Non più le donne, madri, sorelle, zie e fidanzate stanno chine sul telaio, non più coperte colorate realizzate in modo artigianale. E sì che un tempo i  tilari, anche di notte, facevano eco ai rumori notturni, al cammino dei contadini che si recavano di primo mattino in campagna.  Un mondo cadenzato da ritmi umani, da fatiche impregnate di sudore, questo sì, ma comunque con al centro l’uomo e la sua millenaria presenza terrena. Da segnalare il recupero di molti termini arcaici, utilizzati nelle nostre vallate fino alla metà degli anni’ 50.  Germanò in questo è alquanto abile, disegna dei quadretti semantici molto veritieri, recupera numerosi affreschi delle nostre tradizioni. In più, alla fine del testo poetico, allega un interessante glossario di detti termini  che facilitano la comprensione del loro  il signficato non solo sintattico ma anche allegorico. In conclusione, le quartine (ABAB) sono lo specchio concreto di un mondo ormai scorparso, di una generazione che ha fatto a pugni con la terra, le sue zolle aride e i tanti padroni di  turno, usurpatori senza scrupoli. Ma Germanò non recrimina contro nessuno, egli, con intelligenza e particolare senbilità, disegna tratti poetici del suo mondo d’origine, di quando  i barigghj erano recipienti in legno altamente  preziosi per il trasporto dell’acqua attinta alle poche fontane sorgive poste ai fianchi dei piccoli paesi di collina.

 “Quant’acqua, pe na vita ‘ndi portaru,

sicuramenti, cchiù di na jumara.

sabato 7 maggio 2022

HANDICAP PREGIUDIZIO LETTERATURA

  Il presente saggio,  realizzato nell’ambito dei programmi europei PETRA e ERASMUS, a cura, presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione- Università di Bologna- del Prof. Nicola Cuomo (“L’emozione di conoscere”, 2-4 settembre 1991), è stato pubblicato su “Aschesis” n. 6/9-settembre-dicembre 1991. In questa sede, è stato riveduto ed integrato in alcune sue parti.

 Vincenzo Stranieri : Pedagogista, cultore di Antropologia Culturale presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università della Calabria

Sin dall’antichità ogni manifestazione che non rientrava nell’alveo degli schemi culturali del sistema sociale era considerata un evento <<fuorinorma>> da esorcizzare in nome di principi religiosi o, anche, di criteri politico-religiosi. (1)

Gli spartani – a esempio- praticavano nei confronti dei bambini affetti da malformazioni, una sorta di giudizio di <<utilità>> per cui ritenevano giusto sopprimerli. (2)

La relazione tra gli uomini e il Potere politico-religioso era dunque fuorviata dal pregiudizio, dalla totale ignoranza dei motivi che stavano alla base dei comportamenti degli <<invasati>>, nonché degli individui oggi meglio conosciuti come portatori di handicaps.

Anche i secoli rinascimentali conobbero, non meno che in passato, forme più o meno aberranti di pregiudizio. (3)

Conseguentemente, anche nel sec.XVI° ed oltre, assistiamo al dilagarsi di un’ira persecutoria al punto che fra’ Girolamo Manghi da Viadana, Minore osservante (1529-1609), pubblica il <<Compendio dell’arte esorcistica>>, Bologna 1576. (4)

Pochi anni prima, invece, (1560) <<usciva per opera dello stampatore veneziano Lodovico Avanzi, che la pubblicava assieme alla magia Naturale di Giovan Battista della Porta, la traduzione italiana de “Occulta naturae Miracula” del medico zelandese Lievin Lemmes. Il capitolo VIII° era dedicato ai “parti mostruosi”, e, “nella copia dell’opera ora posseduta dalla biblioteca Universitaria di Bologna, accanto al titolo, una mano del XVI° sec. vergava l’avvenimento per li maritati pazzi e sporchi”>>. (5)

Inoltre, e qui i fatti diventano veracemente inquietanti, l’idea della <<terribilità>> della nascita era all’origine della tacita ma diffusa abitudine, anche in questo periodo, << di uccidere subito dopo il parto la creatura deforme che non fosse morta spontaneamente>>. (6)

lunedì 25 aprile 2022

LA PARTE DELL'0CCHIO- TESTO POETICO DI MARINA REZZONICO

Il volume di poesie, La parte dell’occhio, di Marina Rezzonico, Puntoecapo   Editrice, 2022, è composto da 7 sezioni i cui versi riproducono un tessuto linguistico alquanto unitario.

E’ anzitutto  un corposo  spazio dell’anima,  una preziosa configurazione geografica insita in un passato/presente che mai deborda in vittimismo o invocazioni nostalgiche.

Per primo è stato il porto:

moli di traffici e di industria.

Se ci fossi nata, del mare avrei serbato

Il suono di sirena,

lago di partenze, di umane distanze,

asilo di ogni arrivo.

Poesia narrata (ossimoro voluto) per non allontanarsi dal ricco bagaglio umano-culturale donatole dai luoghi fisici (Ticino, Liguria e Toscana) in cui l’artista ha vissuto e si è formata, e che ben si coniugano con quelli interiorizzati  nel corso della sua vita.

I luoghi, quelli vissuti e/o quelli ricostruiti per mezzo della memoria, producono continue rivisitazioni che trovano uno spazio preciso nella mente della poetessa, anche quando sovviene un certo timore e la natura sembra custodire segreti ormai perduti.

Le radici non attecchiscono

per caso. Richiedono lo scavo

delle generazioni.

Senza storia prevede

successive abrasioni

di ogni segno di riconoscimento.

Una poesia anche, se non soprattutto, “descrittiva”,  esplicativa dei diversi  spazi della memoria che, cosa non secondaria, non si sovrappongono al mondo intellettuale che li contiene.

Ho fatto avanti indietro

Tra pioggia e sole.

Ci ha fatto stanchi, svogliati.

Chiusi entro casa

a lasciare accartocciare

i giorni e le parole:

profani signori

alla corte del tempo.

 

Luoghi fisici e luoghi dell’anima dove l’elemento lirico tout court è sostituito dall’occhio vigile dell’autrice; e dal quale, forse, nasce La parte dell’occhio, ovvero quella porzione di sguardo che, anche da solo, è in grado di cogliere le migliori fattezze dell’umana esistenza.

Preparo una rete

per catturare con gli occhi

Il mio nome

In volo nell’aria.

La mia vita intera.

 

Sono numerosi i versi che compendiano questa particolare opera poetica. Tradizioni ormai scomparse, utensili ormai in disuso, ritmi di vita vorticosi e per questo quasi disumani.

 

Si fissava il telaio,

con una molletta,

uno strappo di carta.

E nell’andare, il fruscio

simulava il volare.

 

Dall’alto, guardavano il mondo.

 

Il rammarico pesa, non poteva essere altrimenti, nel pensiero dell’artista, i forsennati mutamenti socio-culturali aggrediscono la sua sensibilità, il  corpus intellettuale che li contiene.

 

Ogni avventura deposta,

lasciata fuori,

a tendere il suo agguato.

Silenzio.

Sguardo traverso

Sul presente disabitato.

 

In conclusione, ma molto altro nasconde questo robusto  testo poetico, va ribadita l’originale capacità della Ns artista d’intrecciare il suo mondo ideale- poetico con il cosiddetto mondo reale; quest’ultimo ancora somigliante, per fortuna,  ad  uno scrigno ricco di sentimenti veri.

 

Cerco ancora una terra da esplorare?

Una pietra da tirare,

una zolla da falciare,

una pervinca da cogliere?

Cerchi la tana dove riparare?

 


martedì 4 gennaio 2022

SALOTTI TELEVISIVI PRIVI DI SENTIMENTI VERI

 

 NO ALLA PORNOGRAFIA DEL DOLORE E ALLA SCARNIFICAZIONE DEI SENTIMENTI

           

    La pagina  di un qualsiasi quotidiano d’oggi  raccoglie  una mole di notizie che un uomo del Settecento - ad esempio- avrebbe ottenuto  in non poche decine d’anni. Notizie su notizie, rigagnoli d’inchiostro viaggiano per il mondo in cerca di fedeli lettori. Ma la notizia, oggi, corre, anzi dilaga, per mezzo di internet, si mescola a immagini colorate  pregne di proposte varie, ed appare difficile appropriarsi veramente di questa neo-babele che blatera dettagli su dettagli, proponendo, spesso, una realtà virtuale fatta di niente.Meglio oggi che ieri, naturalmente, ma è pure  opportuno quanto necessario capire che qualsiasi cervello umano non è in grado di sopportare questo bombardamento mediatico quotidiano.Non si tratta di censurare nessuno, bisogna invece non precorrere con l’attuale celerità tempi che riguardano l’intimo della natura umana (oltre che le necessità della nostra madre terra).Bisogna decelerare la corsa intrapresa, evitando s’infrangersi sugli scogli di una falsa conoscenza che, col passare del tempo, diverrà totalmente omologata.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a diatribe giornalistiche (carta stampata, tv etc) che risultano grottesche quanto inutili. Non voglio riferirmi a nessuna di queste in particolare (l’elenco sarebbe lungo, purtroppo), perché tutte presentano lo stesso vizio di forma: retorica bassa, demagogia urlata, populismo d’infima qualità. Nei salotti televisivi si parla di tutto, si giudica con non poca superficialità questa o quella vicenda, si esprimono valutazioni soggettive che intendono essere verità assolute.Si discutono sentenze, indagini ancora in corso senza essere sfiorati dal che minimo dubbio. Vige la presenza costante del tuttologo, colui/colei che discerne senza pentimenti di terremoti e piogge torrenziali, di naufragi e violenze domestiche.

Tutto è chiaro, tutto è certo in questi salotti colorati dove tutti fingono di essere  buoni amici.Ma è proprio in questi salotti televisivi che imperano due tipi di delitti culturali che Rosario Sorrentino (neurologo di fama mondiale) definisce- cito a memoria- “pornografia del dolore”, “scarnificazione dei sentimenti”.La nudità del dolore altrui  non disturba i numerosi retori, che affondano i loro bisturi conoscitivo dentro le carni più profonde della vittima di turno, scarnificandone, appunto, le emozioni più recondite. Autopsia dell’anima e del corpo, un po’ come quanto accade in alcune serie televisive americane trasmesse con solerzia anche in Italia dove gli esami necroscopici vengono mostrati in ogni loro piccolo particolare, non mancando, naturalmente, di evidenziare il rosso-cupo della carne umana distribuita in modo ordinato sui tavoli di altrettanto ordinati laboratori.Il corpo è un giocattolo che va montato e smontato senza particolari emozioni, come pure i sentimenti. Il  poter parlare di tutto eccita le menti di questi mendicanti del sapere, fa luccicare i loro occhi, esalta le loro questuanti narici.Deceleriamo la nostra folle corsa di falsa conoscenza- dicevo- solo così eviteremo gli scogli appuntiti dell’abbrutimento collettivo.

"lA RIVIERA", PRIMO GENNAIO 2022, P.19

 

domenica 26 dicembre 2021

ROMANZO D'IMPEGNO CIVILE

 

“ L’ uomo è forte” (1938) romanzo di Corrado Alvaro, è un inno alla libertà,

 un grido di dolore contro ogni forma di Totalitarismo

 Inizialmente era intitolato “Paura sul mondo”

 

 ENZO STRANIERI

 

Alvaro va riletto, le letture passate non hanno aperto squarci abbastanza vasti nel ventre della sua opera. E’ necessario accostarsi a quest’uomo senza pregiudizi, solo così si potrà cogliere la sua intima natura, che viene fuori in tutto il suo spessore ne “ L’uomo è forte”, romanzo dove l’impegno civile dello scrittore si evidenzia in una luce particolare. Alvaro, inizialmente, lo aveva intitolato “Paura sul mondo”, successivamente fu costretto a cambiarlo in “L’uomo è forte”. Ai censori dell’epoca (1938) il romanzo parve sospetto ed imposero allo scrittore il taglio di una ventina di righe e la precisazione che l’ambiente era la Russia. Il regime, così facendo, mostrò di non capire che il vero intento di Alvaro era una condanna univoca delle dittature: nazifascista e stalinista.


L’ambiente non era la sola Russia, dunque, ma il mondo, in particolare quella parte che mirava ad obiettivi di completa egemonia. L’atmosfera allucinante, le fobie che gravavano sui protagonisti ci conducano a F. Kafka, precisamente al “Processo” dove J.K. simboleggia la sconfitta di un’umanità che non ha compreso che nella vita “tutto è processo”, “tutto fa parte del tribunale”. “L’uomo è forte” è infatti un romanzo che narra la coercizione che il Potere opera sull’uomo allo scopo di annullarlo. Un Potere, questo,  che si  insinua nella  coscienza dei protagonisti,  ledendo la loro identità e sconvolgendoli sul piano morale. E tale violenza è possibile verificarla dalle prime battute del romanzo, quando Dale, ingegnere minerario, ritorna in patria dove è ancora viva la lotta interna tra le “bande controrivoluzionarie” e lo Stato. Ritrova Barbara, amica d’infanzia, e tra i due nasce l’amore. Ma Dale ben presto verificherà che la realtà di questo nuovo mondo è segnata dalla coercizione e dalla menzogna, un mondo dove il pensiero è considerato pericoloso. “Bisogna stare attenti a quel che si pensa. Possiamo influire sugli altri. E bisogna abituarsi a pensar bene”. Sono parole della segreteria dove lavora Dale che, successivamente, trovano conferma nel seguente assunto dell’Inquisitore: “ Tutti pensiamo a cose delittuose. Ecco perché è giusta l’espiazione. Il male è ovunque, in tutti, se mi fosse concesso dirlo affermerei che noi amiamo il colpevole”. E sarà proprio questa psicologia forte a far commettere ai protagonisti del romanzo tradimenti e delitti. Barbara, infatti, ossessionata dall’Inquisitore, denuncia Dale come ribelle. “Ella sente che Dale forse opera come tutti gli uomini, con un’energia logica e tenace, inesorabile come sono tutti gli uomini”. Barbara rifiuta l’intromissione di Dale nella sua vita, egli rappresenta il diavolo, colui che crea complotti contro i “salvatori della Patria”. “Era viva. Tra poco avrebbe deposto il suo carico di pensieri, di angosce, di terrori, era uscita dal mondo virile e turbolento, entrava nella ubbidienza e nella docilità delle regole”. Alvaro, attraverso Barbara e Dale, coglie i motivi che stanno alla base del consenso popolare alle dittature e che collimano in modo impressionante con le tesi di F.Adorno, esponente tra i più autorevole della “Scuola di Francoforte”. Ecco come Rossana Trifiletti Baldi sintetizza il pensiero di Adorno a proposito degli Stati totalitari: “L’efficacia dei dittatori risiede proprio nel fatto che essi assumono un atteggiamento asociale, e riescono a recepire nella loro ribellione fittizia la reale rivolta della natura che è stata repressa in ogni individuo: gli individui vengono così manipolati nella loro ultima reazione autentica, il “ritorno del represso”, e l’energia che istinti vietati mobilitano in ciascuno, viene deviata per i fini del regime”. Anche l’istinto di Barbara viene incanalato: “ Mi sono fidata del mio istinto. Il mio istinto mi diceva che sarebbe stato opportuno avvertire le autorità”. Per Adorno, inoltre, il rapporto tra il capo fascista e i suoi seguaci è di natura libidica, perché la figura del capo “diviene l’idealizzazione dell’io in ogni suo seguace, l’oggetto di una più immediata e fuorviante identificazione narcisistica”. Anche Alvaro conosce tale processo. “Barbara sentiva accanto a costui, l’Inquisitore, quello che una donna sente accanto ad un uomo pieno di desiderio violento e naturale, di quei desideri che legano contro la loro volontà due persone. Per poco non l’abbracciava stringendole le mani. E poiché un grande amore, sia pure come quello, nutrito di uno spaventevole istinto di distruzione, di una volontà di conquista fatale, non può non turbare una donna, ella scese quelle scale come se avesse sfiorato un amore cui non poteva rispondere ma cui la legava tuttavia una legge di natura”. Alvaro, dunque, coglie con acutezza di idee lo storpiamento che l’Inquisitore (il Potere) opera su Barbara (l’umanità), evidenziando come “nelle prassi dei regimi totalitari, l’individuo tocca il fondo della sua estraniazione, viene spossessato anche dei suoi istinti naturali e nel momento in cui crede di essere spinto da essi e di attuare la sua ribellione, è mosso come una pedina in senso contrario ai suoi interessi” (R.T.Baldi). E Dale? Egli corre verso il delitto di Stato. Dice l’Inquisitore: “ Noi non possiamo arrestare l’Ingegner Dale. Ci è troppo prezioso. Bisogna lasciargli il tempo di compiere la sua opera fino in fondo”. Dale, infatti, uccide in direttore della fabbrica in cui lavora credendolo una spia, ma viene catturato dalle bande controrivoluzionarie che lo affidano a Isidoro, contadino, per essere giustiziato. Nella parte finale, sostenuta da dialoghi fitti e penetranti (la metafora su “Le trasformazioni, ovvero l’asino d’oro” di Apuleio ne è l’esempio migliore), la narrazione dimostra che Alvaro  non sfugge alle sue responsabilità di scrittore.  Dale (Alvaro), infatti, si confronta col contadino Isidoro e non può fare a meno di costatare che “…sono ridicoli gli intellettuali, ma non c’è da disprezzarli. Sono fatti così…Ma li hanno allevati a credere che si possa accomodare ogni cosa, ragionevolmente, ragionando…”. E’ un finale tragicamente amaro, denso di emozioni particolari. Isidoro, simbolo della cultura d’appartenenza di Dale, media la catarsi di quest’ultimo, l’indispensabile ritorno alle origini. Egli sopravvive ai colpi sparatigli  da Isidoro (la Risurrezione) e ritorna nel  mondo fragile e mortale, ma è ancora un uomo e nella fuga, che lo porterà lontano dal Potere, troverà nuovi motivi di riscatto, forse.

 

 

 

 


 

 

sabato 27 novembre 2021

 "LA RIVIERA", DOMENICA 29 NOVEMBRE 2021, PAG.14

             “TUTTA UNA VITA”  DI SAVERIO STRATI,  RUBBETTINO 2021

 Un artista che ha  messo da parte gli strumenti stilistici di un tempo dando particolare rilevanza ad una sorta di spazio-tempo mentale capace di stabilire un rapporto nuovo  con i  ricordi, la memoria di quanto accaduto nel corso di una vita lunga e laboriosa

 ENZO STRANIERI

A  partire dagli anni ’80, Saverio Strati avverte l’esigenza di rivedere lo stile del suo linguaggio e, conseguentemente, anche le tematiche di fondo. Fino ad allora, tranne che nei romanzi  IL Nodo,1966, nei racconti Il Visionario e il ciabattino,1978, e in  L’uomo in fondo al pozzo,1989, ultimo suo romanzo pubblicato da Mondadori, la tematica centrale  è stato il Sud,  i suoi problemi secolari, le sue rinunce, le sue ataviche maledizioni sociali. E in questo è stato  concreto quanto originale, impegnandosi alacremente nella costruzione di una lingua popolare apparentemente semplice ma, cosa  alquanto rilevante, mai  consolatoria. Strati costruisce, elabora un tessuto lessicale che nei suoi numerosi romanzi porterà in auge il Meridione, le sue albe e suoi tramonti, i colori di una terra  protagonista di occupazioni secolari e quindi ancora alla ricerca di una sua  identità unitaria.

Di fronte alle  porte chiuse di Mondadori, suo editore fino al 1989, Strati si sente tradito, ha bisogno di esprimere il suo pensiero, le sue idee letterarie. Nel frattempo dà luce a un diario molto intimo (Tutta una vita) datato  1991, che sarà pubblicato postumo nel luglio 2021, presso Rubbettino, grazie all’interessamento costante di Palma Comandè, scrittrice e nipote dell’artista Il testo  reca  la  lucida prefazione di Vito Teti e la  nutrita postfazione  di Pasquale Tuscano.

Pino, protagonista del romanzo, appartiene a una famiglia benestante meridionale che si occupa di costruzioni edili. Il clima familiare è tranquillo e il giovane sogna di vivere l’esperienza universitaria in una grande città del nord (Milano) dove, in effetti, studierà architettura e non ingegneria come avrebbe preferito suo padre. Gli studi universitari non gli comportano serie privazioni economiche  ma anzi un  benessere dignitoso.

La città di Messina riserva al giovane amori poco duraturi  ma comunque piacevoli e degni di nota. La città dello stretto, anni ’50, si è in parte ripresa dal disastroso terremoto  del 1908 e offre una buona Università. Ma Pino sogna l’architettura e le bellezze museali delle grandi  città del Nord, ha bisogno di lasciarsi alle spalle la provincia, i limiti del paese d’origine.

A Milano, sua città adottiva, completerà i suoi studi universitari, laureandosi brillantemente in architettura.  Tale esperienza gli consentirà di appropriarsi di nuovi strumenti culturali, affinare con acume  anche le armi della conoscenza professionale.  Pino è comunque preso dalle bellezze museali, dai dipinti rinascimentali, dalla particolare architettura della città meneghina  a cui si aggiungono  le preziose visite a Firenze, ai suoi innumerevoli tesori culturali. Dicevo che la solidità economica della famiglia di Pino consente al giovane di guardare al mondo con occhi  meno rassegnati lo scorrere del tempo, sostenendo con un nuovo anelito i suoi progetti professionali altalenanti tra il territorio d’origine e il capoluogo lombardo perchè “combattuto fra il desiderio del rientro e il rifiuto di una società immobile” (G.Carteri).

In alcuni momenti  sembra incarnare  la vicenza umana di Rocco,  protagonista folle de “L’uomo in fondo al pozzo”(1989). Entrambi sognano  la fama, ma solo Pino, provvisto di una mente lucida e razionale, potrà godere del successo, seppur gravato da tante disillusioni sentimentali. Le donne, infatti, rappresentano eros e bellezza senza tempo, simboleggiano un mondo conchiuso, un abisso dei sensi incomparabile. E questo nonostante quasi tutte le donne che hanno conosciuto e amato Pino  ne denuncino  il suo apparente  cinismo.

Non è stato semplice scrivere di questa fatica postuma di Saverio Strati (S.Agata del Bianco 1924- Scandicci, luogo d’adozione, 2014).

I personaggi sono tanti, come pure i  protagonisti. Pur tuttavia, va detto che lo scrittore  muove i suoi personaggi/ pedine con la stessa abilità dei giocatori di scacchi. Soprattutto le prime 50/60 pagine aggrediscono il lettore, quasi lo disorientano, lo sollecitano ad alimentare meraviglia mista  a stupore. E questo perché non ci si aspettava uno scrittore prezioso custode  d’intimi segreti, testimone di vicende particolari che andavano riversate a futura memoria  sulla pagina bianca. E  questo senza particolari pudori. Le vicende amorose,infatti, esprimono una particolare voluttà, desideri ancestrali che danno  priorità alla carne rispetto alle semplici emozioni dell’animo.

Cosicché ci si trova di fronte a un’artista che ha ormai messo da parte gli strumenti stilistici di un tempo dando particolare rilevanza ad una sorta di spazio-tempo mentale capace di stabilire un rapporto originale  con i  ricordi, la memoria di quanto accaduto nel corso di una vita lunga quanto laboriosa. La circolarità del tempo, del pensiero che si aggancia al presente-passato-futuro,  con l’aggiunta di riflessioni che l’io narrante rivela al lettore  hic et nunc e che, naturalmente, non sono percepibili dalle figure di primo piano o anche secondarie  scelte all’uopo dall’artista. Quasi un ventaglio della memoria che  registra tutta una vita, appunto. Strati visiona in modo quasi morboso i dati della sua attuale esperienza con i numerosi avvenimenti del passato, di cui ha memoria viva e che ha conservato gelosamente in una sorta di scrigno fortunatamente non più privato.

 

 


 

 

 

 


domenica 24 ottobre 2021

La Padrina, romanzo di Palma Comandè, Rubbettino 2021. Recensione di Enzo Stranieri del 23 Ottobre 2021, LA RIVIERA, P.19.

 LA PADRINA,  terzo romanzo della scrittrice Palma Comandè che descrive il dramma della donna tra malavita e disagio sociale

     La Padrina” di Palma Comandè, Rubbettino, 2021, non è solo un romanzo, è anche un breviario antropologico, uno spazio dove il narrato cede il passo a brevi ma intensi aforismi. Credo che la quarta di copertina non renda completo merito al romanzo, apparentemente volto in più direzioni ma con al centro  protagonisti  che in realtà s’identificano in un’unica matrice sociale, un grumo di speranze deluse,  alimentate da un unico quanto pericoloso carburante: la violenza come riscatto sociale. E le donne, in un mondo così  legato alle antiche usanze (non solo a quelle ntranghitiste-mafiose), pagano un prezzo inaccettabile, doloroso oltremisura.  ll ruolo della donna all’interno di un alveo sociale che, negli anni ’80,  in un preciso territorio calabrese, è ancora denso  di contraddizioni socio-culturali, che la ingabbiano fino a renderla senza voce. Ci si pensa ombelico del mondo, s’ innaffiano arroganza  e miseria culturale, ma si rimane sempre e comunque ai margini del mondo, e questo anche quando si crede d’essere protagonisti in America (Merica), dove per viverci da ricchi mafiosi si paga un prezzo elevatissimo. Non ci si accorge del ghetto antropologico in cui si agisce,   lontani della società americana,  che li  giudica  portatori  di tradizioni d’altri tempi. Al vertice  di questo microcosmo c'è la nonna di Marià (protagonista/io narrante), donna Menù (La Padrina) che, come ebbe a dire in un secondo momento alla nipote,  è divenuta arida e violenta perché si è sentita creditrice nei confronti di una società che le aveva ingiustamente, secondo lei,  tolto affetti e sangue filiale. La Padrina comanda su tutto e su tutti. Ogni sua richiesta viene esaudita anche quando potrebbe sembrare violenta e priva d’umanità. Rappresenta la giustizia in pectore, simboleggia quello che un tempo veniva definito   “tribunale dei poveri”. Nel piccolo paese del Sud d'Italia dove è ambientato il romanzo non potevano mancare i sogni, le speranze in un futuro migliore. Cominciamo da quelli soffocati ancor prima di vedere la luce. Marià e Lisa sono amiche dai tempi dell'infanzia, da sempre condividono progetti per il futuro.

Lontano dalle fasi in cui la realtà prende una piega di violenza estrema, la freschezza giovanile e sognante delle due amiche giunge al lettore come acqua fresca di sorgente ancora incontaminata. In queste pagine c’è tanta poesia (opportuni, a tal proposito, i termini dialettali utilizzati  per dare la misura  del  luogo d’origine). I sogni e le  speranze  di Marià e Lisa sospingono verso un mondo volto al cambiamento,  lontano dalle trappole dell’ambiente paesano. Marià spera di fare la stilista, Lisa di sposare Peppe, il suo amore. Nessuna delle due, a conti fatti, riuscirà nell'intento e sarà Lisa, in procinto di sposarsi, a pagare con la vita i suoi sentimenti sinceri per il giovane ndranghitista. L’uccisione di Lisa e Peppe (che aveva deciso di lasciare il paese per vivere con l’amata a Milano, rompendo così con i vincoli mafiosi d’origine) è quasi un delitto annunciato. Da qui in poi si dipana un  narrato  vasto, tanti i misfatti compiuti e/o subiti dai  principali protagonisti. Va sottolineato, però, che Palma Comandè non si ferma alla mera narrazione di vicende di malavita all’interno di una Koinè immersa   nell’arretratezza. Non è soltanto una storia di mafia, infatti. Nella realtà antropologica di questo mondo conchiuso non c’è spazio per la donna, che  solo nella “fuga” può trovare un suo concreto riscatto. In questo senso la figura  di Marià  è ambivalente, cerca  disperatamente d’ essere una  moderna Antigone ma senza potervi riuscire. E per questo dice a se stessa: “ Che tutto quello che non c’era più, non mi restava che il ripiego in me stessa, a cercare la pace. Ovunque…nella rassegnazione”. Ma non è, come deducibile da un’ attenta disamina del romanzo,  una rassegnazione priva di luce.  Marià è accusata dalla Padrina di avere tradito gli ideali della famiglia, perché, tra l’altro, considera la montagna come terra matrigna, e per questo la disereda, la maledice con inaudita ferocia, sperando che  ella sia sotterrata al più presto  nei modi drammatici che hanno visto morire sua zia Mara Rosa, suicidatasi per sfuggire alle grinfie sadiche di sua madre (la Padrina). Chiudo con un’altra bella riflessione di Marià. “Ma l’imbarazzo di Rocco mi riportò drasticamente alle origini. A quel nostro mondo singolare. Accogliente ma anche respingente. Aperto ma anche chiuso. Vivo ma amche morto… Quel mondo dei contrasti. Che è tomba ed è  culla. Da cui fuggi , e nel quale vuoi tornare..”.

domenica 11 aprile 2021

GIOACCHINO CRIACO, L’ULTIMO DRAGO D’APROMONTE (Rizzoli, Milano, 2020)

 

Dopo il romanzo d'esordio “Anime nere” (Rubbettino, Soveria Mannelli 2008) in tanti si aspettavano una battuta d'arresto del giovane autore di Africo Nuovo, questo perché i pregiudizi viaggiano veloci e senza ritegno. Tuttavia Gioacchino Criaco non si è fatto intimorire dai ghigni sardonici di quanti giudicano senza leggere, animati da gelosie e rancori capaci di costruzioni malevoli col solo fine di togliere spazio e valore a un artista che, invece, con caparbietà e intelligenza continua a percorrere il solco della cultura nazionale e non (alcuni suoi romanzi sono tradotti all'estero). Detto questo, ho voglia di parlare del suo ultimo romanzo “L’ultimo drago d’Aspromonte”, Rizzoli, Milano 2020, adornato dalle pregevoli tavole/disegni di Vincenzo Filosa. L'ho letto a più riprese, mi è piaciuto da subito, quasi ad ogni pagina dicevo a me stesso che di strada ne aveva fatto lo scrittore di “Anime nere”, una strada senz’altro accidentata, perché la scrittura è capace di trabocchetti che possono sortire anche pesanti sconfitte. Egli, a mio modesto parere, sin dal suo esordio, si è posto un compito, non facile, ma che sta perseguendo con tenacia, ovvero delineare il vero volto umano-culturale del suo/nostro mondo nel tentativo di evidenziare non solo le ombre ma anche e soprattutto le luci. Lui stesso si porta addosso antiche stimmate, soffre ancora per le gravi contraddizioni che hanno animato per decenni le “anime nere” nascoste nei fitti boschi dell'amato Aspromonte, e tuttavia sembra dire loro in ogni suo scritto, che è necessario fermarsi, che la vita è breve e che bisogna assaporarne la parte migliore. Ma tornando alla struttura stilistica di questo suo ultimo romanzo, va subito detto che esso segna una maturazione rilevante rispetto al resto delle opere precedenti e questo perché Criaco ha saputo non ripetersi. Non mi aspettavo un romanzo così bello, non mi aspettavo una scrittura così robusta e al tempo stesso leggera, quasi eterea.
La figura del giovane trasferito quasi con forza in una comunità dell'Aspromonte per disintossicarsi dalla droga è solo un pretesto simbolico, una potente allegoria per portare alla luce le ansie dello scrittore, le sue interne lacerazioni culturali che trovano piena esplicazione in una necessaria sospensione spazio-temporale utile per portare alla luce le sue ferite interiori. E questo perché in questo generoso romanzo il protagonista è sempre Criaco, ogni personaggio lo rispecchia in pieno, gli ricorda vecchie questioni, ma non rancori, Non è tempo di rancori /vendette, Il giovane infatti, vivendo a stretto contatto con la natura e gli animali, sta, se pur lentamente, divenendo un strano eremita : beve molto vino, mangia senza mai saziarsi , parla con gli ortaggi del piccolo orto, ma è pur sempre inquieto e insoddisfatto e affida alla natura, appunto, la sua agognata risurrezione. Quest'ultima si è rivelata una marcia purificatoria per i boschi, e questo soprattutto di notte, allorquando il popolo dei boschi parla, sussurra, ricorda al giovane antiche profezie, sogni rimasti incompiuti. Un viaggio dentro le ombre notturne, i misteri che animano la sua giovane vita . Egli ha così modo di apprendere uno strano linguaggio: la parola appartiene anche alle piante, che nel mentre parlano invitano il giovane a compiere fino alla fine il suo cammino verso saperi antichi ma ancora capaci di forza e magia creativa. In queste pagine il romanzo cresce di vigore e progettualità (allegorie sospese tra sogno e magia), ci fa apprendere l'esistenza di un mondo divenuto luogo di fantasmi stanchi di nascondersi nei boschi di un monte aspro, solitario, sospeso tra vallate fiorenti e radure senza vita, prive di uomini e anche animali. Ma anche i rovi, i muri a secco, gli ovili dismessi nascondono tesori perduti, verità che non desiderano essere sotterrati nella nuda terra. E quindi il viaggio purificatorio del giovane (di Criaco) deve per forza avvenire nei boschi, dentro le terre arse dal sole dove un tempo i pastori portavano orgogliosamente al pascolo le loro greggi. Ed è un proprio un vecchio pastore (saggio e ricco di buon senso) che rivela al giovane la nascosta verità inerente il suo luogo d'origine, soprattutto le menzogne a lui taciute dai suoi familiari (da alcuni vecchi giornali custoditi dal vecchio il giovane scopre la natura criminale dei suoi, la loro appartenenza alla ndrangheta). “In questa montagna, ci sono solo peccatori” (pag.163), qui nascono e crescono peccati che vanno espiati. Pure il porco/sindaco è un animale corrotto, che cura i suoi interessi, che ingrassa quando non è tempo di uccidere i maiali e dimagrisce volutamente (lo si risparmia perché denutrito) proprio nel periodo in cui i maiali diventano carne per l'intera annata. Qui Criaco insiste con maestria sulla leva allegorica che sorregge l'intero romanzo; gli animali assomigliano alle persone, infatti…”mi mostrano il rifugio dei peccatori" (p.171). Il finale rimanda a: 1) Lo scrittore fa ritorno alle origini, quelle vere, le stesse che ancora custodiscono le forme, la memoria antropologica di quanti dalla montagna sono stati deportati verso il mare. E la fama di questo popolo, alimentata da pregiudizi e faciloneria, ha prodotto nelle anime sensibili volontà di riscatto e profondo desiderio di costruirsi altro rispetto ai facili luoghi comuni; 2) Il drago che dà il titolo al romanzo, e che generalmente rappresenta le forme magiche, ancestrali che regolano la vita e i profondi misteri dell'Universo, nell’opera diviene sia fustigatore (specie a livello onirico) dei peccati commessi da quanti avidamente hanno remato verso approdi sbagliati, sia fedele custode delle fattezze antiche, primordiali, di un Aspromonte che non vuole essere invaso da quanti non ne comprendono la storia e la bellezza. Utopia? Sterile sogno? Non credo, il romanzo di Criaco è quanto mai realistico: metafore e allegorie sottendono sempre e comunque alla necessità di proteggere e valorizzare antropologicamente ciò che in apparenza appare perduto, sollecitano un impegno verso un cammino non necessariamente assolutorio rispetto a responsabilità che da individuali sono divenute quasi collettive. E’ il sogno, questo sì, di una rinascita che sempre e comunque celebri senza retorica le fattezze culturali e storiche del mitico Aspromonte. Ciò non rappresenta un limite, non circoscrive l’opera in un preciso ambito geografico, perché in ogni luogo della terra vi è un Aspromonte da conoscere, interrogare e, soprattutto, da proteggere.

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mercoledì 17 marzo 2021

Il seme nelle terre perse, di Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016

 


 

Prendo con un certo ritardo i miei appunti su un saggio dal titolo suggestivo: Il seme nelle terre perse, di Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016, motivi contingenti non mi hanno consentito di scrivere prima su questo bel testo che contiene diversi saggi di natura variegata che hanno come unico baricentro la semina culturale (mi si passi la metafora) che in ogni lembo di terra potrebbe, se è vera e viva la decisione di seminare, attecchire in un qualsiasi terreno incolto. Italiano si è costruito un particolare linguaggio: letterario quanto basta, chiaro e puntiglioso, perché lui tiene alla comunicazione priva di fraintendimenti. E in questo egli è proprio bravo, mai s’inerpica su pericolosi dirupi semantici perché lui è persona mite e priva di retro pensieri. Detto questo, la miscellanea dei suoi scritti offre-tra ‘altro- un inedito spaccato del teatro di Mario La Cava- a esempio- la cui struttura scenica e prosastica aveva tanto impressionato Leonardo Sciascia; per poi ricordarci che anche un Gramsci ha potuto sbagliare allorquando ha sminuito in modo grossolano e violento il romanzo Emigranti di Francesco Perri. Italiano mantiene una buona amicizia con Matteo Collura, cugino di Leonardo Sciascia, e al quale ha dedicato un prezioso volume. Collura è venuto a Bovalino più volte per la presentazione di alcuni suoi saggi, e del nostro lembo di terra è rimasto impressionato positivamente. Italiano parlando di Collura in realtà parla anche di Leonardo Sciascia, indomabile “moralista” troppo presto venuto a mancare. Non sono assenti le note di cronaca, naturalmente, ma queste vanno giustamente affidate al lettori, che invito a leggere questo bel saggio intriso di valori morali senza tempo.

martedì 16 marzo 2021

“Brevi finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020

 

“Brevi finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020, è una sorta di taccuino contenente note che poco insistono su vicende di mera quotidianità, tantomeno l'autore registra pensieri staccati da valutazioni storico-politiche attualmente in auge. Egli s'impegna – tra l’altro - a decifrare i motivi di fondo che hanno contribuito a impantanare il dibattito socio-antropologico a livello globale.  E lo fa osservando con dovizia di particolari le contraddizioni della società attuale, ma nel farlo non usa alcun nerbo, il suo linguaggio è apparentemente calmo e mai scontroso, infatti, Pare di sentire una voce volutamente flebile,  mai volgare, con parole che disegnano la realtà interna/esterna senza mai scivolare in beceri luoghi comuni, mantenendo sempre oggettività e senso  delle proporzioni. Anche l'ironia di alcune note è saggia e mai invasiva. E’ un linguaggio- come dicevo- che differisce molto dalle sue precedenti opere narrative e di viaggio, a dimostrazione della progressiva maturazione semantica. In questo testo di appunti, infatti, Talia mantiene un contegno linguistico straordinariamente unitario. Non voglio riassumere il testo, non è questo che interessa il lettore, ma non posso non ribadire che l'autore ha saputo con eleganza e maestria descrivere con estrema incisività la sua attuale visione del mondo, che, a ben vedere, va di molto oltre strette e BREVI FINESTRE.

  “Questo ci indica che in futuro di fronte a scenari inediti dovremo essere capaci di esprimere forme originali di pensiero e di conoscenza e definire nuovi e più sofisticati linguaggi che ci permettano di esprimerli”.(pag.87)