martedì 30 novembre 2010

Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, Roma 2004, pag.597,euro 32, prefazione di Predrag Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo,


                                         di Vincenzo Stranieri *
Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, Roma 2004, pag.597,euro 32, prefazione di Predrag Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è un viaggio intellettuale dentro l’animo dei numerosi paesi abbandonati di Calabria, i cui ruderi risultano sconosciuti e privi di senso soprattutto ai calabresi, che, in quanto a volontà di conoscenza, a valorizzazione della propria storia, peccano senza particolari rimorsi.
Quello di Teti è quindi un viaggio  all’interno  di paesi abbarbicati, come ci ricorda Corrado Alvaro, “…sulla schiena di una montagna come quei nidi di creta che fanno i calabroni intorno a uno spino indurito…”, e che, nonostante le alterne vicende  vissute (subite) ad opera dei conquistatori di turno,  riuscivano comunque a mantenere una propria identità, consegnando alle generazioni future il seme antropologico d’appartenenza: i riti, le abitudini, le tradizioni, l’idea della vita e della morte, le processioni dei santi  intrise  di un “sano” paganesimo, che,  in nome della tradizione, appunto, vede/va numerosa anche la presenza laica, che, nella religiosità popolare, ritrova/va le forme ancestrali della propria spiritualità.

domenica 7 novembre 2010

INTERVISTA A VINCENZO STRANIERI

Lei ha scritto alcuni interessanti saggi su Saverio Strati dai quali si evince una frequentazione culturale con l’autore de La Marchesina (1956), se pur limitatamente ai periodi in cui l’artista faceva ritorno nella sua casa di contrada “Cola” in S. Agata del Bianco, suo paese natio.

E’ vero, ho avuto la fortuna e il piacere di incontrare diverse volte Saverio Strati. Era sua abitudine ritornare con una certa regolarità a S. Agata del Bianco, ciò per riposarsi, ma anche per lavorare ad alcune sue opere. Le bozze de Il selvaggio di Santa Venere (Premio Campiello 1977) sono state, se mal non ricordo, riviste e corrette nella casa di contrada “Cola” posta su di  un poggio con lo sguardo sul mare Ionio (una vista che abbraccia circa 50 Km di costa- capo Bruzzano- Punta Stilo). Era sempre gentile, misurato nei giudizi, ed anche un po’ geloso delle sue cose. Ma ero troppo giovane per capire la grandezza della sua arte, mi accontentavo di dialogare sulle bellezze della nostra Magna Grecia, sul fatto che questa era stata tradita dalle nuove mode e dalla violenza della malavita. Ricordo le sue esortazioni a lavorare in difesa della civiltà contadina. “E’ il nostro humus, non tradiamolo”, soleva ripetermi. Le sue parole facevano trasparire l’angoscia per un mondo ormai preda del cosiddetto vivere moderno. Una lezione che non ho dimenticato e che, tra l’altro, sta alla base delle mie recenti ricerche etnografiche. Gli ho fatto avere “La Koinè agro-pastorale nella Locride (Massari e pastori tra medioevo e modernità) Age, Ardore Marina 2010, mia ultima fatica antropologica. Per telefono si è detto commosso, ricorda molti dei protagonisti citati nel mio saggio, le numerose foto lo hanno aiutato a ricordare alcuni eventi del suo/nostro passato. Per non disturbarlo, mi limito a qualche sporadica telefonata.

In un recente saggio, lei ha scritto che Saverio Strati si è fatto da solo, ha edificato la propria scrittura lontano dagli odierni “ascensori sociali”. Vuole spiegarci meglio tale concetto?

Fino a vent’anni, Strati ha fatto il muratore, non si è mosso dal paese, ha conosciuto la fatica, quella che emana sudore, che rende gli uomini carne bruciata dal sole o, diversamente, scalfita dal vento e dal freddo che non manca nelle montagne calabresi. Ha lavorato ad Africo Vecchio, prima che l’alluvione dell’ottobre 1951 lo rendesse un paese fantasma. Qui, poi, ha ambientato il suo primo romanzo (La teda, 1957). Ha narrato dal di dentro l’amara realtà di Terrarossa, il suo isolamento, la sua particolare condizione antropologica. La scrittura stava, pur se lentamente, lievitando nel suo animo e, spinto da un bisogno vero quanto incontenibile, intraprese la via degli studi. A Messina,  assieme a Walter Pedullà e Carmelo Filocamo, fu allievo del grande critico Giacomo de Benedetti, che, letti i suoi primi racconti, lo incoraggiò ad andare avanti “segnalandolo” alla Casa Mondadori e ad alcune importanti riviste del tempo (“Il Ponte” etc). Era  un “ascensore sociale” lecito, di quelli che, appunto,  segnalano un valore vero, non un fesso qualunque privo di talento. Certo, dalla sua ebbe anche la fortuna. In quegli anni il cinema era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a quella cineasta. Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e in numero notevole. A mio modesto avviso, le pagine più belle su Strati sono state scritte da Pasquino Crupi, che gli ha dedicato un’intera monografia, Walter Pedullà, Giuliano Manacorda e Geno Pampaloni. Strati abita da circa quarant’anni a Scandicci, alle porte di Firenze, al quarto piano di un fabbricato privo di ascensore (sic!); egli ha dedicato la sua esistenza all’arte, al punto da non pensare ad altro, ai soldi, ad esempio. E ha dovuto, a malincuore, chiedere per sé la Bacchelli, un sussidio per continuare a vivere. Altro che ascensore sociale! Strati ha sempre pensato alla sua Calabria, se la è cucita addosso per sempre, come delle stimmate.

Saverio Strati, il primo dicembre prossimo, sarà insignito della “laurea ad honorem” in Scienze letterarie (Filologia Moderna) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Cosa ci dice?

L’Unical ha voluto con forza che a Saverio Strati fosse conferito tale titolo.  A tal fine, il ministro Gelmini è stato “incalzato” a più riprese perché firmasse l’autorizzazione di sua competenza. Tra i principali sostenitori di tal evento vi sono i Proff. Vito Teti, Nicola Merola, Margherita Graneri e Raffaele Perrelli, Preside della Facoltà di Lettere. Vito Teti (ordinario di Etnologia e Direttore del Dipartimento di Filologia e del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo) è amico dell’artista calabrese, si stimano da qualche tempo; l’etnologo di S. Nicola da Crissa ha pubblicato parecchi saggi sullo scrittore di S. Agata del Bianco, dove, oltre alla valenza letteraria, ha tratteggiato con maestria il valore antropologico della sua opera. A Saverio Strati, negli anni cinquanta, mancava solo la discussione della tesi per conseguire la laurea in Lettere. Subito venne la letteratura, il tempo doveva essere impiegato per edificarsi scrittore, e il titolo fu messo da parte, con grande dispiacere per i suoi genitori-contadini, che speravano tanto in un figlio laureato. Peccato che la salute cagionevole non consenta al nostro amato artista di partecipare all’importante cerimonia (a ricevere per lui la preziosa pergamena sarà sua nipote Palma Comandé, scrittrice); sarebbe bello assistere alla sua emozione, nel mentre – di certo- dedica la preziosa onorificenza anche ai suoi cari genitori.

Se le affidassero l’incarico di scrivere la motivazione della laurea ad honorem a Saverio Strati, cosa scriverebbe?

“ A Saverio Strati, nato a S. Agata del Bianco il 16 agosto 1924, è conferita la laurea ad honorem in Scienze Letterarie perché per mezzo dei suoi numerosi romanzi sulla civiltà contadina e l'emigrazione del popolo meridionale, ha saputo dare dignità e fisionomia a un mondo che, altrimenti, la cultura ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore delle ipotesi, trasformato  in mero folclore".­­­­­


mercoledì 13 ottobre 2010

Entroterra in agonia

PER SALVARE LE NUMEROSE ZONE INTERNE CALABRESI ORMAI IN AGONIA, BISOGNA NON PERDERE ALTRO TEMPO PREZIOSO

VI E’ IL RISCHIO CONCRETO CHE INTERE COMUNITA’ DELL’ENTROTERRA ABBANDONINO PER SEMPRE I LUOGHI D’ORIGINE

                                                                di Vincenzo Stranieri

Vivo da sempre in un piccolo comune della vallata La Verde (Locride). Credo di avere scelto una vita stanziale fin dall’infanzia, quando tutto appare vasto e privo d’incognite. L’adolescente, come è giusto che sia, pensa alla vita utilizzando i riferimenti più prossimi: la famiglia, gli amici, la scuola, i giochi, che rappresentano un mondo conchiuso, un bozzolo che attende di aprirsi al giorno che nasce.
Si era figli di contadini, negli anni ’60, pochi gli artigiani ed i professionisti. Le nostre madri, come pure nonni e zie, si presentavano ai nostri occhi come un unico blocco affettivo, simboleggiando le tradizioni e i riti della civiltà contadina: abiti neri indossati per la perdita di qualche familiare, donne davanti alle bocche dei forni comunali nell’atto di cuocere il pane prodotto con grano proprio, i dolci tradizionali, i giochi di un tempo e, soprattutto, la vita all’aria aperta, tra i vicoli stretti del paese, senza i pericoli dell’odierno traffico automobilistico. E’ vero, il mondo cambia, prosegue nel suo lungo cammino. Ma un adolescente non può capire che la vita è un viaggio, spesso accidentato, verso il cosiddetto mondo adulto: famelico e privo di scrupoli. E quindi anch’io non ero preparato a comprendere, crescendo, che la mia terra, la mia regione erano/ sono ancora sottosviluppate e che bisogna/va adoperarsi per mutare in meglio le cose.

martedì 5 ottobre 2010

CORRADO ALVARO (S. LUCA 1895- ROMA 1956)

Fu una piccola scossa di terremoto, che si sentì in un solo paese, un paese povero e quindi trascurabile. I giornali ne parlarono in tre righe, e non riferiscono che Procopio aveva perduto sotto le rovine della sua casa lo stipo che era il solo mobile da lui posseduto fin dal giorno delle nozze.

C. Alvaro, Piedi nudi, in  Il  meglio dei racconti di Corrado Alvaro, oscar Mondadori, Cles, 1990, pag.69)

E’ vero che le cose presenti non ci interessano più, ma i pensieri, gli affetti, i dolori di ieri, vengono avanti nella memoria come violenze e ingiustizie…brucio tutto ancora come le pietre che buttano nella notte le vampe del giorno estivo.

domenica 3 ottobre 2010

Maria Multari (A cantunera), Caraffa del Bianco..........


Maria Multari, (A cantunera) era figlia di un addetto alla manutenzione delle strade provinciali della vallata La Verde. Abitava in Via P. di Piemonte, in una casa piccola ma decorosa. Fu madre di ben sette figli maschi; una famiglia numerosa che i coniugi Alecci (lo sposo si chiamava Domenico Alecci, uomo buono e lavoratore onesto) hanno portato avanti con enormi sacrifici ma anche con gioia ed amore, mai facendo pesare ai loro figli le non poche difficoltà economiche cui bisognava adempiere.
A cantunera era una specie di chioccia. Noi bambini frequentavamo la sua casa tutti i giorni; giocavamo con i sui figliuoli più piccoli (Pietro, Mario e Aldo), specialmente e nucigli, cu piroci, a libera, cu gialoffu, u pallonica carrozza i lignu. Non perdeva mai la pazienza, quando avevamo fame ci dava il buon pane fatto nei forni a legna, ci trattava come dei figli, insomma.

martedì 28 settembre 2010

L'ETA' MATURA DI SAVERIO STRATI

                LA SUA ARTE E’ LA TESTIMONIANZA DI UN IMPEGNO LETTERARIO CHE AFFONDA LE RADICI IN UN MERIDIONALISMO   PRIVO DELLE  ANTICHE SCORIE A SFONDO POPULISTISTICO.

                                                            di Vincenzo Stranieri

Quando Saverio Strati tornava nella sua S.Agata con una certa regolarità, nella casa della mitica contrada Cola da dove ha avuto inizio il suo importante viaggio letterario, ero ancora troppo giovane per capire appieno l’importanza della sua opera. Nelle nostre brevi chiacchierate (anni ’70), mi colpivano particolarmente due cose: la rabbia positiva che animava la sua arte, l’amarezza, profonda, dello scrittore per la gelosia, la totale mancanza di solidarietà e di spirito di aggregazione che stavano/stanno alla base dell’arretratezza culturale ed economica della Calabria. “C’è sempre stato in Calabria uno spirito feroce di autodistruzione; la storia stessa della nostra regione ha questa terribile impronta”. La stessa gelosia, o ignoranza, che ha impedito, nel 1977, quando gli è stato assegnato il premio letterario  Campiello per il romanzo  “Il Selvaggio di Santa Venere”, alla gente del suo paese di esprimergli  un augurio,  un semplice gesto capace di testimoniare l’orgoglio nei confronti del “compaesano” riconosciuto ancora una volta scrittore valente, testimone e prodotto  di una terra sì periferica e marginale , ma che, grazie anche ai suoi libri, poteva cominciare anch’essa il suo viaggio verso la cultura e dunque verso quel   riscatto socio- culturale agognato da secoli.

Lettera a Giuseppe Melina (S.Agata, 16.03.1920-14.09.2001)

Lettera a Giuseppe Melina

(che per tutta la vita  ha percorso la strada impetuosa  dell’arte)  


Il  tempo ha perduto le ore. Verrà il
giorno.  Entrerò nel cielo da una bassa porta. Sarò nella resurrezione con flauti e leggerò la vicenda-romanzo.
La grazia della zagara chiuderà l’onda breve della vita. E noi ( io, te amico lettore e tutti i convocati) ci allontaneremo dal disordine delle immagini e resteremo parola.
Resto solamente tempo. Lo spazio sarà cancellato dal sorriso di Dio.
(Francesco Grisi)

Caro amico,
fortuna che hai deciso di lasciare il mondo terreno in un tempo che ti ha impedito di assistere alle scene crudeli dell’11 settembre scorso, data da segnare per sempre nel calendario negativo della storia umana, perché, tutti dicono, rappresenta una svolta epocale nei rapporti tra gli uomini e le “diverse”, non necessariamente contrapposte, realtà di cultura.
La follia omicida ha voluto inaugurare alla grande il nuovo millennio e tocca combattere il terrorismo con tutti i rischi che la cosa comporta: incertezza di poterlo fare in tempi brevi e definitivamente, alto rischio di provocare la morte di civili innocenti.
Hai sempre detto, specie negli ultimi anni della tua feconda solitudine, che questo mondo non t’apparteneva, perché troppo legato alle ferree leggi dell’economia, proteso a cancellare le tracce di qualsiasi umanesimo, ormai preda di una tecnologia mistificatrice dei valori veri.
Non eri un rivendicativo, però, non lo eri da  tempo.
T’infastidivano le lagnanze, le denunce allo Stato assente. Sapevi che il problema era l’uomo, la sua vocazione o meno a mutare il corso negativo della storia.
Davi potere ad ogni singolo uomo, non più massa, gregge belante, ma individuo in grado di guardare all’esistenza con occhio non più rassegnato.
Che tutto stava mutando in fretta, una fretta quasi parossistica, t’era chiaro da tempo, e ne soffrivi.

sabato 25 settembre 2010

INVICTUS

INVICTUS
Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l'indomabile anima mia.

Nella feroce morsa delle circostanze
non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’orrore delle ombre
eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io Sono il signore del mio destino:
Io Sono il capitano della mia anima.

Invictus di William Ernest Henley