giovedì 17 dicembre 2020

IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI

 IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI

Terza intervista di Leopoldo Ardino a Enzo Stranieri*
Buongiorno Prof., siamo giunti alla nostra terza intervista. So che lei conosce profondamente l’opera di Saverio Strati. Pertanto, sono curioso di sentirmi dire delle cose nuove, non le solite rimasticature rintracciabili in una qualsiasi antologia scolastica e non.. Cominciamo.
D:; J. Conrad scrive nel 1897 al suo amico Robert Bontin Cunninghame Graham: «Si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore».
R.: Come lettore di Saverio Strati, lo sono a partire dagli anni’70, devo confessarvi che in più d’una occasione interrompevo la lettura dei suoi libri per cercare di capire i motivi di fondo che stavano dietro la sua scrittura, in particolare riflettevo sulla sua complessa formazione letteraria. Ho sempre immaginato l’ambiente creativo di un artista come un laboratorio denso di alambicchi utilizzati per distillare -diciamo così- i nobili processi di quanti impegnati nella creazione delle diverse forme d’arte.
D. ; Ma quale laboratorio immaginare per Saverio Strati? Quali e quanti sono stati gli alambicchi del suo studio creativo?
R.; Va da sé che per scrivere bisogna possedere i rudimenti della propria lingua. Nel caso di Strati era vitale saper pensare e scrivere in lingua italiana. Sembrerebbe un’ impresa ardua, stante ch’era stato obbligato dalla famiglia a lasciare gli studi dopo il conseguimento della quinta elementare. Difatti, fino ai 21 anni conosce solo il dialetto, non sa, non può pensare in italiano. Pertanto, non è difficile immaginarlo sfiduciato di fronte alla pagina bianca, ancora immerso negli studi allo scopo di recuperare quello che per decenni gli era stato tolto in termini di conoscenza. La sua frustrazione è grande, perché nel suo animo, seppure a livello embrionale, sta crescendo lo scrittore che narrerà con maestria e coraggio le gesta del popolo meridionale.
D.; Fa una certa impressione la capacità di Strati di contenere nella mente una nutrita galassia di personaggi utili alla sua letteratura verista.
R.; E’ vero, la sua mente diviene un importante quaderno di appunti, nel quale annota, memorizza i tratti salienti della sua esperienza di operaio che, poi, utilizzerà come materia fondante della sua narrativa. . “.. Per venticinque anni – scrive STRATI- non mi sono mai mosso dalla Calabria e fino a ventuno ho lavorato. Ho parlato il dialetto, sono stato SEMIANALFABETA come tutti perché allora si doveva badare soltanto a imparare il proprio mestiere: sono stato interamente coinvolto nel mondo ho vissuto in mezzo a operai, muratori , artigiani ne ho assorbito la cultura e la LINGUA…”
D.; Ma cosa ha significato parlare fino ai 21 anni la sola lingua dialettale?
R.; Di certo un grosso limite, perché qualsiasi lingua s’impara presto e meglio da piccoli. Ma al nostro futuro scrittore non è stato consentito questo privilegio. Tuttavia , nonostante i limiti linguistici, nel suo cuore ardeva il fuoco della conoscenza. “ A giorni, come egli confida in sua breve biografia-, lo ricordo bene, ero veramente contento del lavoro che compivo (muratore), ma la mia passione segreta era di leggere, di studiare. Quando mi capitava qualche libro (anche i libri erano rarissimi nel recente passato in un ambiente contadino tagliato fuori dalla vita nazionale), lo leggevo con grande passione. Infatti lessi le opere della cosiddetta cultura popolare: Il Guerrino detto il Meschino; I paladini di Francia, I Reali di Francia, il Quo Vadis, I romanzi di A. Dumas, I miserabili di Hugo, che per noi lavoratori era il libro dei libri,, perché ricco di idee, di stimoli, di giustizia “sociale”.
D.; E comunque la fatica di STRATI per conquistare la lingua italiana è stato uno sforzo intellettuale denso di grandi sacrifici.
R.; Scrive lo stesso scrittore. “…se amavo proprio studiare, potevo diplomarmi alle magistrali ed essere così, dopo cinque- sei anni, insegnante elementare, Ripresi, con grande gioia ed entusiasmo, la scuola interrotta a undici anni. Dovetti naturalmente partire da zero, dato che avevo dimenticato tutto; cioè non sapevo scrivere senza fare anche tre sbagli in una parola…”. Strati non è un POETA, non può esserlo, c’è poco di ROMANTICO, di bucolico nella sua esperienza di vita. Ma non traduce dal dialetto, che conosce molto bene; sarebbe stato un suicidio letterario tradurre il dialetto in lingua italiana: uno scimmiottamento inutile. Utilizza, questo sì, alcuni termini dialettali, ma solo in alcuni dialoghi dove trovano spazio invettive quasi sempre urlate (Il visionario e il ciabattino. Il Diavolaro, La Teda).
D.; Introduce, però, I PROVERBI, già presenti nell’opera di Verga.
R.; Vero, compito principale dei proverbi è lasciare tracce rilevanti del mondo che lo scrittore ha inteso difendere e rappresentare. .“La pietra che non sta ferma se la porta l’acqua”. (In Il pastore maledetto”, p. 248; “Vai con i migliori di te e fagli le spese”. (Dialogo tra contadini, in La Marchesina, p.156). “Quando il ricco vende e il povero compra, il diavolo ride”. (Dialogo tra contadini, in La Marchesina, p.156).Lo fa, come in parte anticipato, con oculatezza, li posiziona al posto giusto, specie quando le vicende narrate prendono pieghe rivelatrici del CARATTERE dei personaggi. Il saggio di turno proietta la sua immagine quasi sempre a fine dialogo, si materializza per dare conclusione a un rapporto dialettico espressosi in mimiche facciali, ghigni, sorrisi maliziosi, battute sardoniche che rivelano una profonda teatralità. I PROVERBI non solo come elemento letterario, quindi, ma anche e soprattutto come cultura di un popolo , testimoni di valori secolari. Difatti, a ben riflettere, il proverbio chiude, sigilla un dialogo, ne stabilisce la valenza finale. E questo perché l’antica saggezza popolare resiste al tempo, sfugge a qualsiasi classificazione di merito.
D.; Cosicché qual è il rapporto di STRATI E LA LINGUA?
R.; Strati sa che il suo popolo, le masse -volendo essere solo per un attimo gramsciani- non possiedono una loro precipua lingua. E che, purtroppo, nessun popolo è in grado di costruirsela da sola. E’ pura realtà storica quella narrata da Strati, che conosce dal di dentro, che conserva nell’animo come prezioso lascito testamentario. Personaggi che, uniti a particolari vicende del mondo contadino, hanno dato forma e sostanza alla sua arte creativa. Egli sa che un idioma provinciale non può aspirare a lingua nazionale. Pur tuttavia può trovare espressione in un linguaggio che non scada nei localismi e che compia un viaggio purificatore -diciamo così- per mezzo dell’azione culturale di un suo straordinario rappresentante, lo stesso che, fino a 21 anni, aveva sudato assieme a loro, impastando calce e costruendo case. E’ lui, SAVERIO STRATI, la lingua del suo popolo, non lascia che altri trasformino la sua terra in sterile folclore, in una volgare imitazione del dolore, in un’azione corale di lamento per le amare vicissitudini che hanno intrappolato la vita del popolo meridionale: sottomesso al potere di turno, pietrificato dalla fatica dinanzi a signorotti gonfi di un parassitismo umano-culturale ai limiti della stupidità più atavica, incapaci com’erano di apportare migliorie ai loro fondi. Piccoli feudatari senza testa, padroni per lascito, designatori passivi di antiche eredità.
D.; Una categoria sociale che il Nostro ben conosce.
R..; Vero, Strati li conosce bene, non lascia che nei suoi romanzi avanzino per più di un passo, li mostrerà, anzi, nel loro grigiore culturale, denunciandone l’avarizia mentale. Il calabrese vuole essere parlato, scrive Corrado Alvaro. E Strati, quasi a volere prendere in prestito la sua, di Alvaro, osservazione, fa si che nei suoi romanzi il linguaggio della sua Calabria abbia forme che gli consentano di comunicare a qualsiasi livello sociale, divenendo così - se tradotta- lingua universale. E questo perché le ha tolto di dosso l’antica patina della sofferenza priva di riscatto sociale. L’uomo stratiano ha imparato a lottare, non è più fermo nei suoi passi, comprende che solo per mezzo del lavoro può cambiare la propria condizione socio-economica. Va da se che per essere una lingua capace di penetrare nella realtà nazionale bisogna scrollarsi di dosso costrutti arcaici elementari, e anche CEDERE il giusto prezzo idiomatico alla lingua italiana, ma senza per questo perdere il proprio carattere di fondo, cercando, per quanto possibile, di riservare un minimo di ossigeno ai termini più caratteristici degli idiomi ereditati dai diversi popoli che hanno conquistato la nostra terra nei secoli passati.
D.: Cosa terribilmente difficile.
R.; Da una parte la lingua italiana appresa da Strati a tarda età, lingua letteraria completamente diversa dal suo antico dialetto. Ed è proprio in questo frangente che egli sfodera una bravura fino ad allora ritenuta improbabile. Scrivere utilizzando una lingua che non tradisca le origini, che sappia narrare il problema della sua miseria secolare, il dramma dell’emigrazione e tutto quello che ne consegue, appare un compito gigantesco. Strati non si considera uno scrittore neorealista, anzi. “…Avrei scritto come ho scritto anche se il Neorealismo non fosse mai esistito; mi sono limitato a trasformare la mia esperienza in conoscenza e la conoscenza in scrittura. Ma - e qui STRATI esagera un po’- all’interno del Neorealismo, invece, trovarono collocazione scrittori borghesi che si accostarono agli umili per puro populismo.”. Cosicché Il suo linguaggio dovrà essere, alla fine del suo processo purificatorio, più REALISTA DEL RE. E ciò in assenza di una qualsivoglia mielosa RETORICA, mille leghe lontano da forme di LIRISMO PIAGNONE, lo stesso che annovera ancora parecchi proseliti nella nostra terra, Conseguentemente, egli elabora un linguaggio semplice, asciutto, ma non per questo elementare. Usa spesso i verbi rafforzativi, costruisce intensi dialoghi dove i personaggi, all’occorrenza, sfoderano locuzioni brevi ma intense, spesso intrise di acredine antica. E’ la lingua, finalmente, di un popolo che dalle scorie di un passato senza gloria, trova nel suo mentore, ovvero Saverio Strati, la concreta speranza di non rimanere ancorato per sempre ai margini della storia.

Eccome, se serve una lingua!
* Cultore di Etnologia e Antropologia Culturale Presso Università della Calabria

giovedì 30 luglio 2020

I DON RODRIGO DELLA VALLATA LA VERDE

Il 18 agosto 1907 la giovane e bella contadina Eugenia Todarello di Pardesca di Bianco fu impunemente trucidata e violata nelle sue parti intime (riempite di pietre e terriccio).
I Don Rodrigo non conoscono alcun tipo di restrizione spazio-temporale, nel senso che la prepotenza dei più forti trova spazio e complicità in ogni epoca.
Oggi, purtroppo, si è giunti al “femminicidio” : le donne subiscono violenze mortali da parte di fidanzati, mariti ed ex, parenti, familiari stretti, etc, a dimostrazione che il mondo femminile è ancora considerato inferiore a quello maschile, e, pertanto, degno di qualsiasi brutalità.
Nel Sud, specie al tempo del dominio baronale (durato quasi cinquecento anni: dal XIV sec. a quasi metà del sec. XX), la donna subiva le neglette angherie maschili, soprattutto quando le veniva a mancare il marito. Lo stato di vedovanza la lasciava “non protetta” rispetto alle bramosie dei signorotti del luogo.
                       
 "Gazzetta del Mezzogiorno",  28 Agosto  1907 (Trafiletto  fornitomi da Mario Leone)
Ma non solo ai baroni interessava la carne, il possesso della “merce umana”.
Ad essi si aggiungeva una vasta schiera di proprietari, spesso rozzi e violenti, che possedevano i migliori terreni, e che perciò tiranneggiavano i contadini e i pastori.
Ma il 18 agosto del 1907, una giornata torrida più delle altre, nessuno poteva immaginare che nel cuore della Vallata la Verde (contrada Grazìa, comune di Bianconovo)), proprio ai margini dell’omonima fiumara, una bella diciottenne sarebbe morta in circostanze a dir poco tragiche.
EUGENIA TODARELLO
Si chiamava Eugenia Todarello, era nata a Pardesca di Bianco il 24 settembre 1889 da Francesco Todarello e Mariangela Mesiti, onesti contadini alle prese con i duri lavori della terra.
Quella infausta mattina d’agosto, i suoi genitori stavano nei campi a lavorare, i fratelli più piccoli giocavano, Eugenia, invece, con in testa un recipiente di coccio (bumbuleglia) era quasi giunta presso una sorgente non lontana dalla fiumara La Verde per fare rifornimento d’acqua.
Ma qualcuno, poco prima della sorgente, cercò di violentarla e , vistosi energicamente rifiutato, la uccise a bastonate.
Nessuno pagò per l’orrendo crimine, un signorotto del posto fu semplicemente interrogato senza conseguenze giudiziarie. Alcuni pastori che pascolavano i loro greggi nelle vicinanze del bosco dissero, forse mentendo, di non avere assistito all’accaduto.
Eugenia fu consegnata alla nuda terra del neo-nato cimitero di Pardesca di Bianco.
Lo sgomento fu grande. L’omicida non solo aveva privato della vita la giovane e bella Eugenia, ma ne aveva anche deturpato il corpo. Le sue parti intime furono infatti riempite di pietre, un gesto di folle rabbia e disprezzo verso chi si era giustamente opposta alla violenza dei suoi aguzzini.
Sulla vallata cadde un silenzio collettivo, la paura ebbe il sopravvento, anche l’ ”Onorata Società” rimase indifferente di fronte alla vita e all’“onore” violati; segno, questo, ch’era al soldo dei potenti di turno. Ieri come oggi.
DON DOMENICO BATTAGLIA
Ma non tutti stettero zitti, Don Domenico Battaglia, arciprete di Caraffa del Bianco, poco tempo dopo, nel corso di messa domenicale, eseguì il rito della “Squagghjata” (della scomunica), ovvero il rito della candela (che si “squagghjia”, si scioglie) con il quale il sacerdote emise scomunica nei confronti dell’assassino (o degli assassini?) di Eugenia e di quanti, pur avendo assistito ai fatti, avevano taciuto. Era stato il vescovo di Locri-Gerace (Giorgio Delrio † (6 dicembre 1906 - 16 dicembre 1920) a disporre che in tutte le parrocchie fossero accese le candele della scomunica. L’evento delittuoso era stato troppo grave per non prendere provvedimenti così decisi.
MARGHERITA DI SAVOIA
La Regina Margherita, prima regina d’Italia come consorte di Umberto I di Savoia, appurato il terribile delitto invio una lapide-ricordo ai genitori di Eugenia (da sistemare sulla sua tomba).
Presso la pretura di Bianco- come anticipato- furono chiamati a testimoniare, oltre al signorotto che aveva più volte importunato – ma senza esito- la giovane, e che per questo fu il principale sospettato, alcuni pastori e contadini che quel 18 agosto faticavano in zona.
Nessuno vide, nesuno diede prova di coraggio.
E’ certo, infatti, che un delitto così barbaro non poteva passare inosservato.
MARIO LA CAVA
Mario La Cava, scrittore (Bovalino-1908/1988), indagò sulla morte di Eugenia allo scopo di scriverne un romanzo. Ma la cosa non andò in porto. Forse, stante l’omertà, non ricavò le notizie necessarie per un lavoro letterario a sfondo realistico.
I sospetti sul signorotto erano sorti per le sue pregresse molestie nei confronti della giovane ed anche perché era solito approfittare di tutte quelle povere donne che non erano in grado di opporsi alla sua cupidigia.
In punto di morte, lo stesso consegnò al prete ch’era andato a confessarlo una dichiarazione
scritta dove affermava di essere totalmente estraneo al delitto, e che ciò doveva essere reso pubblico nel corso del suo funerale. Il suo desiderio fu esaudito da Don Antonino Pelle (priore del santuario di Polsi), officiante incaricato.
Ma vox populi, però, era convinta della sua colpevolezza, tanto che, specie gli anziani, ripetevano sconcertati che manco in punto di morte il truce signorotto s’era deciso a confessare i suoi misfatti.
Una cosa però è ipotizzabile: per via del ruolo sociale rivestito, egli non poteva non sapere com’erano andati i fatti (nutro il sospetto, stante le modalità del delitto, che a parteciparvi siano state più persone ). Restano però da considerare altri aspetti. Perché tanta ferocia? Quali i veri motivi di tale sfregio? E se si fosse trattato di un gesto intenzionale stabilito a suo tempo a tavolino? E se si, da chi? e per quali motivi? Profanare post-mortem un corpo già martoriato, insistendo sulle parti intimi a mo’ di totale infamia, come a voler celebrare il pieno possesso di un corpo considerato privo di valore, in assenza di qualsiasi pietas cristiana, può far pensare che la morte della giovane Eugenia sia stato un evento iniziatico?, il progetto insano di un neo-gruppo che ha deciso di sacrificare la giovane sull’altare di chissà quale insano rito? Per intanto, sarebbe stato giusto dedicare alla memoria di Eugenia Todarello almeno una via, come pure una santa messa ogni 18 agosto, giorno della sua morte violenta. Successivamente, la chiesa- accertati fatti e conseguente documentazione- potrebbe avviare le procedure per la sua beatificazione. Ciò per dare memoria eterna ad una giovane innocente che pagò con la vita l’arroganza del Potere. ll compito- a chi di dovere- di provvedere in merito.
Una povera donna montanina
lieta recava al petto un trovatello
preso là nel buglione, ove s’insacca
dal matrimonio e dallo stupro a gara,
o legittima o no, l’umana carne.
Oh benedetta, miseri innocenti,
la pubblica pietà che vi ricovra
nudi, piangenti, abbandonati! A voi
il casto grembo della cara madre
e del tetto paterno il santo asilo
che dà l’essere intero, e dolcemente
l’animo leva a dignità di vita,
error, vergogna, delitto e miseria
chiude per sempre! Crescerete soli,
soli all’affetto e malsecuri in terra;
al disamor di genitori ignoti,
come la pianta che non ha radice,
maledicendo!
(Giuseppe Giusti, Gita da Firenze a
Montecatini, 18 ottobre 1846

domenica 12 agosto 2018

Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018



                       Di Vincenzo Stranieri
Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018, è una storia corale in cui l’autrice rivela un impegno creativo privo di sterili rimasticature, distante dalle norme di base del fare romanzo. Potrebbe sembrare - a una lettura superficiale- che tutto giri intorno all’io narrante e al suo naturale alter ego (Rosa Sirace) e che il resto rimanga imprigionato nell’angusto spazio- se pur utile-  della subalternità. Così non è. L’autrice, infatti, narra dal di dentro il suo mondo (interiore e fisico), ne fa parte a pieno titolo, i cosiddetti altri  sono importanti perché  riempiono la sua vita  di miti e sogni. Cosicché la  sua scrittura delinea le tappe più rilevanti dell’esistenza controversa dei numerosi protagonisti della sua fatica letteraria. Una saga familiare che  assorbe la storia antropologica di quanti chiamati ad avere il ruolo sul palcoscenico creativo dell’autrice,  e che carpisce per custodire quanto accaduto e accadrà al suo cospetto, nel tentativo riuscito di dare chiara luce alle genti che s’incrociano con la sua vicenda. Una tecnica narrativa non facile  ma ben riuscita. Tanti microcosmi sotto  un’unica regia, che agisce per conto di un impegno prima di tutto poetico (“Ma un giorno io ho dichiarato d’essere pronta a scodinzolare nel vento, pur di non perdere il cielo di vista”),  ) con l’intento precipuo di conoscere e sorreggere la memoria di comunità  in estremo affanno demografico. Il luogo dove ha deciso di vivere Rosa  è un piccolo paese del Sud, infatti.
 “In quel preciso momento sentii d’amare il Sud
perché ti lascia campare senza chiederti nulla,
come una melanzana viola
nei campi rossi di tramonto”.
L’incipit anticipa in qualche misura il viaggio narrativo della Serazzi. “Antonia Cristallo, mia nonna, dice che noi fummo sempre poveri e mai tamarri”.

E’ vero, è un Sud povero legato alle antiche norme della civiltà contadina.. In questo mondo sospeso tra tradizione e modernità ritorna Rosa Sirace, dopo avere concluso gli studi universitari a Perugia, ma il capoluogo umbro ha lasciato in lei tracce marginali perché ella sente battere nel suo cuore la città alle pendici del Vesuvio, la Napoli dove da piccola andava a trovare nonno Giuseppe Sirace.
 Una città dai forti contrasti culturali e antropologici che ha molto influito sulla sua formazione e che vengono anch’essi catapultati nel microcosmo calabro eletto a solido domicilio. Tutto è autobiografico, anche quanto non realmente vissuto fisicamente, l’importante è quello che si vive con l’animo, l’autrice narra- come anticipato-  dal di dentro una Koinè che ancora intende resistere ai tumulti sociali della  cosiddetta modernità. 
I capitoli sono introdotti da citazioni bibliche pertinenti quanto allusive.
Di certo Sonia Serazzi è un’attenta studiosa della Bibbia, che elegge a guida spirituale sia quando si rivela atto d’amore (“Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato” ), sia quanto ammonisce e condanna (“I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati”).
Ma la scrittrice, nel corso del suo narrare, lascia trasparire anche un “necessario” atteggiamento laico, lasciando che  le tessere narrative traccino i tratti psicologici  più salienti dei pochi abitanti rimasti in paese, nonché quelli dei suoi familiari più stretti, senza caricare i protagonisti di uno spirito religioso pervasivo  o caritatevole.
Capitoli medio brevi bisognosi di spazio, d’ossigeno puro. Da qui, all’occorrenza, una certa distanza   tra i diversi paragrafi, in sé racconti già definiti.
Pregni di sottile ironia e affettuoso sfottò sono i nomignoli appiccicati ad alcuni stretti familiari. Nicca Fiori, madre della protagonista, alias Baronessa di Barbamannu, Guido Sorace, il padre, alias Il Viscontino di Verolea, e poi il nome vero della nonna, Antonia Cristallo, che potrebbe ugualmente sembrare un nomignolo, donna dal carattere coriaceo, che pretende- forse a ragione- di avere un ruolo pedagogico nei confronti dell’amata nipote che incorona come Rosasua.  E poi i vicini di casa, gli amici, alcuni dei quali provvisti di nomignoli calzanti.
Ma è un mondo in decomposizione, purtroppo. La Serazzi, pertanto, ha fretta di salvare memorie, di riempire il suo onesto taccuino di fatti, vicende in grado di restituire corpo e carne ai protagonisti della sua terra, un mondo  pregno di antico sudore capace di preservare e trasmettere dignità e forza d’animo.




La  Baronessa di Babbumannu è convinta che la povertà debba tacere, altrimenti diventa una corona di pidocchi: sozzura in mostra che devi grattare lo stesso da solo
Un romanzo da leggere senza fretta, assaporandone il ritmo interno, la scrittura originale dove tutto è conoscenza e voglia di vivere.
Così ho imparato che la vita è andare per qualcuno che ci guarda”.

domenica 12 novembre 2017

VALLATA LA VERDE- I MASSACRI DEI BERSAGLIERI PIEMONTESI (1861).

                                          di Vincenzo Stranieri

Quanti cercano di capire i motivi di fondo che portarono alla cosiddetta Unità d’Italia (17 marzo 1861) è  doveroso che lo facciano con rigore e competenza  spogliandosi da pregiudizi ed analisi sommarie. Chi pensa che il Sud d’Italia sia stato annesso  con l’inganno e la violenza non deve essere etichettato come “ neo-borbonico”, viceversa quanti  chiudono gli occhi (spesso per ignoranza, cinismo  e/o per mero interesse di bottega) devono comprendere che la ricerca della verità vera non porta necessariamente ad una volontà (infantile quanto storicamente inattuabile) disgregatrice della Nazione. Indietro non si può tornare, è vero quanto opportuno, ma esigere la verità,  denunciare le carneficine perpetrate dai bersaglieri piemontesi  vuole significare – tra l’altro-  quanto sia giusto e moralmente doveroso dare  “degna sepoltura” ai tanti, troppi, morti innocenti di una processo risorgimentale  che ha  considerato le loro vite inutili quanto “politicamente” dannose. E se non fosse che stiamo parlando di cose altamente serie, verrebbe da canticchiare a mo’ di provocazione la simpatica canzone di Caterina Caselli ( Nessuno mi può giudicare,…la verità vi fa male, lo so. Tornando a noi, dal lavoro di alcuni storici non patentati ( per questo, forse, più attendibili), ho appurato, con poco sgomento, che  alcuni comuni della nostra  Vallata la Verde- in particolar modo quelli di Caraffa,  S. Agata, Casignana e Bianco-  sono stati  investiti dalla  violenza gratuita delle truppe savoiarde. Le cose andarono come segue.
Uno dei briganti che nella Locride giurò fedeltà a Francesco II (ultimo re dei Borbone a Napoli) e che all’occorrenza ebbe aiuti dai comitati legittimisti, e sostegno dai numerosi soldati e sottoufficiali borbonici sbandati, fu Ferdinando Mittica che, con la sua banda, si era sistemato nelle vicinanze di Platì.
Egli, una mattina del mese di agosto (si era nel 1861), scese dall’Aspromonte con un buon seguito di giannizzeri armati di schioppo, e si presentò in Chiesa a S. Agata, mentre l’arciprete Tedesco alzava verso il cielo l’ostia consacrata che, essendosi questo spaventato, per poco non gli cadde di mano Sul campanile della chiesa fu issato lo stendardo di Francesco II e Giuseppe Franco (figlio del  Barone  don Amato, e fedele borbonico) fu proclamato sindaco al posto di Francesco Rossi che era un savoiardo, cosicché la festa finì a tarallucci e vino senza colpo ferire e i briganti tornarono ai monti.( DIENI G.,  Dove nacque Pitagora, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1974, pp. 263-264).
Nei centri di arruolamento borbonici, aperti a Roma e in altre città degli Stati Pontifici, gli ufficiali stranieri: spagnoli, francesi, bavaresi, austriaci, piombarono a frotte. Il più noto di questi fu senza dubbio Jose Bories, il quale in vista di una prossima missione militare in Calabria fu nominato da Francesco II maresciallo di campo Bories parte da Marsiglia e punta su Malta con una ventina di compagni, ufficiali spagnoli, francesi, siciliani, napoletani, e da qui con un trabiccolo parte per la Calabria dove  il 13 settembre sbarca sulla costa ionica, nei pressi Brancaleone. Il suo intento era di raggiungere al  più presto Platì per unirsi a Mittica. Passa sotto Caraffa. Quando arrivano in contrada “Petrusa”, dalla prominenza del rione Pizzo partono contro di loro alcuni colpi di fucil, a cui essi rispondono.

Descrizione: Convento del Crocefisso
Convento dei Riformati di Crocefisso, fondato nell’anno 1622.
(Francesco Misitano, 1964).

Al Convento del Crocefisso di Bianco, qualche chilometro più avanti, gli spagnoli (così furono chiamati dagli abitanti della zona i membri di quel corpo di spedizione) sono accolti e rifocillati dai monaci. Quel convento era storico. Il principe Carafa in persona, affacciandosi alla finestra, si ben ignava ogni anno di ordinare “il cominciamento della Fera” e ivi viveva e pregava Padre Bonaventura da Casignana (al secolo Giuseppe Nicita, Casignana, 1880-1860), “religioso di santa vita”, e confessore della Beata Regina Maria Cristina di Spagna la quale, tra l’altro, gli aveva anche scritto: “ alle 2  il dopo pranzo, Dio mi concesse un parto felicissimo dando alla luce una bambina”. Sempre in detto convento, vent’anni prima, il viaggiatore inglese Edward Lear si era dissetato in un pomeriggio caldo d’agosto. “Un pozzo d’acqua pura”, scrisse, “ e un secchio di ferro incatenato che ricorderò per tutta la vita. INCORPORA G., Lupa di mare, Age, Ardore  Marina, 1997, p.36).
“ Da qui il drappello si avvia verso Platì. “Bories  e  i suoi  compagni saranno poi, l’8 dicembre 1861, intercettati a Tagliacozzo dalle truppe italiane (carabinieri, guardia nazionale, bersaglieri) e fucilati alle 4 del pomeriggio dello  stesso giorno. Per S.Agata  e Caraffa incomincia ora la tragedia: il generale savoiardo De Gori  sbarca il 20  di settembre con forze ragguardevoli a Bianco per una spedizione punitiva e  affida la missione al maggiore Rossi, cugino del Sindaco spodestato di S.Agata. “Si cercano tutti i coloni che furono creduti manutengoli dei briganti o ligi alla cospirazione”. A S.Agata  il 25 settembre 1861 cadono sotto il piombo dei bersaglieri presso le Pietre di S. Rocco, site davanti al palazzo baronale: Don Giuseppe Franco, di anni 33, figlio del barone e della nobildonna Marianna Scoppa;  Francesco Carneli , di anni 22, bracciante; Francesco Priolo, di anni 50, domestico dei Franco, nato a Reggio; Giuseppe Spanò, di anni 39, mulattiere; Vincenzo Zangari, di anni 36, campagnolo. Altri mezzadri e coloni dei Franco furono fustigati con un nerbo bagnato allo stesso posto vicino ai caduti con l’imposizione di gridare ad ogni nerbata: Viva Vittorio Emanuele! Via l’Italia! Abbasso i Borboni! Morte a Mittica”. ( MISITANO F.SCO., Il sacerdote Vincenzo Tedesco, in “Calabria Sconosciuta”, n. 77, pp.79).
A tal proposito “Francesco Sicari, fittavolo dei Franco, dopo le nerbate ricevute, avviandosi verso casa “zoppicando e contorcendosi, si lamentava: “O gnura Mariantonia lapriti a porta e lavatimi prestu cu sali ed acitu, ca sugnu tuttu na caja. Viva Vittoriu e Manueli! Viva u generali Di Gori!, Morti a Mittica! Morìu compari Vicenzu e Peppi Spanò, attri ammazzanu! Tutti ndi mmazzanu…Viva Vittoriu, Viva Di Gori.( DIENI G., op.cit.. 267).
De Gori era il generale che aveva ordinato il massacro e le fustigazioni!. Giovanni Franco, fratello di Giuseppe, si salvò perché, cucito dentro un materasso ch’era indirizzato ad un cardinale, fu spedito a Roma a bordo della nave “Pagliata”, ormeggiata in prossimità di Bianco. L’abate don Antonio Franco, un sacerdote della famiglia baronale di S. Agata, fu catturato a Bianco e fucilato nei pressi del Convento del Crocefisso. Questi fu incendiato. I monaci però avevano già abbandonato il convento e s’erano rifugiati: padre Bernardino a Casignana, padre Giacomo ed il ventinovenne padre Francesco Battaglia a Caraffa. Un quarto monaco (forse il superiore del convento) fu raggiunto dai bersaglieri in contrada “Gnura Elena” del Comune di Caraffa ed abbattuto a colpi di fucile. Padre Francesco Battaglia fu poi arrestato nel suo nascondiglio di Caraffa, dove viveva la sua famiglia, e liquidato lo stesso 25 settembre dietro l’abside della chiesa parrocchiale. Nello stesso giorno fu fucilato nei pressi della chiesetta della “Madonna delle Grazie” Antonio Zappia, di anni 36, nativo di S. Agata, figlio di Vincenzo e di Elisabetta Mesiti e marito di Agata Sicari. Era stato prelevato nel suo fondo in contrada “Cannavia” del comune di S. Agata. La voce popolare narra di un altro fucilato dietro l’abside della chiesa parrocchiale di Caraffa. Si tratterebbe di un tale, professione tintore, forse un parente di padre Francesco Battaglia, che anche apparteneva ad una famiglia di tintori. Purtroppo di questa esecuzione non si trova traccia né nei registri dello stato civile  né in quelli della parrocchia di Caraffa. Giovanni Battaglia, fratello di Francesco, per sfuggire alla cattura, in quanto anche lui ricercato, si dovette nascondere per lungo tempo in una stalla di maiali (hurnegliu di porci). Quando gli spagnoli di Josè Bories passarono, si trovava con loro un giovane caraffese, denominato “Carzi Randi” (Pantaloni Grandi), che li aiutava trasportando per loro una cassetta. Un altro giovane di Caraffa, di nome Giovanni Alafaci, si avvicinò al compaesano per dirgli di cedergli la cassetta, per un cambio nel trasporto, che lui alla prima svolta se la sarebbe svignata col carico, del quale poi gli avrebbe dato la metà. “Carzi Randi” però non cedette alle lusinghe e Giovanni Alafaci, dopo qualche centinaio di metri , si staccò dal gruppo. Il 25 settembre, giorno del massacro dei filoborbonici da parte dei piemontesi, Giovanni Alafaci fu accusato, per quei pochi passi fatti con gli spagnoli, di  collaborazionismo insieme a “Carzi Randi” ed iscritto nella lista degli  eliminandi per fucilazione. Entrambi dovettero cercarsi un nascondiglio ed ivi starsene bene accovacciati fino a quando, qualche mese più tardi, le esecuzioni capitali furono sospese”. ( MISITANO F.SCO, op.cit., pp.79-80).
Ma il ritorno dei Borboni era un sogno effimero, impossibile da realizzare, troppo le cose mutate, troppo forti ed organizzate le truppe sabaude.
Dalle montagne di Gerace il 19 settembre (1861) venne spedito un dispaccio a cura del deputato Agostino Plutino, comandante mobile di Reggio, col quale si comunicava l’avvenuto sbaragliamento  della comitiva Mittica e degli spagnoli, inseguita verso il territorio di Monteleone dal De Gori e dallo stesso Plutino. Il Mittica veniva braccato come una belva sanguinaria. Questi, contro una mobilitazione così grossa, aveva poche speranze di uscire vivo. Al brigante fu teso un agguato sulle montagne di Platì dal capitano delle milizie di quel Comune, Ferrari, assieme a sette guardie nazionali. Mittica morì alla prima scarica con il compagno Loseri. Decapitate, le teste furono portate sulle baionette a Gerace dove il Generale De Gori, che lì aveva il quartier generale, ordinò il seppellimento. Il Mittica venne tradito dai suoi stessi paesani dietro compenso.
 (CATALDO V, Cospirazioni, Economia e Società nel Distretto di Gerace in provincia di Calabria Ultra Prima dal 1847 all’Unità d’Italia, AGE, Ardore Marina 2000 , p. 499.
Anche Borjes e compagni rimasero vittime dell’illusione che avevano loro inculcato Ruffo e Clary, e saranno fucilati con la stessa ferocia riservata al Mittica ed ai suoi pochi fedeli.
In ogni caso, la reazione dell’esercito Regio, rappresentato nel nostro Distretto dal Generale De Gori, fu esagerata e priva d’ogni umana pietà, sentimento, quest’ultimo, che dovrebbe appartenere al cuore degli uomini in ogni tempo e situazione. La povera gente aveva accolto il brigante Mittica per paura e ignoranza, non certo perché approvasse le sue idee, c’era poco da approvare e da capire in quel frangente storico.  I piemontesi hanno commesso eccidi con efferata rabbia e con l’esagerata certezza di essere nel giusto; hanno ucciso a sangue freddo gente inerme nei pressi della casa di Dio; hanno inseguito e trucidato persone che non avevano avuto alcun ruolo decisivo nella scelta borbonica di riappropriarsi del Regno. E dunque l’impronta lasciata nella terra di Calabria era stata quella del sangue e del terrore, dell’istituzione forte che badava non ai morti innocenti ma alla cosiddetta ragion di Stato ( sic!).





Presentazione romanzo di Mario Strati Impallidisco le stelle e faccio giorno, Milano Bompiani 2017.

3 Agosto 2017
Sala consiliare di S.Agata del Bianco, ore 18,30
                                         di Vincenzo Stranieri

Una buona serata a tutti voi, grazie di avere  deciso di partecipare così numerosi  a questo nostro evento culturale che ha come tema la presentazione del romanzo “Impallidisco le stelle e faccio giorno” dello scrittore Mario Strati, edito quest’anno a Milano dalla casa editrice Bompiani.
Cercherò di essere breve - ma devo ammettere per onestà intellettuale- che  il romanzo di Mario Strati - stante la sua particolare tematica (malavita organizzata nella Locride (ndrina/ndrangheta), società civile (particolarmente annichilita), forze dell’ordine e magistratura in rappresentanza dello Stato, non sempre in grado di prevenire e quindi affrontare il mondo criminale, soprattutto per quanto attiene i mezzi e le strategie utilizzate, non può e non deve trasformarsi in una sorta di resoconto insufficiente quanto sbrigativo.
E’ mia scelta non riassumere in modo pedissequo  i testi letterari proposti all’interesse del pubblico, bastano – a mio parere- accenni essenziali, e questo- soprattutto- per  non togliere al lettore il gusto della scoperta individuale.
Già negli anni ’80 il romanzo è pronto per la pubblicazione, l’autore, pertanto, comincia a bussare- come si suole dire- alle porte di diverse case editrici, alcune di livello nazionale.
 Ma le risposte insistono nel ribadire che le collane  sono ormai debordanti di testi,  oppure che l’argomento  del romanzo non è  consono alla realtà culturale del momento, etc. 
Questo, però, non significa una sconfitta legata al valore dell’opera.
Vi sono infatti  intellettuali e  scrittori di rilievo che scrivono (in privato, naturalmente)  all’autore di “Impallidisco le stelle faccio giorno”.
Ne leggiamo assieme alcuni  brevi stralci.
 “Lo stile ha una notevole fermezza  intellettuale che si accompagna all’intensità emotiva dell’autore”.   Mario La Cava, Bovalino 19 maggio 1978.
Si rileva il polso di un autentico scrittore”  . Antonio Porta, Milano, 9 agosto 1987.
Che peccato se il romanzo non dovesse trovare subito un editore. Si tratta , nel complesso, di un buon libro e di un libro utile”.  Walter Pedullà, Roma, 27 Ottobre 1989.
…” Al di là di questi problemi  editoriali, la prego di credere al mio vivo apprezzamento per il suo lavoro. Nanni Balestrini, Milano 2 aprile 1990.
 “Personaggi e storie della Calabria (tesa tra tradizione ndranghetista e rinnovamento) si intersecano e si accavallano, ma senza imbrogliarsi.  Luca Desiato, Roma. 25 settembre 1994.
E’ forse uno dei pochi romanzi pubblicato da tre diversi editori.
Mancoso 1991,  col titolo voluto dall’editore, Scilla e Cariddi,  e poi Rubbettino 2006, Bompiani 2017, entrambi col titolo originario Impallidisco le stelle faccio giorno,  appunto.
Le nuove edizioni hanno avuto i loro ritocchi, in particolare quest’ultima di Bompiani,  che  è corredata da un glossario e da una tabella relativa all’Organizzazione della ndrangheta.
Un fenomeno sociale forse unico al mondo, e per questo più difficile da combattere.
Troppe le radici e le ramificazioni economiche e sociali  tessute soprattutto negli ultimi decenni.
Confesso che la lettura di questo romanzo - ieri come oggi-  ha suscitato nel mio animo sentimenti contrastanti.
 Da una parte la novità tematica, sorretta da un linguaggio nuovo ed essenziale, teso a far parlare i protagonisti, dando loro piena libertà d’azione, proiettandoli come su di uno schermo cinematografico, dove li ho visti agire, muoversi, materializzarsi nelle loro forme  funeste, dall’altra una società civile annichilita, incapace di opporsi alla violenza dei promotori di tanta   cultura criminale  che  ha disegnato un quadro di  infinito dolore.
Dall’altra parte le forze dell’ordine, l’esercito in particolare, incapaci di districarsi sui contrafforti di un Aspromonte capace di inghiottire nel suo vasto ventre  tutto e tutti
In qualche occasione ho provato anche paura e questo perché per  dirla col Aldo
Maria Morace  - Presidente della fondazione Corrado Alvaro e docente universitario  presso l’Università Statale di  Sassari..
“E’ nato un monstrum, nel senso etimologica del termine: come tutti i libri  forti, il romanzo di Mario Strati suscita reazioni violente, di ripulsa o di  entusiastica adesione; ma di  fronte al quale non si può rimanere in una posizione di stallo o, peggio, d’indifferenza”.
A metà lettura, mi è sovvenuto alla mente quanto detto da Corrado Alvaro a Mario La Cava a proposito della prima stesura del racconto lungo intitolato “Il matrimonio di Caterina” (siamo negli anni ’30), tradotto in film RAI nel  1983  dal grande regista Luigi Comencini.
Cito a memoria.
“ Io- cioè Corrado Alvaro- i personaggi del Vs racconto (Il matrimonio di Caterina di Mario La Cava) li vedo, e non se per bravura sua o perché li conosco”.
L’osservazione di Alvaro, competente quanto obiettiva, stigmatizza la capacità di La Cava di rendere personaggi ed azioni in movimento, ovvero in una posizione non statica, ma in grado di  rappresentare vicende pregne di dinamicità e concretezza narrativa.
Anche Mario Strati è bravo a rendere visibili, e quindi veri, i personaggi del suo romanzo, e sono molti i lettori- specie quelli che vivono nella Locride-  in grado più di altri di dare un nome alle sagome che si muovono sul  palcoscenico narrativo dell’autore.
Difatti, il male ha colpito più volte, è rintracciabile per strada, si muove con padronanza, con estrema baldanza, anzi
Detto ciò, eccovi- molto brevemente- il corpus  principale del romanzo di Mario Strati.
Al vertice della ndrangheta- riconosciuto nella Locride  come il capo indiscusso dell’ organizzazione malavitosa operante negli anni ’70-  vi è don Nino Radicato.
Egli incarna ancora i valori cui tradizionalmente è ancorata la vecchia ndrina, tuttavia, siccome non tutto dura- egli deve accettare.  al fine di non rafforzare comando e carisma, i pesanti colpi di coda del “nuovo” che avanza,  come diremmo oggi.
Cosicchè ha ragione il compianto Prof. Giuseppe Falcone quando, recensendo la prima edizione del romanzo  intitolato Scilla e Cariddi,  scrive: “Il veccho” ancora ben saldo non sopravvive al “nuovo” ma col “nuovo” convive…”.
Da qui l’errore storico- se così possiamo dire- di Don Nino Rodicato,  che accetta la proposta di Don Rosario ScordamaglIa - pezzo da ‘90  - ben piazzato  a Roma- di prendere in carico alla ndrangheta  un noto imprenditore della capitale da poco sequestrato e che avrebbe potuto – trasferito/custodito  in Apromonte, rappresentare un notevole fonte di guadagno (cifre a nove zeri).
Don Nino è costretto - per sopravvivere alla crescita esponenziale del “nuovo”- ad accettare un’operazione desueta, ben lontana dalle antiche regole dell’organizzazione.
 Ma il “vecchio”- come già detto”- convive con il “nuovo”, ne accetta supinamente le scelte, rimane inerte di fronte all’insuccesso dell’operazione criminale, che fallisce per l’intervento delle forze dell’ordine.
 In carcere finiscono Gianni e Rocco, i due giovani sorveglianti del sequestrato che -  questo va condannato con forza- vengono torturati dai carabinieri senza alcun umano riguardo.
 Ci si indigna per il delitto perpetrato ai danni del sequestrato, ma ci deve indignare anche di fronte alle torture perpetrate con calma scientifica nei riguardi dei due giovani ndranghetisti, che, però, reggono alle torture loro inflitte  non rivelando i nomi dei loro complici.
Rocco e Gianni –ad esempio-sono rapiti dalle mod, accerchiati da funesti miraggi.
E per questo uccidono un innocente barista.
Ecco come avanza il  “nuovo” \ (sic!).
Il futuro ndranghetista  impara da sin piccolo il linguaggio d’appartenenza.
Sono lezioni  giornaliere  impartite con meticolosità sia dalla famiglia d’appartenenza sia dall’ambiente vicino  ad essa.
E non gli vengono risparmiati fatti e misfatti,  ingiurie ai fetenti che tradiscono la famiglia. Tutto in un recinto educativo che ha lo scopo di forgiare la mente ed il corpo del  fuori norma di turno.
Tale lessico, fatto di metafore ben tornite vedono protagonista la ndrangheta, custodisce e trasmette un vocabolario semplice ma  efficace, dove i gesti, la mimica si accompagnano al parlato, indicandone soluzioni non sempre decodificabili  da chi non ne conosce l’interna natura.
Oltretutto il lettore di certo si domanderà come ha fatto l’autore a conoscere questi reconditi aspetti della ndrangheta, perché mai riesce parlarne così compiutamente.
 Difatti- tranne alcune necessarie ricostruzioni verosimili- tutto appare profondamente reale.
Il mondo narrato esiste davvero, i protagonisti agiscono secondo schemi non inventati dall’autore ma profondamente insiti nell’ambiente ove hanno luogo le tristi vicende.
Lo scrittore ha avuto le sue fonti,  ha bene appurato l’antropologia del mondo criminale in questione.
Forse è stato quest’ultimo a volere rivelarsi allo scrittore, quasi ad invitarlo a trasformare la semplice cronaca nera in una vicenda meno oscura, rivelatrice dei motivi che stanno alla base di tante tragiche scelte.
Mario Strati, pertanto, è divenuto una  sorta  di inviato di guerra  –perché di guerra si tratta-  ha visitato le trincee,  i soldati,  ha conosciuto i veri protagonisti di uno scontro senza né vinti né vincitor, però.
A vincere - ghignante e pregna di goduria- è solo la falce ghignante, che miete uomini e cose, spegnendo  per  sempre  sogni e progetti di vita.


venerdì 3 novembre 2017

Face Book non puo' ( non deve) sostituirsi alla vita vera)




Si rende necessario rientrare nei ranghi. Ha ragione Giulia Galletta, FB non può sostituirsi alla vita reale, fatte di regole alquanto diverse da quelle del web, dove le emozioni possono trovare maggiore spazio e consenso. I profanatori del tempio (i ladri che hanno  derubato la Santa Patrona della nostra piccola comunità) oltre ad avere compiuto un gesto sacrilego stanno creando malumori e malintesi all’interno del Gruppo. Ciò può solo produrre fratture e sterili mugugni. Di certo, chi di dovere sta lavorando al caso, e sarebbe  utile stare in attesa degli esiti conseguenti. Finora il Gruppo ha lavorato bene, ognuno ha dato quello che ha potuto, e senza alcuna voglia di protagonismo. Lo ha fatto per amore del proprio paese, della sua storia, del mondo contadino che ha consentito a tutti noi di andare a scuola, di professare un mestiere decoroso. Il solo “mi piace” non equivale ad essere omertosi, semmai il contrario. Quando qualcuno del Gruppo sintetizza bene le vicende, le argomenta in modo  esauriente, allora risulta inutile  quanto retorico ripetere  concetti conchiusi. In certi momenti della vita, bisogna frenare gli impeti, comprendere che si è scelto di far parte di una grande comunità (FB) e che ognuno può equivocare  anche una semplice parola, e con ciò accrescere la suscettibilità di quanti si sentono tirati in ballo. Facciamo tutti un bagno di umiltà e continuiamo a dare voce e sostanza al nostro Gruppo in modo unitario.  Non ci sono colti e meno colti, ognuno è importante.
Forse ha ragione Umberto Eco quando scrive:

                      Chiesta Matrice "S.Maria degli Angeli " di Caraffa del Bianco (RC)

 Ciascuno di noi ogni tanto è cretino,
imbecille, stupido o matto.
Diciamo che la persona normale
è quella che mescola in misura ragionevole
tutte queste componenti, questi tipi ideali.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, 1988


venerdì 10 febbraio 2017

Morire è semplice. Il suicidio del giovane precario.

09 febbraio 2017
Morire è molto semplice, difficile- spesso impossibile- è vivere nell’alveo di una società (tutti noi) poco premiante, sorda alle richieste d’aiuto dei giovani. E sì che hanno strasudato, i giovani, per diventare uomini pronti ad occupare un giusto ruolo nel mondo del lavoro, disposti a esprimere una professionalità  fresca e degna di essere messa alla prova. Mi ha molto colpito la lettera di Michele ( 30 anni, suicidatosi l’altro giorno, pubblicata sul “Il Giornale”), che ha deciso di lasciare il mondo terreno perché nessuno l’ha aiutato a trovare un lavoro, a sfuggire ai giorni privi di prospettiva, a dipendere in tutto dai suoi genitori, persone splendide distrutte dal dolore . Michele aveva  tanta voglia di vivere, ma le delusioni, tante e ingiustificate, hanno lacerato il suo giovane cuore, demolendo la fiducia in se stesso e negli altri

I genitori hanno chiesto che la lettera del figlio fosse pubblicata integralmente dal Messaggero Veneto . «Perché questo è un allarme rosso, un grave fenomeno sociale, che lui ha voluto denunciare».

PRECARIETA'
La lettera di Michele pubblicata da “il Giornale”

Ho vissuto (male) per trent'anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.
Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un'arte.

Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l'altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

PRECARIATO
Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.

Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest'ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po' non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

NO AL PRECARIATO JPEG
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c'entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

PRECARI RAGAZZI CON LA MASCHERA JPEG
Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c'è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un'epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l'alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l'ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c'è davvero bisogno.

Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po'. Basta con le ipocrisie.
GIULIANO POLETTI
Non mi faccio ricattare dal fatto che è l'unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all'individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.
Dentro di me non c'era caos. Dentro di me c'era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un'accusa di alto tradimento.
30ENNE SUICIDIO LETTERA
P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché ho potuto.