domenica 12 agosto 2018

Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018



                       Di Vincenzo Stranieri
Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018, è una storia corale in cui l’autrice rivela un impegno creativo privo di sterili rimasticature, distante dalle norme di base del fare romanzo. Potrebbe sembrare - a una lettura superficiale- che tutto giri intorno all’io narrante e al suo naturale alter ego (Rosa Sirace) e che il resto rimanga imprigionato nell’angusto spazio- se pur utile-  della subalternità. Così non è. L’autrice, infatti, narra dal di dentro il suo mondo (interiore e fisico), ne fa parte a pieno titolo, i cosiddetti altri  sono importanti perché  riempiono la sua vita  di miti e sogni. Cosicché la  sua scrittura delinea le tappe più rilevanti dell’esistenza controversa dei numerosi protagonisti della sua fatica letteraria. Una saga familiare che  assorbe la storia antropologica di quanti chiamati ad avere il ruolo sul palcoscenico creativo dell’autrice,  e che carpisce per custodire quanto accaduto e accadrà al suo cospetto, nel tentativo riuscito di dare chiara luce alle genti che s’incrociano con la sua vicenda. Una tecnica narrativa non facile  ma ben riuscita. Tanti microcosmi sotto  un’unica regia, che agisce per conto di un impegno prima di tutto poetico (“Ma un giorno io ho dichiarato d’essere pronta a scodinzolare nel vento, pur di non perdere il cielo di vista”),  ) con l’intento precipuo di conoscere e sorreggere la memoria di comunità  in estremo affanno demografico. Il luogo dove ha deciso di vivere Rosa  è un piccolo paese del Sud, infatti.
 “In quel preciso momento sentii d’amare il Sud
perché ti lascia campare senza chiederti nulla,
come una melanzana viola
nei campi rossi di tramonto”.
L’incipit anticipa in qualche misura il viaggio narrativo della Serazzi. “Antonia Cristallo, mia nonna, dice che noi fummo sempre poveri e mai tamarri”.

E’ vero, è un Sud povero legato alle antiche norme della civiltà contadina.. In questo mondo sospeso tra tradizione e modernità ritorna Rosa Sirace, dopo avere concluso gli studi universitari a Perugia, ma il capoluogo umbro ha lasciato in lei tracce marginali perché ella sente battere nel suo cuore la città alle pendici del Vesuvio, la Napoli dove da piccola andava a trovare nonno Giuseppe Sirace.
 Una città dai forti contrasti culturali e antropologici che ha molto influito sulla sua formazione e che vengono anch’essi catapultati nel microcosmo calabro eletto a solido domicilio. Tutto è autobiografico, anche quanto non realmente vissuto fisicamente, l’importante è quello che si vive con l’animo, l’autrice narra- come anticipato-  dal di dentro una Koinè che ancora intende resistere ai tumulti sociali della  cosiddetta modernità. 
I capitoli sono introdotti da citazioni bibliche pertinenti quanto allusive.
Di certo Sonia Serazzi è un’attenta studiosa della Bibbia, che elegge a guida spirituale sia quando si rivela atto d’amore (“Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato” ), sia quanto ammonisce e condanna (“I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati”).
Ma la scrittrice, nel corso del suo narrare, lascia trasparire anche un “necessario” atteggiamento laico, lasciando che  le tessere narrative traccino i tratti psicologici  più salienti dei pochi abitanti rimasti in paese, nonché quelli dei suoi familiari più stretti, senza caricare i protagonisti di uno spirito religioso pervasivo  o caritatevole.
Capitoli medio brevi bisognosi di spazio, d’ossigeno puro. Da qui, all’occorrenza, una certa distanza   tra i diversi paragrafi, in sé racconti già definiti.
Pregni di sottile ironia e affettuoso sfottò sono i nomignoli appiccicati ad alcuni stretti familiari. Nicca Fiori, madre della protagonista, alias Baronessa di Barbamannu, Guido Sorace, il padre, alias Il Viscontino di Verolea, e poi il nome vero della nonna, Antonia Cristallo, che potrebbe ugualmente sembrare un nomignolo, donna dal carattere coriaceo, che pretende- forse a ragione- di avere un ruolo pedagogico nei confronti dell’amata nipote che incorona come Rosasua.  E poi i vicini di casa, gli amici, alcuni dei quali provvisti di nomignoli calzanti.
Ma è un mondo in decomposizione, purtroppo. La Serazzi, pertanto, ha fretta di salvare memorie, di riempire il suo onesto taccuino di fatti, vicende in grado di restituire corpo e carne ai protagonisti della sua terra, un mondo  pregno di antico sudore capace di preservare e trasmettere dignità e forza d’animo.




La  Baronessa di Babbumannu è convinta che la povertà debba tacere, altrimenti diventa una corona di pidocchi: sozzura in mostra che devi grattare lo stesso da solo
Un romanzo da leggere senza fretta, assaporandone il ritmo interno, la scrittura originale dove tutto è conoscenza e voglia di vivere.
Così ho imparato che la vita è andare per qualcuno che ci guarda”.

domenica 12 novembre 2017

VALLATA LA VERDE- I MASSACRI DEI BERSAGLIERI PIEMONTESI (1861).

                                          di Vincenzo Stranieri

Quanti cercano di capire i motivi di fondo che portarono alla cosiddetta Unità d’Italia (17 marzo 1861) è  doveroso che lo facciano con rigore e competenza  spogliandosi da pregiudizi ed analisi sommarie. Chi pensa che il Sud d’Italia sia stato annesso  con l’inganno e la violenza non deve essere etichettato come “ neo-borbonico”, viceversa quanti  chiudono gli occhi (spesso per ignoranza, cinismo  e/o per mero interesse di bottega) devono comprendere che la ricerca della verità vera non porta necessariamente ad una volontà (infantile quanto storicamente inattuabile) disgregatrice della Nazione. Indietro non si può tornare, è vero quanto opportuno, ma esigere la verità,  denunciare le carneficine perpetrate dai bersaglieri piemontesi  vuole significare – tra l’altro-  quanto sia giusto e moralmente doveroso dare  “degna sepoltura” ai tanti, troppi, morti innocenti di una processo risorgimentale  che ha  considerato le loro vite inutili quanto “politicamente” dannose. E se non fosse che stiamo parlando di cose altamente serie, verrebbe da canticchiare a mo’ di provocazione la simpatica canzone di Caterina Caselli ( Nessuno mi può giudicare,…la verità vi fa male, lo so. Tornando a noi, dal lavoro di alcuni storici non patentati ( per questo, forse, più attendibili), ho appurato, con poco sgomento, che  alcuni comuni della nostra  Vallata la Verde- in particolar modo quelli di Caraffa,  S. Agata, Casignana e Bianco-  sono stati  investiti dalla  violenza gratuita delle truppe savoiarde. Le cose andarono come segue.
Uno dei briganti che nella Locride giurò fedeltà a Francesco II (ultimo re dei Borbone a Napoli) e che all’occorrenza ebbe aiuti dai comitati legittimisti, e sostegno dai numerosi soldati e sottoufficiali borbonici sbandati, fu Ferdinando Mittica che, con la sua banda, si era sistemato nelle vicinanze di Platì.
Egli, una mattina del mese di agosto (si era nel 1861), scese dall’Aspromonte con un buon seguito di giannizzeri armati di schioppo, e si presentò in Chiesa a S. Agata, mentre l’arciprete Tedesco alzava verso il cielo l’ostia consacrata che, essendosi questo spaventato, per poco non gli cadde di mano Sul campanile della chiesa fu issato lo stendardo di Francesco II e Giuseppe Franco (figlio del  Barone  don Amato, e fedele borbonico) fu proclamato sindaco al posto di Francesco Rossi che era un savoiardo, cosicché la festa finì a tarallucci e vino senza colpo ferire e i briganti tornarono ai monti.( DIENI G.,  Dove nacque Pitagora, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1974, pp. 263-264).
Nei centri di arruolamento borbonici, aperti a Roma e in altre città degli Stati Pontifici, gli ufficiali stranieri: spagnoli, francesi, bavaresi, austriaci, piombarono a frotte. Il più noto di questi fu senza dubbio Jose Bories, il quale in vista di una prossima missione militare in Calabria fu nominato da Francesco II maresciallo di campo Bories parte da Marsiglia e punta su Malta con una ventina di compagni, ufficiali spagnoli, francesi, siciliani, napoletani, e da qui con un trabiccolo parte per la Calabria dove  il 13 settembre sbarca sulla costa ionica, nei pressi Brancaleone. Il suo intento era di raggiungere al  più presto Platì per unirsi a Mittica. Passa sotto Caraffa. Quando arrivano in contrada “Petrusa”, dalla prominenza del rione Pizzo partono contro di loro alcuni colpi di fucil, a cui essi rispondono.

Descrizione: Convento del Crocefisso
Convento dei Riformati di Crocefisso, fondato nell’anno 1622.
(Francesco Misitano, 1964).

Al Convento del Crocefisso di Bianco, qualche chilometro più avanti, gli spagnoli (così furono chiamati dagli abitanti della zona i membri di quel corpo di spedizione) sono accolti e rifocillati dai monaci. Quel convento era storico. Il principe Carafa in persona, affacciandosi alla finestra, si ben ignava ogni anno di ordinare “il cominciamento della Fera” e ivi viveva e pregava Padre Bonaventura da Casignana (al secolo Giuseppe Nicita, Casignana, 1880-1860), “religioso di santa vita”, e confessore della Beata Regina Maria Cristina di Spagna la quale, tra l’altro, gli aveva anche scritto: “ alle 2  il dopo pranzo, Dio mi concesse un parto felicissimo dando alla luce una bambina”. Sempre in detto convento, vent’anni prima, il viaggiatore inglese Edward Lear si era dissetato in un pomeriggio caldo d’agosto. “Un pozzo d’acqua pura”, scrisse, “ e un secchio di ferro incatenato che ricorderò per tutta la vita. INCORPORA G., Lupa di mare, Age, Ardore  Marina, 1997, p.36).
“ Da qui il drappello si avvia verso Platì. “Bories  e  i suoi  compagni saranno poi, l’8 dicembre 1861, intercettati a Tagliacozzo dalle truppe italiane (carabinieri, guardia nazionale, bersaglieri) e fucilati alle 4 del pomeriggio dello  stesso giorno. Per S.Agata  e Caraffa incomincia ora la tragedia: il generale savoiardo De Gori  sbarca il 20  di settembre con forze ragguardevoli a Bianco per una spedizione punitiva e  affida la missione al maggiore Rossi, cugino del Sindaco spodestato di S.Agata. “Si cercano tutti i coloni che furono creduti manutengoli dei briganti o ligi alla cospirazione”. A S.Agata  il 25 settembre 1861 cadono sotto il piombo dei bersaglieri presso le Pietre di S. Rocco, site davanti al palazzo baronale: Don Giuseppe Franco, di anni 33, figlio del barone e della nobildonna Marianna Scoppa;  Francesco Carneli , di anni 22, bracciante; Francesco Priolo, di anni 50, domestico dei Franco, nato a Reggio; Giuseppe Spanò, di anni 39, mulattiere; Vincenzo Zangari, di anni 36, campagnolo. Altri mezzadri e coloni dei Franco furono fustigati con un nerbo bagnato allo stesso posto vicino ai caduti con l’imposizione di gridare ad ogni nerbata: Viva Vittorio Emanuele! Via l’Italia! Abbasso i Borboni! Morte a Mittica”. ( MISITANO F.SCO., Il sacerdote Vincenzo Tedesco, in “Calabria Sconosciuta”, n. 77, pp.79).
A tal proposito “Francesco Sicari, fittavolo dei Franco, dopo le nerbate ricevute, avviandosi verso casa “zoppicando e contorcendosi, si lamentava: “O gnura Mariantonia lapriti a porta e lavatimi prestu cu sali ed acitu, ca sugnu tuttu na caja. Viva Vittoriu e Manueli! Viva u generali Di Gori!, Morti a Mittica! Morìu compari Vicenzu e Peppi Spanò, attri ammazzanu! Tutti ndi mmazzanu…Viva Vittoriu, Viva Di Gori.( DIENI G., op.cit.. 267).
De Gori era il generale che aveva ordinato il massacro e le fustigazioni!. Giovanni Franco, fratello di Giuseppe, si salvò perché, cucito dentro un materasso ch’era indirizzato ad un cardinale, fu spedito a Roma a bordo della nave “Pagliata”, ormeggiata in prossimità di Bianco. L’abate don Antonio Franco, un sacerdote della famiglia baronale di S. Agata, fu catturato a Bianco e fucilato nei pressi del Convento del Crocefisso. Questi fu incendiato. I monaci però avevano già abbandonato il convento e s’erano rifugiati: padre Bernardino a Casignana, padre Giacomo ed il ventinovenne padre Francesco Battaglia a Caraffa. Un quarto monaco (forse il superiore del convento) fu raggiunto dai bersaglieri in contrada “Gnura Elena” del Comune di Caraffa ed abbattuto a colpi di fucile. Padre Francesco Battaglia fu poi arrestato nel suo nascondiglio di Caraffa, dove viveva la sua famiglia, e liquidato lo stesso 25 settembre dietro l’abside della chiesa parrocchiale. Nello stesso giorno fu fucilato nei pressi della chiesetta della “Madonna delle Grazie” Antonio Zappia, di anni 36, nativo di S. Agata, figlio di Vincenzo e di Elisabetta Mesiti e marito di Agata Sicari. Era stato prelevato nel suo fondo in contrada “Cannavia” del comune di S. Agata. La voce popolare narra di un altro fucilato dietro l’abside della chiesa parrocchiale di Caraffa. Si tratterebbe di un tale, professione tintore, forse un parente di padre Francesco Battaglia, che anche apparteneva ad una famiglia di tintori. Purtroppo di questa esecuzione non si trova traccia né nei registri dello stato civile  né in quelli della parrocchia di Caraffa. Giovanni Battaglia, fratello di Francesco, per sfuggire alla cattura, in quanto anche lui ricercato, si dovette nascondere per lungo tempo in una stalla di maiali (hurnegliu di porci). Quando gli spagnoli di Josè Bories passarono, si trovava con loro un giovane caraffese, denominato “Carzi Randi” (Pantaloni Grandi), che li aiutava trasportando per loro una cassetta. Un altro giovane di Caraffa, di nome Giovanni Alafaci, si avvicinò al compaesano per dirgli di cedergli la cassetta, per un cambio nel trasporto, che lui alla prima svolta se la sarebbe svignata col carico, del quale poi gli avrebbe dato la metà. “Carzi Randi” però non cedette alle lusinghe e Giovanni Alafaci, dopo qualche centinaio di metri , si staccò dal gruppo. Il 25 settembre, giorno del massacro dei filoborbonici da parte dei piemontesi, Giovanni Alafaci fu accusato, per quei pochi passi fatti con gli spagnoli, di  collaborazionismo insieme a “Carzi Randi” ed iscritto nella lista degli  eliminandi per fucilazione. Entrambi dovettero cercarsi un nascondiglio ed ivi starsene bene accovacciati fino a quando, qualche mese più tardi, le esecuzioni capitali furono sospese”. ( MISITANO F.SCO, op.cit., pp.79-80).
Ma il ritorno dei Borboni era un sogno effimero, impossibile da realizzare, troppo le cose mutate, troppo forti ed organizzate le truppe sabaude.
Dalle montagne di Gerace il 19 settembre (1861) venne spedito un dispaccio a cura del deputato Agostino Plutino, comandante mobile di Reggio, col quale si comunicava l’avvenuto sbaragliamento  della comitiva Mittica e degli spagnoli, inseguita verso il territorio di Monteleone dal De Gori e dallo stesso Plutino. Il Mittica veniva braccato come una belva sanguinaria. Questi, contro una mobilitazione così grossa, aveva poche speranze di uscire vivo. Al brigante fu teso un agguato sulle montagne di Platì dal capitano delle milizie di quel Comune, Ferrari, assieme a sette guardie nazionali. Mittica morì alla prima scarica con il compagno Loseri. Decapitate, le teste furono portate sulle baionette a Gerace dove il Generale De Gori, che lì aveva il quartier generale, ordinò il seppellimento. Il Mittica venne tradito dai suoi stessi paesani dietro compenso.
 (CATALDO V, Cospirazioni, Economia e Società nel Distretto di Gerace in provincia di Calabria Ultra Prima dal 1847 all’Unità d’Italia, AGE, Ardore Marina 2000 , p. 499.
Anche Borjes e compagni rimasero vittime dell’illusione che avevano loro inculcato Ruffo e Clary, e saranno fucilati con la stessa ferocia riservata al Mittica ed ai suoi pochi fedeli.
In ogni caso, la reazione dell’esercito Regio, rappresentato nel nostro Distretto dal Generale De Gori, fu esagerata e priva d’ogni umana pietà, sentimento, quest’ultimo, che dovrebbe appartenere al cuore degli uomini in ogni tempo e situazione. La povera gente aveva accolto il brigante Mittica per paura e ignoranza, non certo perché approvasse le sue idee, c’era poco da approvare e da capire in quel frangente storico.  I piemontesi hanno commesso eccidi con efferata rabbia e con l’esagerata certezza di essere nel giusto; hanno ucciso a sangue freddo gente inerme nei pressi della casa di Dio; hanno inseguito e trucidato persone che non avevano avuto alcun ruolo decisivo nella scelta borbonica di riappropriarsi del Regno. E dunque l’impronta lasciata nella terra di Calabria era stata quella del sangue e del terrore, dell’istituzione forte che badava non ai morti innocenti ma alla cosiddetta ragion di Stato ( sic!).





Presentazione romanzo di Mario Strati Impallidisco le stelle e faccio giorno, Milano Bompiani 2017.

3 Agosto 2017
Sala consiliare di S.Agata del Bianco, ore 18,30
                                         di Vincenzo Stranieri

Una buona serata a tutti voi, grazie di avere  deciso di partecipare così numerosi  a questo nostro evento culturale che ha come tema la presentazione del romanzo “Impallidisco le stelle e faccio giorno” dello scrittore Mario Strati, edito quest’anno a Milano dalla casa editrice Bompiani.
Cercherò di essere breve - ma devo ammettere per onestà intellettuale- che  il romanzo di Mario Strati - stante la sua particolare tematica (malavita organizzata nella Locride (ndrina/ndrangheta), società civile (particolarmente annichilita), forze dell’ordine e magistratura in rappresentanza dello Stato, non sempre in grado di prevenire e quindi affrontare il mondo criminale, soprattutto per quanto attiene i mezzi e le strategie utilizzate, non può e non deve trasformarsi in una sorta di resoconto insufficiente quanto sbrigativo.
E’ mia scelta non riassumere in modo pedissequo  i testi letterari proposti all’interesse del pubblico, bastano – a mio parere- accenni essenziali, e questo- soprattutto- per  non togliere al lettore il gusto della scoperta individuale.
Già negli anni ’80 il romanzo è pronto per la pubblicazione, l’autore, pertanto, comincia a bussare- come si suole dire- alle porte di diverse case editrici, alcune di livello nazionale.
 Ma le risposte insistono nel ribadire che le collane  sono ormai debordanti di testi,  oppure che l’argomento  del romanzo non è  consono alla realtà culturale del momento, etc. 
Questo, però, non significa una sconfitta legata al valore dell’opera.
Vi sono infatti  intellettuali e  scrittori di rilievo che scrivono (in privato, naturalmente)  all’autore di “Impallidisco le stelle faccio giorno”.
Ne leggiamo assieme alcuni  brevi stralci.
 “Lo stile ha una notevole fermezza  intellettuale che si accompagna all’intensità emotiva dell’autore”.   Mario La Cava, Bovalino 19 maggio 1978.
Si rileva il polso di un autentico scrittore”  . Antonio Porta, Milano, 9 agosto 1987.
Che peccato se il romanzo non dovesse trovare subito un editore. Si tratta , nel complesso, di un buon libro e di un libro utile”.  Walter Pedullà, Roma, 27 Ottobre 1989.
…” Al di là di questi problemi  editoriali, la prego di credere al mio vivo apprezzamento per il suo lavoro. Nanni Balestrini, Milano 2 aprile 1990.
 “Personaggi e storie della Calabria (tesa tra tradizione ndranghetista e rinnovamento) si intersecano e si accavallano, ma senza imbrogliarsi.  Luca Desiato, Roma. 25 settembre 1994.
E’ forse uno dei pochi romanzi pubblicato da tre diversi editori.
Mancoso 1991,  col titolo voluto dall’editore, Scilla e Cariddi,  e poi Rubbettino 2006, Bompiani 2017, entrambi col titolo originario Impallidisco le stelle faccio giorno,  appunto.
Le nuove edizioni hanno avuto i loro ritocchi, in particolare quest’ultima di Bompiani,  che  è corredata da un glossario e da una tabella relativa all’Organizzazione della ndrangheta.
Un fenomeno sociale forse unico al mondo, e per questo più difficile da combattere.
Troppe le radici e le ramificazioni economiche e sociali  tessute soprattutto negli ultimi decenni.
Confesso che la lettura di questo romanzo - ieri come oggi-  ha suscitato nel mio animo sentimenti contrastanti.
 Da una parte la novità tematica, sorretta da un linguaggio nuovo ed essenziale, teso a far parlare i protagonisti, dando loro piena libertà d’azione, proiettandoli come su di uno schermo cinematografico, dove li ho visti agire, muoversi, materializzarsi nelle loro forme  funeste, dall’altra una società civile annichilita, incapace di opporsi alla violenza dei promotori di tanta   cultura criminale  che  ha disegnato un quadro di  infinito dolore.
Dall’altra parte le forze dell’ordine, l’esercito in particolare, incapaci di districarsi sui contrafforti di un Aspromonte capace di inghiottire nel suo vasto ventre  tutto e tutti
In qualche occasione ho provato anche paura e questo perché per  dirla col Aldo
Maria Morace  - Presidente della fondazione Corrado Alvaro e docente universitario  presso l’Università Statale di  Sassari..
“E’ nato un monstrum, nel senso etimologica del termine: come tutti i libri  forti, il romanzo di Mario Strati suscita reazioni violente, di ripulsa o di  entusiastica adesione; ma di  fronte al quale non si può rimanere in una posizione di stallo o, peggio, d’indifferenza”.
A metà lettura, mi è sovvenuto alla mente quanto detto da Corrado Alvaro a Mario La Cava a proposito della prima stesura del racconto lungo intitolato “Il matrimonio di Caterina” (siamo negli anni ’30), tradotto in film RAI nel  1983  dal grande regista Luigi Comencini.
Cito a memoria.
“ Io- cioè Corrado Alvaro- i personaggi del Vs racconto (Il matrimonio di Caterina di Mario La Cava) li vedo, e non se per bravura sua o perché li conosco”.
L’osservazione di Alvaro, competente quanto obiettiva, stigmatizza la capacità di La Cava di rendere personaggi ed azioni in movimento, ovvero in una posizione non statica, ma in grado di  rappresentare vicende pregne di dinamicità e concretezza narrativa.
Anche Mario Strati è bravo a rendere visibili, e quindi veri, i personaggi del suo romanzo, e sono molti i lettori- specie quelli che vivono nella Locride-  in grado più di altri di dare un nome alle sagome che si muovono sul  palcoscenico narrativo dell’autore.
Difatti, il male ha colpito più volte, è rintracciabile per strada, si muove con padronanza, con estrema baldanza, anzi
Detto ciò, eccovi- molto brevemente- il corpus  principale del romanzo di Mario Strati.
Al vertice della ndrangheta- riconosciuto nella Locride  come il capo indiscusso dell’ organizzazione malavitosa operante negli anni ’70-  vi è don Nino Radicato.
Egli incarna ancora i valori cui tradizionalmente è ancorata la vecchia ndrina, tuttavia, siccome non tutto dura- egli deve accettare.  al fine di non rafforzare comando e carisma, i pesanti colpi di coda del “nuovo” che avanza,  come diremmo oggi.
Cosicchè ha ragione il compianto Prof. Giuseppe Falcone quando, recensendo la prima edizione del romanzo  intitolato Scilla e Cariddi,  scrive: “Il veccho” ancora ben saldo non sopravvive al “nuovo” ma col “nuovo” convive…”.
Da qui l’errore storico- se così possiamo dire- di Don Nino Rodicato,  che accetta la proposta di Don Rosario ScordamaglIa - pezzo da ‘90  - ben piazzato  a Roma- di prendere in carico alla ndrangheta  un noto imprenditore della capitale da poco sequestrato e che avrebbe potuto – trasferito/custodito  in Apromonte, rappresentare un notevole fonte di guadagno (cifre a nove zeri).
Don Nino è costretto - per sopravvivere alla crescita esponenziale del “nuovo”- ad accettare un’operazione desueta, ben lontana dalle antiche regole dell’organizzazione.
 Ma il “vecchio”- come già detto”- convive con il “nuovo”, ne accetta supinamente le scelte, rimane inerte di fronte all’insuccesso dell’operazione criminale, che fallisce per l’intervento delle forze dell’ordine.
 In carcere finiscono Gianni e Rocco, i due giovani sorveglianti del sequestrato che -  questo va condannato con forza- vengono torturati dai carabinieri senza alcun umano riguardo.
 Ci si indigna per il delitto perpetrato ai danni del sequestrato, ma ci deve indignare anche di fronte alle torture perpetrate con calma scientifica nei riguardi dei due giovani ndranghetisti, che, però, reggono alle torture loro inflitte  non rivelando i nomi dei loro complici.
Rocco e Gianni –ad esempio-sono rapiti dalle mod, accerchiati da funesti miraggi.
E per questo uccidono un innocente barista.
Ecco come avanza il  “nuovo” \ (sic!).
Il futuro ndranghetista  impara da sin piccolo il linguaggio d’appartenenza.
Sono lezioni  giornaliere  impartite con meticolosità sia dalla famiglia d’appartenenza sia dall’ambiente vicino  ad essa.
E non gli vengono risparmiati fatti e misfatti,  ingiurie ai fetenti che tradiscono la famiglia. Tutto in un recinto educativo che ha lo scopo di forgiare la mente ed il corpo del  fuori norma di turno.
Tale lessico, fatto di metafore ben tornite vedono protagonista la ndrangheta, custodisce e trasmette un vocabolario semplice ma  efficace, dove i gesti, la mimica si accompagnano al parlato, indicandone soluzioni non sempre decodificabili  da chi non ne conosce l’interna natura.
Oltretutto il lettore di certo si domanderà come ha fatto l’autore a conoscere questi reconditi aspetti della ndrangheta, perché mai riesce parlarne così compiutamente.
 Difatti- tranne alcune necessarie ricostruzioni verosimili- tutto appare profondamente reale.
Il mondo narrato esiste davvero, i protagonisti agiscono secondo schemi non inventati dall’autore ma profondamente insiti nell’ambiente ove hanno luogo le tristi vicende.
Lo scrittore ha avuto le sue fonti,  ha bene appurato l’antropologia del mondo criminale in questione.
Forse è stato quest’ultimo a volere rivelarsi allo scrittore, quasi ad invitarlo a trasformare la semplice cronaca nera in una vicenda meno oscura, rivelatrice dei motivi che stanno alla base di tante tragiche scelte.
Mario Strati, pertanto, è divenuto una  sorta  di inviato di guerra  –perché di guerra si tratta-  ha visitato le trincee,  i soldati,  ha conosciuto i veri protagonisti di uno scontro senza né vinti né vincitor, però.
A vincere - ghignante e pregna di goduria- è solo la falce ghignante, che miete uomini e cose, spegnendo  per  sempre  sogni e progetti di vita.


venerdì 3 novembre 2017

Face Book non puo' ( non deve) sostituirsi alla vita vera)




Si rende necessario rientrare nei ranghi. Ha ragione Giulia Galletta, FB non può sostituirsi alla vita reale, fatte di regole alquanto diverse da quelle del web, dove le emozioni possono trovare maggiore spazio e consenso. I profanatori del tempio (i ladri che hanno  derubato la Santa Patrona della nostra piccola comunità) oltre ad avere compiuto un gesto sacrilego stanno creando malumori e malintesi all’interno del Gruppo. Ciò può solo produrre fratture e sterili mugugni. Di certo, chi di dovere sta lavorando al caso, e sarebbe  utile stare in attesa degli esiti conseguenti. Finora il Gruppo ha lavorato bene, ognuno ha dato quello che ha potuto, e senza alcuna voglia di protagonismo. Lo ha fatto per amore del proprio paese, della sua storia, del mondo contadino che ha consentito a tutti noi di andare a scuola, di professare un mestiere decoroso. Il solo “mi piace” non equivale ad essere omertosi, semmai il contrario. Quando qualcuno del Gruppo sintetizza bene le vicende, le argomenta in modo  esauriente, allora risulta inutile  quanto retorico ripetere  concetti conchiusi. In certi momenti della vita, bisogna frenare gli impeti, comprendere che si è scelto di far parte di una grande comunità (FB) e che ognuno può equivocare  anche una semplice parola, e con ciò accrescere la suscettibilità di quanti si sentono tirati in ballo. Facciamo tutti un bagno di umiltà e continuiamo a dare voce e sostanza al nostro Gruppo in modo unitario.  Non ci sono colti e meno colti, ognuno è importante.
Forse ha ragione Umberto Eco quando scrive:

                      Chiesta Matrice "S.Maria degli Angeli " di Caraffa del Bianco (RC)

 Ciascuno di noi ogni tanto è cretino,
imbecille, stupido o matto.
Diciamo che la persona normale
è quella che mescola in misura ragionevole
tutte queste componenti, questi tipi ideali.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, 1988


venerdì 10 febbraio 2017

Morire è semplice. Il suicidio del giovane precario.

09 febbraio 2017
Morire è molto semplice, difficile- spesso impossibile- è vivere nell’alveo di una società (tutti noi) poco premiante, sorda alle richieste d’aiuto dei giovani. E sì che hanno strasudato, i giovani, per diventare uomini pronti ad occupare un giusto ruolo nel mondo del lavoro, disposti a esprimere una professionalità  fresca e degna di essere messa alla prova. Mi ha molto colpito la lettera di Michele ( 30 anni, suicidatosi l’altro giorno, pubblicata sul “Il Giornale”), che ha deciso di lasciare il mondo terreno perché nessuno l’ha aiutato a trovare un lavoro, a sfuggire ai giorni privi di prospettiva, a dipendere in tutto dai suoi genitori, persone splendide distrutte dal dolore . Michele aveva  tanta voglia di vivere, ma le delusioni, tante e ingiustificate, hanno lacerato il suo giovane cuore, demolendo la fiducia in se stesso e negli altri

I genitori hanno chiesto che la lettera del figlio fosse pubblicata integralmente dal Messaggero Veneto . «Perché questo è un allarme rosso, un grave fenomeno sociale, che lui ha voluto denunciare».

PRECARIETA'
La lettera di Michele pubblicata da “il Giornale”

Ho vissuto (male) per trent'anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.
Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un'arte.

Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l'altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

PRECARIATO
Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.

Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest'ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po' non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

NO AL PRECARIATO JPEG
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c'entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

PRECARI RAGAZZI CON LA MASCHERA JPEG
Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c'è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un'epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l'alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l'ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c'è davvero bisogno.

Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po'. Basta con le ipocrisie.
GIULIANO POLETTI
Non mi faccio ricattare dal fatto che è l'unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all'individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.
Dentro di me non c'era caos. Dentro di me c'era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un'accusa di alto tradimento.
30ENNE SUICIDIO LETTERA
P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché ho potuto.






sabato 10 settembre 2016


PROLOGO


I poeti non hanno bisogno di viaggiare, conoscono spazi infiniti, volgono il loro sguardo su distese dove non giunge nemmeno l’occhio insolente dei nuovi sistemi satellitari, perché la visione d’insieme  di  un poeta, il suo radar intellettuale è in grado di opporsi  a chi crede - e sono in molti, purtroppo - di  poter trasformare l’esistenza vera in realtà virtuale, costruita sulla totale finzione. 
Certo - per dirla con Pessoa-  anche i poeti sono dei fingitori, non perché falsi o ipocriti, ma perché necessariamente avversi alla cosiddetta realtà. Un poeta vero, infatti,  non può che opporsi allo status quo. 
La Poesia dà valore alla vita, la scandaglia a suo modo, rappresentando una delle cime più alte del pensiero umano. Un poeta non vive in un preciso luogo spirituale: scruta, s’immerge negli abissi marini alla ricerca di luce, riemerge per dare conto delle sue visioni, del suo sguardo sul mondo. 
E tuttavia - ciò non è una contraddizione - ha bisogno di ancorarsi fisicamente a un luogo fisico, trasformarlo in finestra sul mondo. Il luogo può essere quello natio dove egli sarà testimone di mutamenti radicali e dal quale - a un prezzo altissimo -, potrà intraprendere la sua azione intellettuale, oppure porsi su altri lidi alla ricerca di un’altra dimensione, considerata-  a torto o a ragione, cosmopolita. 



VINCENZO   STRANIERI








PENSAVAMO
FOSSE ARRIVATO
IL NOSTRO TEMPO




(Pensavamo fosse arrivato il nostro tempo,
la nostra fetta di vita.

Ma siamo ritornati nei nostri buchi,
profondi, neri come la morte).



                                                ( testo poetico)





                                        


                                              L’AVAMPOSTO   (1986)






Mi accade di entrare in una stanza dove c’è
gente che scherza, ride e d’istinto assumo il
ruolo dell’istrione.
Finita la festa, me ne vado pensando che
dietro il pagliaccio  davvero s’annida
l’ombra del dramma.
                            (Vincenzo Stranieri)



Ai miei genitori

1
Per viver abbiamo rubato il nettare
alle api, cospargendo di acre dolcezza
le nostre menti stanche.

Pensavamo fosse arrivato il nostro tempo,
la nostra fetta di vita.

Ma siamo ritornati nei nostri buchi,
profondi, neri come la morte.

Per scaldare i nostri cuori traditi
abbiamo rubato il magma ai vulcani.

Ma il freddo ha macchiato di sangue
le nostre dita indurite.

2
Se uscito dal tuo guscio senza lo scudo
e le frecce avvelenate.

Il sole brucia la tua pelle di latte.

Non mentire: sei nato per parlare a gran voce,
lontano da ipocrisie malcelate.

I granelli di sabbia lacerano il tuo corpo indifeso,
come schegge di mortaio.

Torna nel tuo labirinto, non sei nato
per creare complotti, commedie con attori
scaduti.

         ( è guerra, ormai).


3

Tra le mura del villaggio,
gli occhi cercano una scena inventata,
una mano da stringere forte

       ( i brividi i una carezza)

Non sei solo.

Ma sembra di vivere l tempo
delle streghe maligne
con gli uomini divenuti ranocchi

    (padroni di un misero stagno).


4

Non aspetto più il giorno,
forse neanche il sole
sorgerà tra le colline.

Quando avete squarciato i ventri
delle vostre madri, non pensavo
a una fuga senza ritorno.

Dieci, centro, mille ventri squarciati.

Sono rimasto solo, con in mano
un coltello luccicante.


5

Ti pensavo incline alla beffa,
con in mano un pugnale di carta.

Sospettavo semplici risate,
l’onesta burla di un clown.

Finito il tempo dei coriandoli
hai rimesso maschere e vestiti
tra i tuoi giochi di sempre.

E ti sei travestito da uomo.

6

Siamo cavalli dal galoppo sfrenato,
gli zoccoli spaccati dai sassi.

Il fiume rallenta la fuga, inumidisce
le piaghe.

Il galoppo diviene folle, il sudore
incrosta le groppe, e il pianto traccia
una strada in salita.

Ma resta solo il nitrito nell’aria,
i cappi attorno al collo, come al tempo
del Far West.



7

Ho lasciato che i tronchi scendessero
a valle.

Il mio cavallo alato è caduto nel fango.

Ma la zattera naviga sul fiume,
nel grido lacerante degli uccelli.



8

I pugni sono sul petto e le bestemmie
nel cuore, vecchio blasfemo tradito
dal fato.

Non urlare al vento i tuoi sogni trafitti,
la terra non ha bisogno del tuo pianto
di ghiaccio.

Sono terminati gli attimi della rivolta,
quando i visi illuminavano la notte.


9

I guerrieri hanno perso le lance.

L’albero è rimasto senza foglie
e solo il pianto dei tronchi denuda
le rocce.

Gli eroi hanno spesso di gridare,
il bosco è covo di fantasmi, ora.

All’alba, gli uomini si alzano eroi,
i petti sono gonfi, ma la sera in agguato
e solo allora compare l’amarezza.


10

Non sono venuto a trovarti
con le manette nascoste.

(Le prigioni non hanno senso per chi
ha avuto come casa stanze sbarrate,
portoni di ferro, mense maleodoranti).

E se ti puzzeranno i piedi non chiedermi
perché manca l’acqua.

E se avrai fame non chiedermi cibo.

Le crepe dei muri, feritoie profonde
che nascondono la verità
  
                 (terrificante).

E i lutti, i corpi senza nome, la terra arsa.

Non chiedermi nulla.


11

Tra misteri  scavati nella notte,
la polvere delle arene fugge lontano,
insegna da uomini in ginocchio.

                 (sconfitti).

Tra le pieghe di armonie cancellate
si nascondono sordide imprese

          (e la disperazione).

E’ salita sulle spalle del tempo,
la infedeltà alla vita.



12

Le barche navigano stanche,
i pesci si rifugiano negli anfratti
delle scogliere amiche.

Le reti trascinano solo se stesse,
come uomini soli, claun senza applausi,
disperati profughi.

A che serve cantare i silenzi della notte?

All’orizzonte si intravedono i bagliori
del giorno, della sua luce accecante

                     (senza vita).



13

Non puoi mentire a te stesso

                (e agli altri).

L’attesa degli eventi lascia tracce
nell’anima.

Ti ritrovi in delirio, con viso riflesso
in uno specchio di niente.




14

La dita sui tasti.

Cosa scriviamo in questo tempo di quiete?

Una storia nuova?

Una favola nuova?

La tentazione di battere con violenza,
coraggio.

La consapevolezza del vuoto.

Cosa scriviamo in questo tempo
di quiete?




15
Non pensarmi a capo in giù nel mezzo
di un campo di grano.

Non farlo.

Quel che mi resta non penzolerà per la gioia
di chi ci vuole a capo chino,
inginocchiati fino allo spasimo

                                    (derisi).

I miei piedi non guarderanno
il cielo stellato, batteranno forte,
con rabbia sulla terra indurita.

Avrò ancora la forza di stringere le tue mani
e cancellare dal viso le mie pene.  



SOLO IL VENTO
1

Hai voglia di correre, gridare,
amare qualcuno, qualcosa.

Hai voglia di creare un momento,
un attimo di vita migliore.

Anche i bimbi vorrebbero,
anche i vecchi vorrebbero,
tutti vorrebbero,

    ( ma nessuno si muove).

Solo il vento ha la forza
di muovere le cose
strapparle dal loro
eterno  torpore.

Tu non sei il vento, la pioggia
che dà vita alle cose, e nemmeno
Il fuoco che distrugge ciò che
la vita la costruito.

Tu sei.


2
E’ una posizione bassa, la mia
       (un’immensa pianura di sassi).

Mi guardano ansiosi gli occhi del paese
                                 (e le ingiurie).

Se venisse il sonno!

Lo abbraccerei come il corpo
della mia donna.

Io cercavo l’amore.

Ma solo acredine intravedo all’orizzonte.




3

Il respiro solleva nell’aria
la polvere di antiche nostalgie.

Scruti il tuo corpo alla ricerca
del sogno.

Sei stanco.

Questa notte non basterà
a mandare vie le lacrime.


4
Tra le colline le case sono forti e robuste.

Sulla terra solo il pianto dei vecchi
parla il linguaggio dei poveri.

Non lasciarmi nel bosco come rovo antico
che teme il freddo della notte

        (con dentro l’ansia dei giorni perduti).

5

Cerco di entrare nella tua carcassa,
vecchio.

E’ buio e stretto il labirinto
delle tue vie interne.

Non è distante la tua saggezza,
i colori delle albe incrociate di grano,
quando i visi cercavano lo sguardo
della terra.

Userò la forza.


6

Hai marciato su  la schiena dura
delle colline, scavano un buco di sangue
sul petto bruno.

Tra le rovine hai cercato un brandello
di vita
           
(l’intenso brivido del tuo corpo di carta).

E le tue trecce, offerte da un gitano
al prezzo di trenta denari.

7
La citta ti accoglie nel suo ventre
                    (sei tornato anzitempo).

Lontano dalle unghiate velenose dei
giorni intrisi di pianto

                      (e di bestemmie).

Il tuo occhio sul mondo, la sua carne.

Anche senza la luce del cielo saprai
scherzare con gli occhi della luna.



8

I capelli neri sfiorano i gins, con il vento
che si diverte a disperderli sui fianchi

Solo ora il burrone appare mostruoso
                             
                             ( al di là dei campi di grano).

E la corsa d’amore si spegne senza un grido,
con il vento che si diverte a stuzzicare i
capelli neri, a coprire gli occhi dilatati d’amore
                               
                             ( e di tristezza).      

9

Sono ritornati i fantasmi di un tempo

 ( e la loro perfida danza).

Non avverto più le carezze dei giorni
privi d’angoscia, quando camminavo
per i marciapiedi della città.

Non è tempo di magiche risurrezioni

          (le croci sono perite tra le fiamme).

Offro le spalle al vento.



10


Non è solitudine, questa.

E’ il silenzio dell’inesistente

                     (l’odore, anche).

Gli uccelli rimasti turbano la quiete

                   ( arida, eterna).

Un ritorno alle origini

       (un lampo abbagliante).

Non è solitudine, questa.




11

Su un cerchio di cemento lasciammo
svanire di nostri gesti d’amore.

La voce, l’urlo anzi, di un compagno maldestro
lacerò i nostri corpi accaldati

        ( una morsa di carne viva).

E la stretta d’amore svanì senza parole,
lasciandosi alle spalle un inquietante
mistero.

Con gli anni, la vita ha riproposto
i suoi veti e noi, impotenti, ci parliamo
con gli occhi.


PAESAGGIO LUNARE

1
Le impronte dei mie passi hanno
Costruito un paesaggio lunare.

Io non amo la luna, i cuoi crateri
di cenere, le sue forme cangianti.

(la tentazione di voltarmi indietro,
 la paura di andare avanti, cadere nel vuoto).

Non voglio pensare. Ho terrore.

        ( Non sarà come a Pompei).

2
Il tetto, i muri graffiati dal tempo,
il silenzio del paese.

Il tetto della fanciullezza cigola
sotto il peso del mio corpo adulto.

La ‘Comune’, il ‘Che’ mi guardano
incuriositi.

La mia barba non confonde
i loro occhi: sanno chi sono.


3

Io non ho attivato alcun congegno
esplosivo.

Non potevo.

La mia vita non ha conosciuto
l’orgasmo della follia.

Sulle strade del mondo i ‘Pilato’
offrono l’ecce homo alla folla.

Molti, troppi, soni corpi disfatti.

4

Un volo, dolce, solitario.

Poi l’atterraggio in un mondo deforme,
sconosciuto: la terra.

I covoni bruciano in fretta e le fiamme
lambiscono le notte come la scure
il legno del bosco.

I granelli di sabbia tremano, anche il mare
trema, ha paura degli uomini,

           (pirati dei fondali più bui).

Anche gli stormi hanno cessato di volare.

 5

Gli occhi stanchi, pietrificati,

Un sorriso folle, quasi.

Non era bello guardare il fiume
insanguinato.

I cani annusano l’acqua

                ( senza sazio).

Auschwtiz…Beirut.       


6

Corriamo assieme al tempo, ora

     (il ritmo, inquietante, dei suoi battiti).

I latrati sono dietro le nostre spalle.

Per questo cerchiamo uno spazio
dove lasciare i nostri sogni.


7

Danzano impazzite le parole,
fluendo per le vie come passi
di uomini in corsa.

Lasciano sui muri scie d’inchiostro
maledetto.

E una cinica carezza sulle mie
mani dipinte d’angoscia.