3 Agosto 2017
Sala consiliare di S.Agata del Bianco, ore 18,30
di Vincenzo
Stranieri
Una buona serata
a tutti voi, grazie di avere deciso di
partecipare così numerosi a questo
nostro evento culturale che ha come tema la presentazione del romanzo “Impallidisco le stelle e faccio giorno”
dello scrittore Mario Strati, edito quest’anno a Milano dalla casa editrice
Bompiani.
Cercherò di
essere breve - ma devo ammettere per onestà intellettuale- che il romanzo di Mario Strati - stante la sua
particolare tematica (malavita organizzata nella Locride (ndrina/ndrangheta),
società civile (particolarmente annichilita), forze dell’ordine e magistratura
in rappresentanza dello Stato, non sempre in grado di prevenire e quindi
affrontare il mondo criminale, soprattutto per quanto attiene i mezzi e le
strategie utilizzate, non può e non deve trasformarsi in una sorta di resoconto
insufficiente quanto sbrigativo.
E’ mia scelta
non riassumere in modo pedissequo i
testi letterari proposti all’interesse del pubblico, bastano – a mio parere-
accenni essenziali, e questo- soprattutto- per
non togliere al lettore il gusto della scoperta individuale.
Già negli anni
’80 il romanzo è pronto per la pubblicazione, l’autore, pertanto, comincia a
bussare- come si suole dire- alle porte di diverse case editrici, alcune di
livello nazionale.
Ma le risposte insistono nel ribadire che le
collane sono ormai debordanti di testi, oppure che l’argomento del romanzo non è consono alla realtà culturale del momento, etc.
Questo, però,
non significa una sconfitta legata al valore dell’opera.
Vi sono infatti intellettuali e scrittori di rilievo che scrivono (in
privato, naturalmente) all’autore di “Impallidisco
le stelle faccio giorno”.
Ne leggiamo assieme
alcuni brevi stralci.
“Lo
stile ha una notevole fermezza
intellettuale che si accompagna all’intensità emotiva dell’autore”. Mario La Cava, Bovalino 19 maggio 1978.
“ Si rileva il polso di un autentico scrittore”
. Antonio
Porta, Milano, 9 agosto 1987.
“Che peccato se il romanzo non dovesse
trovare subito un editore. Si tratta , nel complesso, di un buon libro e di un
libro utile”. Walter Pedullà, Roma, 27 Ottobre 1989.
…” Al di là di questi problemi editoriali, la prego di credere al mio vivo
apprezzamento per il suo lavoro. Nanni
Balestrini, Milano 2 aprile 1990.
“Personaggi
e storie della Calabria (tesa tra tradizione ndranghetista e rinnovamento) si
intersecano e si accavallano, ma senza imbrogliarsi. Luca
Desiato, Roma. 25 settembre 1994.
E’ forse uno dei
pochi romanzi pubblicato da tre diversi editori.
Mancoso
1991, col titolo voluto dall’editore, Scilla e Cariddi, e poi Rubbettino 2006, Bompiani 2017, entrambi
col titolo originario Impallidisco le
stelle faccio giorno, appunto.
Le nuove
edizioni hanno avuto i loro ritocchi, in particolare quest’ultima di Bompiani, che è
corredata da un glossario e da una tabella relativa all’Organizzazione della
ndrangheta.
Un fenomeno
sociale forse unico al mondo, e per questo più difficile da combattere.
Troppe le radici
e le ramificazioni economiche e sociali
tessute soprattutto negli ultimi decenni.
Confesso che la
lettura di questo romanzo - ieri come oggi-
ha suscitato nel mio animo sentimenti contrastanti.
Da una parte la novità tematica, sorretta da
un linguaggio nuovo ed essenziale, teso a far parlare i protagonisti, dando
loro piena libertà d’azione, proiettandoli come su di uno schermo
cinematografico, dove li ho visti agire, muoversi, materializzarsi nelle loro
forme funeste, dall’altra una società
civile annichilita, incapace di opporsi alla violenza dei promotori di
tanta cultura criminale che ha
disegnato un quadro di infinito dolore.
Dall’altra parte
le forze dell’ordine, l’esercito in particolare, incapaci di districarsi sui
contrafforti di un Aspromonte capace di inghiottire nel suo vasto ventre tutto e tutti
In qualche
occasione ho provato anche paura e questo perché per dirla col Aldo
Maria
Morace - Presidente della fondazione
Corrado Alvaro e docente universitario presso l’Università Statale di Sassari..
“E’ nato un monstrum,
nel senso etimologica del termine: come tutti i libri forti, il romanzo di Mario Strati suscita
reazioni violente, di ripulsa o di
entusiastica adesione; ma di fronte al quale non si può rimanere in una
posizione di stallo o, peggio, d’indifferenza”.
A metà lettura,
mi è sovvenuto alla mente quanto detto da Corrado Alvaro a Mario La Cava a
proposito della prima stesura del racconto lungo intitolato “Il matrimonio di
Caterina” (siamo negli anni ’30), tradotto in film RAI nel 1983
dal grande regista Luigi Comencini.
Cito a memoria.
“ Io- cioè
Corrado Alvaro- i personaggi del Vs racconto (Il matrimonio di Caterina di
Mario La Cava) li vedo, e non se per bravura sua o perché li conosco”.
L’osservazione
di Alvaro, competente quanto obiettiva, stigmatizza la capacità di La Cava di
rendere personaggi ed azioni in movimento, ovvero in una posizione non statica,
ma in grado di rappresentare vicende
pregne di dinamicità e concretezza narrativa.
Anche Mario
Strati è bravo a rendere visibili, e quindi veri, i personaggi del suo romanzo,
e sono molti i lettori- specie quelli che vivono nella Locride- in grado più di altri di dare un nome alle
sagome che si muovono sul palcoscenico
narrativo dell’autore.
Difatti, il male
ha colpito più volte, è rintracciabile per strada, si muove con padronanza, con
estrema baldanza, anzi
Detto ciò, eccovi-
molto brevemente- il corpus principale
del romanzo di Mario Strati.
Al vertice della
ndrangheta- riconosciuto nella Locride
come il capo indiscusso dell’ organizzazione malavitosa operante negli
anni ’70- vi è don Nino Radicato.
Egli incarna
ancora i valori cui tradizionalmente è ancorata la vecchia ndrina, tuttavia, siccome
non tutto dura- egli deve accettare. al
fine di non rafforzare comando e carisma, i pesanti colpi di coda del “nuovo”
che avanza, come diremmo oggi.
Cosicchè ha
ragione il compianto Prof. Giuseppe Falcone quando, recensendo la prima
edizione del romanzo intitolato Scilla
e Cariddi, scrive: “Il
veccho” ancora ben saldo non sopravvive al “nuovo” ma col “nuovo” convive…”.
Da qui l’errore
storico- se così possiamo dire- di Don Nino Rodicato, che accetta la proposta di Don Rosario
ScordamaglIa - pezzo da ‘90 - ben
piazzato a Roma- di prendere in carico
alla ndrangheta un noto imprenditore
della capitale da poco sequestrato e che avrebbe potuto –
trasferito/custodito in Apromonte,
rappresentare un notevole fonte di guadagno (cifre a nove zeri).
Don Nino è
costretto - per sopravvivere alla crescita esponenziale del “nuovo”- ad
accettare un’operazione desueta, ben lontana dalle antiche regole
dell’organizzazione.
Ma il “vecchio”- come già detto”- convive con
il “nuovo”, ne accetta supinamente le scelte, rimane inerte di fronte
all’insuccesso dell’operazione criminale, che fallisce per l’intervento delle
forze dell’ordine.
In carcere finiscono Gianni e Rocco, i due
giovani sorveglianti del sequestrato che -
questo va condannato con forza- vengono torturati dai carabinieri senza
alcun umano riguardo.
Ci si indigna per il delitto perpetrato ai
danni del sequestrato, ma ci deve indignare anche di fronte alle torture
perpetrate con calma scientifica nei riguardi dei due giovani ndranghetisti,
che, però, reggono alle torture loro inflitte
non rivelando i nomi dei loro complici.
Rocco e Gianni
–ad esempio-sono rapiti dalle mod, accerchiati da funesti miraggi.
E per questo
uccidono un innocente barista.
Ecco come avanza
il “nuovo” \ (sic!).
Il futuro ndranghetista
impara da sin piccolo il linguaggio
d’appartenenza.
Sono
lezioni giornaliere impartite con meticolosità sia dalla famiglia
d’appartenenza sia dall’ambiente vicino ad essa.
E non gli
vengono risparmiati fatti e misfatti,
ingiurie ai fetenti che tradiscono la famiglia. Tutto in un recinto
educativo che ha lo scopo di forgiare la mente ed il corpo del fuori norma di turno.
Tale lessico,
fatto di metafore ben tornite vedono protagonista la ndrangheta, custodisce e
trasmette un vocabolario semplice ma
efficace, dove i gesti, la mimica si accompagnano al parlato,
indicandone soluzioni non sempre decodificabili
da chi non ne conosce l’interna natura.
Oltretutto il
lettore di certo si domanderà come ha fatto l’autore a conoscere questi reconditi
aspetti della ndrangheta, perché mai riesce parlarne così compiutamente.
Difatti- tranne alcune necessarie ricostruzioni
verosimili- tutto appare profondamente reale.
Il mondo narrato
esiste davvero, i protagonisti agiscono secondo schemi non inventati
dall’autore ma profondamente insiti nell’ambiente ove hanno luogo le tristi
vicende.
Lo scrittore ha
avuto le sue fonti, ha bene appurato l’antropologia
del mondo criminale in questione.
Forse è stato
quest’ultimo a volere rivelarsi allo scrittore, quasi ad invitarlo a
trasformare la semplice cronaca nera in una vicenda meno oscura, rivelatrice
dei motivi che stanno alla base di tante tragiche scelte.
Mario Strati, pertanto,
è divenuto una sorta di inviato di guerra –perché di guerra si tratta- ha visitato le trincee, i soldati, ha conosciuto i veri protagonisti di uno
scontro senza né vinti né vincitor, però.
A vincere -
ghignante e pregna di goduria- è solo la falce ghignante, che miete uomini e
cose, spegnendo per sempre sogni e progetti di vita.