venerdì 10 febbraio 2017

Morire è semplice. Il suicidio del giovane precario.

09 febbraio 2017
Morire è molto semplice, difficile- spesso impossibile- è vivere nell’alveo di una società (tutti noi) poco premiante, sorda alle richieste d’aiuto dei giovani. E sì che hanno strasudato, i giovani, per diventare uomini pronti ad occupare un giusto ruolo nel mondo del lavoro, disposti a esprimere una professionalità  fresca e degna di essere messa alla prova. Mi ha molto colpito la lettera di Michele ( 30 anni, suicidatosi l’altro giorno, pubblicata sul “Il Giornale”), che ha deciso di lasciare il mondo terreno perché nessuno l’ha aiutato a trovare un lavoro, a sfuggire ai giorni privi di prospettiva, a dipendere in tutto dai suoi genitori, persone splendide distrutte dal dolore . Michele aveva  tanta voglia di vivere, ma le delusioni, tante e ingiustificate, hanno lacerato il suo giovane cuore, demolendo la fiducia in se stesso e negli altri

I genitori hanno chiesto che la lettera del figlio fosse pubblicata integralmente dal Messaggero Veneto . «Perché questo è un allarme rosso, un grave fenomeno sociale, che lui ha voluto denunciare».

PRECARIETA'
La lettera di Michele pubblicata da “il Giornale”

Ho vissuto (male) per trent'anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.
Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un'arte.

Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l'altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

PRECARIATO
Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.

Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest'ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po' non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

NO AL PRECARIATO JPEG
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c'entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

PRECARI RAGAZZI CON LA MASCHERA JPEG
Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c'è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un'epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l'alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l'ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c'è davvero bisogno.

Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po'. Basta con le ipocrisie.
GIULIANO POLETTI
Non mi faccio ricattare dal fatto che è l'unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all'individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.
Dentro di me non c'era caos. Dentro di me c'era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un'accusa di alto tradimento.
30ENNE SUICIDIO LETTERA
P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché ho potuto.






sabato 10 settembre 2016


PROLOGO


I poeti non hanno bisogno di viaggiare, conoscono spazi infiniti, volgono il loro sguardo su distese dove non giunge nemmeno l’occhio insolente dei nuovi sistemi satellitari, perché la visione d’insieme  di  un poeta, il suo radar intellettuale è in grado di opporsi  a chi crede - e sono in molti, purtroppo - di  poter trasformare l’esistenza vera in realtà virtuale, costruita sulla totale finzione. 
Certo - per dirla con Pessoa-  anche i poeti sono dei fingitori, non perché falsi o ipocriti, ma perché necessariamente avversi alla cosiddetta realtà. Un poeta vero, infatti,  non può che opporsi allo status quo. 
La Poesia dà valore alla vita, la scandaglia a suo modo, rappresentando una delle cime più alte del pensiero umano. Un poeta non vive in un preciso luogo spirituale: scruta, s’immerge negli abissi marini alla ricerca di luce, riemerge per dare conto delle sue visioni, del suo sguardo sul mondo. 
E tuttavia - ciò non è una contraddizione - ha bisogno di ancorarsi fisicamente a un luogo fisico, trasformarlo in finestra sul mondo. Il luogo può essere quello natio dove egli sarà testimone di mutamenti radicali e dal quale - a un prezzo altissimo -, potrà intraprendere la sua azione intellettuale, oppure porsi su altri lidi alla ricerca di un’altra dimensione, considerata-  a torto o a ragione, cosmopolita. 



VINCENZO   STRANIERI








PENSAVAMO
FOSSE ARRIVATO
IL NOSTRO TEMPO




(Pensavamo fosse arrivato il nostro tempo,
la nostra fetta di vita.

Ma siamo ritornati nei nostri buchi,
profondi, neri come la morte).



                                                ( testo poetico)





                                        


                                              L’AVAMPOSTO   (1986)






Mi accade di entrare in una stanza dove c’è
gente che scherza, ride e d’istinto assumo il
ruolo dell’istrione.
Finita la festa, me ne vado pensando che
dietro il pagliaccio  davvero s’annida
l’ombra del dramma.
                            (Vincenzo Stranieri)



Ai miei genitori

1
Per viver abbiamo rubato il nettare
alle api, cospargendo di acre dolcezza
le nostre menti stanche.

Pensavamo fosse arrivato il nostro tempo,
la nostra fetta di vita.

Ma siamo ritornati nei nostri buchi,
profondi, neri come la morte.

Per scaldare i nostri cuori traditi
abbiamo rubato il magma ai vulcani.

Ma il freddo ha macchiato di sangue
le nostre dita indurite.

2
Se uscito dal tuo guscio senza lo scudo
e le frecce avvelenate.

Il sole brucia la tua pelle di latte.

Non mentire: sei nato per parlare a gran voce,
lontano da ipocrisie malcelate.

I granelli di sabbia lacerano il tuo corpo indifeso,
come schegge di mortaio.

Torna nel tuo labirinto, non sei nato
per creare complotti, commedie con attori
scaduti.

         ( è guerra, ormai).


3

Tra le mura del villaggio,
gli occhi cercano una scena inventata,
una mano da stringere forte

       ( i brividi i una carezza)

Non sei solo.

Ma sembra di vivere l tempo
delle streghe maligne
con gli uomini divenuti ranocchi

    (padroni di un misero stagno).


4

Non aspetto più il giorno,
forse neanche il sole
sorgerà tra le colline.

Quando avete squarciato i ventri
delle vostre madri, non pensavo
a una fuga senza ritorno.

Dieci, centro, mille ventri squarciati.

Sono rimasto solo, con in mano
un coltello luccicante.


5

Ti pensavo incline alla beffa,
con in mano un pugnale di carta.

Sospettavo semplici risate,
l’onesta burla di un clown.

Finito il tempo dei coriandoli
hai rimesso maschere e vestiti
tra i tuoi giochi di sempre.

E ti sei travestito da uomo.

6

Siamo cavalli dal galoppo sfrenato,
gli zoccoli spaccati dai sassi.

Il fiume rallenta la fuga, inumidisce
le piaghe.

Il galoppo diviene folle, il sudore
incrosta le groppe, e il pianto traccia
una strada in salita.

Ma resta solo il nitrito nell’aria,
i cappi attorno al collo, come al tempo
del Far West.



7

Ho lasciato che i tronchi scendessero
a valle.

Il mio cavallo alato è caduto nel fango.

Ma la zattera naviga sul fiume,
nel grido lacerante degli uccelli.



8

I pugni sono sul petto e le bestemmie
nel cuore, vecchio blasfemo tradito
dal fato.

Non urlare al vento i tuoi sogni trafitti,
la terra non ha bisogno del tuo pianto
di ghiaccio.

Sono terminati gli attimi della rivolta,
quando i visi illuminavano la notte.


9

I guerrieri hanno perso le lance.

L’albero è rimasto senza foglie
e solo il pianto dei tronchi denuda
le rocce.

Gli eroi hanno spesso di gridare,
il bosco è covo di fantasmi, ora.

All’alba, gli uomini si alzano eroi,
i petti sono gonfi, ma la sera in agguato
e solo allora compare l’amarezza.


10

Non sono venuto a trovarti
con le manette nascoste.

(Le prigioni non hanno senso per chi
ha avuto come casa stanze sbarrate,
portoni di ferro, mense maleodoranti).

E se ti puzzeranno i piedi non chiedermi
perché manca l’acqua.

E se avrai fame non chiedermi cibo.

Le crepe dei muri, feritoie profonde
che nascondono la verità
  
                 (terrificante).

E i lutti, i corpi senza nome, la terra arsa.

Non chiedermi nulla.


11

Tra misteri  scavati nella notte,
la polvere delle arene fugge lontano,
insegna da uomini in ginocchio.

                 (sconfitti).

Tra le pieghe di armonie cancellate
si nascondono sordide imprese

          (e la disperazione).

E’ salita sulle spalle del tempo,
la infedeltà alla vita.



12

Le barche navigano stanche,
i pesci si rifugiano negli anfratti
delle scogliere amiche.

Le reti trascinano solo se stesse,
come uomini soli, claun senza applausi,
disperati profughi.

A che serve cantare i silenzi della notte?

All’orizzonte si intravedono i bagliori
del giorno, della sua luce accecante

                     (senza vita).



13

Non puoi mentire a te stesso

                (e agli altri).

L’attesa degli eventi lascia tracce
nell’anima.

Ti ritrovi in delirio, con viso riflesso
in uno specchio di niente.




14

La dita sui tasti.

Cosa scriviamo in questo tempo di quiete?

Una storia nuova?

Una favola nuova?

La tentazione di battere con violenza,
coraggio.

La consapevolezza del vuoto.

Cosa scriviamo in questo tempo
di quiete?




15
Non pensarmi a capo in giù nel mezzo
di un campo di grano.

Non farlo.

Quel che mi resta non penzolerà per la gioia
di chi ci vuole a capo chino,
inginocchiati fino allo spasimo

                                    (derisi).

I miei piedi non guarderanno
il cielo stellato, batteranno forte,
con rabbia sulla terra indurita.

Avrò ancora la forza di stringere le tue mani
e cancellare dal viso le mie pene.  



SOLO IL VENTO
1

Hai voglia di correre, gridare,
amare qualcuno, qualcosa.

Hai voglia di creare un momento,
un attimo di vita migliore.

Anche i bimbi vorrebbero,
anche i vecchi vorrebbero,
tutti vorrebbero,

    ( ma nessuno si muove).

Solo il vento ha la forza
di muovere le cose
strapparle dal loro
eterno  torpore.

Tu non sei il vento, la pioggia
che dà vita alle cose, e nemmeno
Il fuoco che distrugge ciò che
la vita la costruito.

Tu sei.


2
E’ una posizione bassa, la mia
       (un’immensa pianura di sassi).

Mi guardano ansiosi gli occhi del paese
                                 (e le ingiurie).

Se venisse il sonno!

Lo abbraccerei come il corpo
della mia donna.

Io cercavo l’amore.

Ma solo acredine intravedo all’orizzonte.




3

Il respiro solleva nell’aria
la polvere di antiche nostalgie.

Scruti il tuo corpo alla ricerca
del sogno.

Sei stanco.

Questa notte non basterà
a mandare vie le lacrime.


4
Tra le colline le case sono forti e robuste.

Sulla terra solo il pianto dei vecchi
parla il linguaggio dei poveri.

Non lasciarmi nel bosco come rovo antico
che teme il freddo della notte

        (con dentro l’ansia dei giorni perduti).

5

Cerco di entrare nella tua carcassa,
vecchio.

E’ buio e stretto il labirinto
delle tue vie interne.

Non è distante la tua saggezza,
i colori delle albe incrociate di grano,
quando i visi cercavano lo sguardo
della terra.

Userò la forza.


6

Hai marciato su  la schiena dura
delle colline, scavano un buco di sangue
sul petto bruno.

Tra le rovine hai cercato un brandello
di vita
           
(l’intenso brivido del tuo corpo di carta).

E le tue trecce, offerte da un gitano
al prezzo di trenta denari.

7
La citta ti accoglie nel suo ventre
                    (sei tornato anzitempo).

Lontano dalle unghiate velenose dei
giorni intrisi di pianto

                      (e di bestemmie).

Il tuo occhio sul mondo, la sua carne.

Anche senza la luce del cielo saprai
scherzare con gli occhi della luna.



8

I capelli neri sfiorano i gins, con il vento
che si diverte a disperderli sui fianchi

Solo ora il burrone appare mostruoso
                             
                             ( al di là dei campi di grano).

E la corsa d’amore si spegne senza un grido,
con il vento che si diverte a stuzzicare i
capelli neri, a coprire gli occhi dilatati d’amore
                               
                             ( e di tristezza).      

9

Sono ritornati i fantasmi di un tempo

 ( e la loro perfida danza).

Non avverto più le carezze dei giorni
privi d’angoscia, quando camminavo
per i marciapiedi della città.

Non è tempo di magiche risurrezioni

          (le croci sono perite tra le fiamme).

Offro le spalle al vento.



10


Non è solitudine, questa.

E’ il silenzio dell’inesistente

                     (l’odore, anche).

Gli uccelli rimasti turbano la quiete

                   ( arida, eterna).

Un ritorno alle origini

       (un lampo abbagliante).

Non è solitudine, questa.




11

Su un cerchio di cemento lasciammo
svanire di nostri gesti d’amore.

La voce, l’urlo anzi, di un compagno maldestro
lacerò i nostri corpi accaldati

        ( una morsa di carne viva).

E la stretta d’amore svanì senza parole,
lasciandosi alle spalle un inquietante
mistero.

Con gli anni, la vita ha riproposto
i suoi veti e noi, impotenti, ci parliamo
con gli occhi.


PAESAGGIO LUNARE

1
Le impronte dei mie passi hanno
Costruito un paesaggio lunare.

Io non amo la luna, i cuoi crateri
di cenere, le sue forme cangianti.

(la tentazione di voltarmi indietro,
 la paura di andare avanti, cadere nel vuoto).

Non voglio pensare. Ho terrore.

        ( Non sarà come a Pompei).

2
Il tetto, i muri graffiati dal tempo,
il silenzio del paese.

Il tetto della fanciullezza cigola
sotto il peso del mio corpo adulto.

La ‘Comune’, il ‘Che’ mi guardano
incuriositi.

La mia barba non confonde
i loro occhi: sanno chi sono.


3

Io non ho attivato alcun congegno
esplosivo.

Non potevo.

La mia vita non ha conosciuto
l’orgasmo della follia.

Sulle strade del mondo i ‘Pilato’
offrono l’ecce homo alla folla.

Molti, troppi, soni corpi disfatti.

4

Un volo, dolce, solitario.

Poi l’atterraggio in un mondo deforme,
sconosciuto: la terra.

I covoni bruciano in fretta e le fiamme
lambiscono le notte come la scure
il legno del bosco.

I granelli di sabbia tremano, anche il mare
trema, ha paura degli uomini,

           (pirati dei fondali più bui).

Anche gli stormi hanno cessato di volare.

 5

Gli occhi stanchi, pietrificati,

Un sorriso folle, quasi.

Non era bello guardare il fiume
insanguinato.

I cani annusano l’acqua

                ( senza sazio).

Auschwtiz…Beirut.       


6

Corriamo assieme al tempo, ora

     (il ritmo, inquietante, dei suoi battiti).

I latrati sono dietro le nostre spalle.

Per questo cerchiamo uno spazio
dove lasciare i nostri sogni.


7

Danzano impazzite le parole,
fluendo per le vie come passi
di uomini in corsa.

Lasciano sui muri scie d’inchiostro
maledetto.

E una cinica carezza sulle mie
mani dipinte d’angoscia.





martedì 26 luglio 2016

Il "Saltozoppo" di Gioacchino Criaco, Feltrinelli 2015.

L’ultimo romanzo di Gioacchino Criaco, Il saltozoppo, Feltrinelli 2015, ha subito  riportato alla mia memoria  le forme  burlesche di un gioco tradizionale  praticato fino agli anni ’60 nei nostri piccoli paesi. Ciancapuglieglia, questo il suo nome dialettale, ovvero pollastra azzoppata  che camminava saltando su una zampa. Da bambino ne ho viste un bel po’ muoversi sbilenche per le vie polverose della mia ruga.  Spesso erano proprio i ragazzini ad azzopparle  con la scusa che tanto era un gioco privo di vera cattiveria. Già, privo di cattiveria, ma per il piccolo animale domestico significava la morte imminente perché in quello stato poco serviva al suo padrone.  Ne Il saltozoppo Criaco  utilizza l’antico gioco come metafora per sottolineare il destino dei tre principali protagonisti del romanzo (Julien Therime, Agnese  Dominici e suo fratello Alberto). Ma  protagonista  è  pure l’Aspromonte “che pasce la gente a odio e amore” dove ancora feroci insidie tribali si mescolano con una modernità male assorbita. Ma non starò qui a riassumere per intero i fatti, sarà il lettore a penetrarvi come meglio crede. Il saltozoppo differisce alquanto dalla struttura stilistica dei precedenti impegni letterari di Criaco, specialmente da  Anime nere (Rubbettino, 2008) che ha dato ampia  notorietà allo scrittore di Africo Nuovo. E questo, molto probabilmente, perché egli avverte da sempre  il bisogno vitale di non farsi intrappolare da un progetto creativo che  inevitabilmente peschi nello stagno antropologico della criminalità locridea. Un rischio che  Criaco, per fortuna, ha sempre tenuto  presente,  relegato ai margini. Ciò, appunto, per non essere additato come narratore  esclusivo delle “anime nere” che abbondano per le nostre contrade e non solo. La conseguenza - altrimenti- sarebbe funesta:  a furia di stigmatizzare le tristi vicende del mondo criminale,  prevarrebbe  il rischio di rendere circoscritto e  non di vasto respiro l’humus  della sua scrittura.  Provo ammirazione e rispetto per questo  nostro conterraneo  impegnato a  limare la sua tecnica narrativa nel tentativo, finora riuscito, di costruire un  suo specifico linguaggio non riconducibile all’abbondante e variegato mondo del sottobosco letterario che, specie in Calabria, cresce senza pudore alcuno. Mi preme, in questa sede,   sottolineare il modulo stilistico (a più voci, polifonico) adoperato dall’artista ne Il saltozoppo. L’io narrante delinea le fattezze, le gesta dei protagonisti lasciando da parte pretese conoscitive  troppo vincolanti. Voglio dire che l’autore, specie in questo romanzo, non intende più rimanere allo scoperto,  muta la sua azione stilistica in una sorta  di narrativa  a più voci  (Il geco, la ninfa, il cucciolo, il serpente, l’aquila, Silvestro)  che nel narrare  se stesse svelano, non senza dolore, le forme della loro immersione  nella fitta logica della faide  secolari e per questo ancora “anime nere” che  solo dopo varie perizie, prove fatte d’angoscia e qualche pentimento, riescono (Agnese e Jiulien, soprattutto) a comprendere, forse, che i rivoli di sangue sparso per l’Aspromonte  comportano solo morte e distruzione . (“E poi venne la peste. Il vento nero soffiò forte, oscurando gli usci e spezzando le favole…”).  Ma è una polifonia strategica, in realtà il burattinaio è sempre l’autore, che cerca spazi umano-culturali più vasti, anche se è ancora presto per lasciarsi alle spalle il mondo che lo ha partorito e dove, finalmente, oltre al sangue vi è la presenza di un amore profondo e pregno di promesse, quello tra Julien ed Agnese, che si manifesta in tutta la sua dirompenza solo nei luoghi di nascita: nelle calde acque del mare Ionio, che accarezza i loro corpi per poi ricoprirli di sabbia tiepida simile a carezze materne. Certo, è ancora amore giovanile, passionale e pregno di erotismo, tuttavia è amore eterno, mai scalfito dal dubbio e per questo in grado di scontrarsi con la realtà malavitosa del Nord che li obbligherà a scelte di vita drammatiche: morte, carcere, sequestri e conseguenti ricatti. Ma quando il lettore, scavando nelle intense pagine del romanzo, sembra rassegnato ad un epilogo funesto (“Ma il desiderio dei bambini non mutano il destino costruito dai grandi”), certo che i protagonisti  non  hanno saputo (o potuto) scrollarsi di dosso le malsane regole dei luoghi d’origine fatte di antiche faide (sviluppatesi dagli Aragonesi  in poi), traffici e altre trame illegali (droga in  primis), viene fuori un finale aperto che ben si collega ad un desiderio espresso a metà romanzo da uno dei protagonisti: “La rivoglio la mia favola. Per sempre”.






martedì 25 agosto 2015

IL RICORDO. LETTERA NON RECAPITATA A GIANNI CARTERI


SCRITTO DA VINCENZO STRANIERI - . -PUBBLICATO  inAspromonte"IN AGGIORNAMENTICOPERTINECULTURALIBRI E SCRITTORIRITRATTI
«Se vi viene il sospetto che state per morire
 mettetevi una scatola di fiammiferi in tasca.
Che la notte sarà lunga, lunga…»
Tonino Guerra-
EPSON DSC picture
Carissimo Gianni, *
non so di preciso perché oggi sono venuto a casa tua; ho dubbi sul fatto che il mio sia stato solo un gesto di generosità, il desiderio di stare accanto ad un amico in procinto di lasciare per sempre l’avventura terrena cui tutti noi siamo destinati.
Forse è stato un involontario gesto d’egoismo, non soltanto l’intima esigenza di salutarti prima dell’estremo viaggio verso l’eterno.
E di ciò ti chiedo umilmente scusa.
Mai, però, avrei voluto vederti annientato dal male incurabile che il destino (chi altro?) ti ha imposto senza alcun ritegno, sconvolgendo il tuo corpo, lasciando che le ossa prevalessero sulla carne.
Il male, almeno questo, niente ha potuto contro la tua mente vigile, ma non so se questo sia stato un vantaggio oppure un altro modo per farti sentire ancora più forte la sofferenza tua e di quanti ti vogliono bene.
Il tuo respiro, pesante e annegato nell’affanno, mi ha sconvolto; avrei voluto fare qualcosa, ma niente ho potuto.
Il tuo/nostro Dio ancora una volta non ha fatto sconti, a modo suo ha voluto indicarti la strada del dolore più irto.
Non hai mai preteso di essere un neo-Giobbe, dicevi di non averne la statura. Come darti torto!
So di certo che nella preghiera, tu cristiano impenitente- stai cercando forza e conforto, che i tuoi genitori li senti vicini in quel cielo celeste che ogni credente  agogna. Ti aspetta tua madre, Peppina Sideri, che ti  ha indicato la strada della fede ad anche quella della scrittura.
Da trent’anni  convivi con una grave  patologia che, nel tempo, ti ha indebolito e reso fragile, ma non per questo domo.
Hai lottato contro la malattia attraverso la scrittura, scrivendo articoli e saggi sui più importanti scrittori calabresi e non.
Nonostante la sofferenza, hai sempre partecipato con generosità e competenza ai numerosi convegni letterari, e di certo ha ragione Vito Teti quando scrive che “Gianni Carteri è un intellettuale raffinato, scrittore originale, uomo religioso garbato, buono e generoso. Un amico vero della migliore Calabria”.
Un abbraccio forte, tuo Enzo Stranieri
S.Agata del Bianco, 9 agosto 2015  

*Gianni Carteri, nato a Brancaleone, ha vissuto, dopo il matrimonio, a Bovalino, Ha collaborato al mensile “Studi Cattolici” e al settimanale cattolico “Il nostro tempo”. Ha scritto numerosi saggi su Cesare Pavese e Corrado Alvaro. Nel 1994 gli è stato assegnato il premio “Pavese” per la critica letteraria ed il premio “Amantea” per la saggistica.