domenica 11 aprile 2021
GIOACCHINO CRIACO, L’ULTIMO DRAGO D’APROMONTE (Rizzoli, Milano, 2020)
mercoledì 17 marzo 2021
Il seme nelle terre perse, di Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016
Prendo con un certo ritardo i miei
appunti su un saggio dal titolo suggestivo: Il seme nelle terre perse, di
Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016, motivi contingenti non mi hanno consentito
di scrivere prima su questo bel testo che contiene diversi saggi di natura
variegata che hanno come unico baricentro la semina culturale (mi si passi la
metafora) che in ogni lembo di terra potrebbe, se è vera e viva la decisione di
seminare, attecchire in un qualsiasi terreno incolto. Italiano si è costruito
un particolare linguaggio: letterario quanto basta, chiaro e puntiglioso,
perché lui tiene alla comunicazione priva di fraintendimenti. E in questo egli
è proprio bravo, mai s’inerpica su pericolosi dirupi semantici perché lui è
persona mite e priva di retro pensieri. Detto questo, la miscellanea dei suoi
scritti offre-tra ‘altro- un inedito spaccato del teatro di Mario La Cava- a
esempio- la cui struttura scenica e prosastica aveva tanto impressionato
Leonardo Sciascia; per poi ricordarci che anche un Gramsci ha potuto sbagliare
allorquando ha sminuito in modo grossolano e violento il romanzo Emigranti di
Francesco Perri. Italiano mantiene una buona amicizia con Matteo Collura,
cugino di Leonardo Sciascia, e al quale ha dedicato un prezioso volume. Collura
è venuto a Bovalino più volte per la presentazione di alcuni suoi saggi, e del
nostro lembo di terra è rimasto impressionato positivamente. Italiano parlando
di Collura in realtà parla anche di Leonardo Sciascia, indomabile “moralista”
troppo presto venuto a mancare. Non sono assenti le note di cronaca,
naturalmente, ma queste vanno giustamente affidate al lettori, che invito a
leggere questo bel saggio intriso di valori morali senza tempo.
martedì 16 marzo 2021
“Brevi finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020
“Brevi
finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020, è una sorta di taccuino
contenente note che poco insistono su vicende di mera quotidianità, tantomeno
l'autore registra pensieri staccati da valutazioni storico-politiche
attualmente in auge. Egli s'impegna – tra l’altro - a decifrare i motivi di
fondo che hanno contribuito a impantanare il dibattito socio-antropologico a
livello globale. E lo fa osservando con dovizia di particolari le
contraddizioni della società attuale, ma nel farlo non usa alcun nerbo, il suo
linguaggio è apparentemente calmo e mai scontroso, infatti, Pare di sentire una
voce volutamente flebile, mai volgare, con parole che disegnano la realtà
interna/esterna senza mai scivolare in beceri luoghi comuni, mantenendo sempre
oggettività e senso delle proporzioni.
Anche l'ironia di alcune note è saggia e mai invasiva. E’ un linguaggio- come
dicevo- che differisce molto dalle sue precedenti opere narrative e di viaggio,
a dimostrazione della progressiva maturazione semantica. In questo testo di
appunti, infatti, Talia mantiene un contegno linguistico straordinariamente
unitario. Non voglio riassumere il testo, non è questo che interessa il
lettore, ma non posso non ribadire che l'autore ha saputo con eleganza e
maestria descrivere con estrema incisività la sua attuale visione del mondo,
che, a ben vedere, va di molto oltre strette e BREVI FINESTRE.
“Questo
ci indica che in futuro di fronte a scenari inediti dovremo essere capaci di
esprimere forme originali di pensiero e di conoscenza e definire nuovi e più
sofisticati linguaggi che ci permettano di esprimerli”.(pag.87)
mercoledì 10 marzo 2021
AMO LE DONNE
domenica 7 marzo 2021
MICHELE PAPALIA, SULL’ONORE NOSTRO, CITTÀ DEL SOLE, RC, 2020
.
Dopo aver letto e apprezzato il breve prologo del primo capitolo (immagini incisive anche sul piano poetico) ho pensato che il resto del romanzo avrebbe avuto un suo celere seguito seguendo i canoni classici del romanzo: azione e caratteristiche peculiari dei protagonisti, trama e ambiente geografico umano d’azione; ma poi ho notato che altre sedici brevi introduzioni facevano capolino a ogni cap. e, conseguentemente, mi sono convinto che era meglio leggere il testo di Michele Papalia non come un romanzo tout court bensì come il frutto di diciassette testi narrativi brevi (da notare che il pregiudizio iettatorio riferito al numero 17 non trova riscontro da parte dell’autore) che, se uniti, potevano ugualmente reggere l’impalcatura romanzata. E questo perché ogni breve racconto, nonostante le similitudini dei protagonisti, è autonomo, non ha bisogno d particolari allegorie, tantomeno di evidenti spazi geografici. Nei paesi di un’Italia ricca di piccoli, medi e grandi paesi stanno scomparendo i personaggi tipici, rappresentativi dell’antropologia profonda dei luoghi che, invece, nell’opera di Papalia rappresentano l’ossatura più sostanziosa, sintetizzano storie e memorie di un mondo che, purtroppo, non ha retto alla forza violenta dei tempi mutati. Le fantasie amorose e di rivalsa sociale (priva di esiti positivi) di Don Ciccio o Poeta che desidera la bella Cata, “ I capelli color carbone (che) lambivano le punte dei seni”. Ma è proprio quando la prospettiva della lettura muta, quando si decide di unire i componenti di questa collana antropologica dedicata a un piccolo paese aspromontano che la storia prende un’altra piega e i brevi incipit ai capitoli non hanno più la forza di rimanere autonomi all’interno dell’intero tessuto narrativo. In fondo non è bello creare sofferenza, penetrare nelle profondità del mondo in cui si vive, narrarne la storia, evidenziarne soprattutto le sconfitte. Prepotenze, le stesse che, forse, hanno alimentato il seme maligno dell’Onorata Società, che rappresenta la nascita e lo sviluppo di violenze altrettanto feroci se comparabili alle ingiustizie perpetrate dai Potenti di turno ( Il Cigno e Giosafatto, aristocratici avidi e senza scrupoli). Alla fine non vince nessuno, le sorti di questo isolato paese dell’estremo Sud non interessano ai più , o meglio, andando avanti nel tempo, esso, suo malgrado, viene a tutt’oggi additato come brutto e cattivo, fornace viva della criminalità organizzata. Per finire, va dato merito a Michele Papalia del suo profondo atto d’amore verso la sua Platì, dove e nato e dove ha deciso di viverci, e questo, si badi bene, in una realtà antropologica sì romanzata, ma dove il blocco spazio-tempo vissuto dai personaggi sembra ancora imperare sulla realtà attuale. Un microcosmo avvolto in una cornice di luci inquietanti che vuole ricordare a tutto a tutti che senza lotta non si vince, che maledire il fato vuol dire sprofondare ancor più nel ventre sterile del vittimismo.
Pieno merito a questo giovane autore, testimone mai passivo del suo mondo d’origine, proteso , all’occorrenza, verso più vasti orizzonti.
o
sabato 6 marzo 2021
Alessandro Sallusti intervista Luca Palamara IL SISTEMA (Potere, politica affari: (storia segreta della magistratura italiana), Rizzoli ed. Milano 2021
Intitolare
un romanzo non è cosa semplice. Deve essere soprattutto tematico, pena facili
depistamenti. Mettiamo di voler intitolare un “nostro” romanzo IL SISTEMA,
conseguentemente dobbiamo stare attenti a non creare equivoci con i Sistemi che
imperano dalla notte dei tempi, e che sempre e comunque si coniugano con il
Potere cui appartengono quanti impongono le proprie ideologie su noi comuni
mortali. Oltre al titolo, il romanzo abbisogna di una bella trama:
accattivante, verosimile, e con in serbo qualche vellutata storia d’amore.
Detto questo in soldoni, il discorso sarebbe lungo e faticoso, ho da dirvi che
per leggere SISTEMA (Sallusti intervista Palamara) ho dovuto pensare
all’intervista non come a un’operazione normale di inchiesta giornalistica. No.
per poterla leggere fino in fondo, l’ho dovuta pensare come si fa per un
romanzo: periodo storico, protagonisti, tessitura, trama, esito finale. Ma non
pensiate che la cosa riesca facilmente. Spesso si ha l’impressione di venire a
conoscenza di fatti non più inverosimili, inventati da chissà quale fervida
fantasia. No. Palamara, è vero, è un regista abile del SISTEMA. Ma non è il
solo, purtroppo. Nella piramide del potere inerente la magistratura italiana
egli è forse il più coriaceo, il più accreditato presso le procure compiacenti.
ma vi sono altri numerosi colleghi che lavorano sottotraccia per il Sistema.
Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora? Solo in
parte. Da anni la magistratura mostra crepe al suo interno, fibrillazioni non
sempre sopite. Si capisce bene dalle confidenze di Palamara a Sallusti,
s’intuisce che il SISTEMA traballa allorquando gli interessi non collimano con
gli obiettivi primari degli organismi interni. Tutti aspirano a qualcosa,
nessuno vuole recedere, crescono così colpi bassi difficili da archiviare,
accuse pesanti da proferire senza alcun ritegno. Crescono pure i Dossier,
informazioni segrete da carpire anche con l’inganno e da utilizzare nei momenti
opportuni. Il magistrato X ambisce, magari legittimamente, a essere promosso Procuratore
Capo di una città a lui gradita, ma deve rinunciarvi perché, stranamente, viene
resa pubblica una sua disavventura, chiamiamola così, verificatasi in passato e
che ora assurge a colpa indifendibile. Tranello dopo tranello, sgambetto
malevolo dopo sgambetto.
Palamara usa un proverbio azzeccato per mostrare le
basi un tempo cementificate del SISTEMA giustizia, ovvero che CANE NON MANGIA
CANE. E invece i morsi sono in aumento, fanno male, logorano i rapporti
storici, inficiano le regole interne al SISTEMA Il
nepotismo non conosce distinzione di classe, un po’ tutti,
all’occorrenza, attingono alla mammella materna. Non sempre è un fatto
immorale, si può essere bravi figliuoli pur in presenza di genitori
ingombranti, ben inseriti in ambiti sociali altolocati. Tuttavia è più facile
ritrovarsi contadini quando si proviene da famiglie dedite da lunghe stagioni
all’aratura dei campi. E
quindi il cosiddetto ASCENSORE SOCIALE , strumento per
scalare le irte montagne che conducono a posti di
prestigio, ha una sua peculiare funzione, difficilmente dà spazio e trasporto a
quanti non orbitano negli alvei riconosciuti degli eletti, che hanno conosciuto
SOLO vizi e bambagia. E’ vero non bisogna generalizzare, non sempre
i figli prendono il posto dei padri, ma pochi
s’oppongono al SISTEMA che sorregge certi ambienti legati al
POTERE di turno. Che anche in Magistratura l’ascensore sociale
funzioni senza particolari intoppi è fatto ormai accertato. E questo non
necessariamente tra parenti prossimi. E visto che stiamo parlando di Luca
Palamara, figlio di magistrato, il quale ha dovuto per forza di cose “vomitare”
il malaffare esistente nel suo mondo lavorativo, non risulta giusto
giudicare il mondo della magistratura come un corpo compatto inserito
nel SISTEMA. Lo assicura lo stesso Palamara, che i buoni magistrati ci sono e
che lavorano con dedizione e onestà professionale. Non mi è antipatico Palamara
perché alla resa dei conti, e non solo per difendersi dalle conseguenze, ha
ammesso cose che altrimenti sarebbe rimaste sepolte nell’omertà e quindi
nell’oblìo. Spero tanto che un bel po’ di magistratura si pensioni, che vada a
casa, ha già avuto troppo e senza pagare nulla in cambio. Spero tanto nei
giovani magistrati da poco entrati in funzione, e che forse sapranno stare
lontano da qualsiasi SISTEMA di potere, inaugurando così stagioni nuove e
positive e questo in nome di Falcone, Borsellino e tutti gli onesti
rappresentanti dello Stato (a tutti i livelli) che hanno lottato per
darci un mondo ricco di ideali che tutti noi siamo chiamati
a custodire con estremo pudore.
giovedì 17 dicembre 2020
IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI
IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI
giovedì 30 luglio 2020
I DON RODRIGO DELLA VALLATA LA VERDE
Oggi, purtroppo, si è giunti al “femminicidio” : le donne subiscono violenze mortali da parte di fidanzati, mariti ed ex, parenti, familiari stretti, etc, a dimostrazione che il mondo femminile è ancora considerato inferiore a quello maschile, e, pertanto, degno di qualsiasi brutalità.
Nel Sud, specie al tempo del dominio baronale (durato quasi cinquecento anni: dal XIV sec. a quasi metà del sec. XX), la donna subiva le neglette angherie maschili, soprattutto quando le veniva a mancare il marito. Lo stato di vedovanza la lasciava “non protetta” rispetto alle bramosie dei signorotti del luogo.
Ad essi si aggiungeva una vasta schiera di proprietari, spesso rozzi e violenti, che possedevano i migliori terreni, e che perciò tiranneggiavano i contadini e i pastori.
Ma il 18 agosto del 1907, una giornata torrida più delle altre, nessuno poteva immaginare che nel cuore della Vallata la Verde (contrada Grazìa, comune di Bianconovo)), proprio ai margini dell’omonima fiumara, una bella diciottenne sarebbe morta in circostanze a dir poco tragiche.
EUGENIA TODARELLO
Si chiamava Eugenia Todarello, era nata a Pardesca di Bianco il 24 settembre 1889 da Francesco Todarello e Mariangela Mesiti, onesti contadini alle prese con i duri lavori della terra.
Quella infausta mattina d’agosto, i suoi genitori stavano nei campi a lavorare, i fratelli più piccoli giocavano, Eugenia, invece, con in testa un recipiente di coccio (bumbuleglia) era quasi giunta presso una sorgente non lontana dalla fiumara La Verde per fare rifornimento d’acqua.
Ma qualcuno, poco prima della sorgente, cercò di violentarla e , vistosi energicamente rifiutato, la uccise a bastonate.
Nessuno pagò per l’orrendo crimine, un signorotto del posto fu semplicemente interrogato senza conseguenze giudiziarie. Alcuni pastori che pascolavano i loro greggi nelle vicinanze del bosco dissero, forse mentendo, di non avere assistito all’accaduto.
Eugenia fu consegnata alla nuda terra del neo-nato cimitero di Pardesca di Bianco.
Lo sgomento fu grande. L’omicida non solo aveva privato della vita la giovane e bella Eugenia, ma ne aveva anche deturpato il corpo. Le sue parti intime furono infatti riempite di pietre, un gesto di folle rabbia e disprezzo verso chi si era giustamente opposta alla violenza dei suoi aguzzini.
Sulla vallata cadde un silenzio collettivo, la paura ebbe il sopravvento, anche l’ ”Onorata Società” rimase indifferente di fronte alla vita e all’“onore” violati; segno, questo, ch’era al soldo dei potenti di turno. Ieri come oggi.
DON DOMENICO BATTAGLIA
Ma non tutti stettero zitti, Don Domenico Battaglia, arciprete di Caraffa del Bianco, poco tempo dopo, nel corso di messa domenicale, eseguì il rito della “Squagghjata” (della scomunica), ovvero il rito della candela (che si “squagghjia”, si scioglie) con il quale il sacerdote emise scomunica nei confronti dell’assassino (o degli assassini?) di Eugenia e di quanti, pur avendo assistito ai fatti, avevano taciuto. Era stato il vescovo di Locri-Gerace (Giorgio Delrio † (6 dicembre 1906 - 16 dicembre 1920) a disporre che in tutte le parrocchie fossero accese le candele della scomunica. L’evento delittuoso era stato troppo grave per non prendere provvedimenti così decisi.
MARGHERITA DI SAVOIA
La Regina Margherita, prima regina d’Italia come consorte di Umberto I di Savoia, appurato il terribile delitto invio una lapide-ricordo ai genitori di Eugenia (da sistemare sulla sua tomba).
Presso la pretura di Bianco- come anticipato- furono chiamati a testimoniare, oltre al signorotto che aveva più volte importunato – ma senza esito- la giovane, e che per questo fu il principale sospettato, alcuni pastori e contadini che quel 18 agosto faticavano in zona.
Nessuno vide, nesuno diede prova di coraggio.
E’ certo, infatti, che un delitto così barbaro non poteva passare inosservato.
MARIO LA CAVA
Mario La Cava, scrittore (Bovalino-1908/1988), indagò sulla morte di Eugenia allo scopo di scriverne un romanzo. Ma la cosa non andò in porto. Forse, stante l’omertà, non ricavò le notizie necessarie per un lavoro letterario a sfondo realistico.
I sospetti sul signorotto erano sorti per le sue pregresse molestie nei confronti della giovane ed anche perché era solito approfittare di tutte quelle povere donne che non erano in grado di opporsi alla sua cupidigia.
In punto di morte, lo stesso consegnò al prete ch’era andato a confessarlo una dichiarazione
scritta dove affermava di essere totalmente estraneo al delitto, e che ciò doveva essere reso pubblico nel corso del suo funerale. Il suo desiderio fu esaudito da Don Antonino Pelle (priore del santuario di Polsi), officiante incaricato.
Ma vox populi, però, era convinta della sua colpevolezza, tanto che, specie gli anziani, ripetevano sconcertati che manco in punto di morte il truce signorotto s’era deciso a confessare i suoi misfatti.
Una cosa però è ipotizzabile: per via del ruolo sociale rivestito, egli non poteva non sapere com’erano andati i fatti (nutro il sospetto, stante le modalità del delitto, che a parteciparvi siano state più persone ). Restano però da considerare altri aspetti. Perché tanta ferocia? Quali i veri motivi di tale sfregio? E se si fosse trattato di un gesto intenzionale stabilito a suo tempo a tavolino? E se si, da chi? e per quali motivi? Profanare post-mortem un corpo già martoriato, insistendo sulle parti intimi a mo’ di totale infamia, come a voler celebrare il pieno possesso di un corpo considerato privo di valore, in assenza di qualsiasi pietas cristiana, può far pensare che la morte della giovane Eugenia sia stato un evento iniziatico?, il progetto insano di un neo-gruppo che ha deciso di sacrificare la giovane sull’altare di chissà quale insano rito? Per intanto, sarebbe stato giusto dedicare alla memoria di Eugenia Todarello almeno una via, come pure una santa messa ogni 18 agosto, giorno della sua morte violenta. Successivamente, la chiesa- accertati fatti e conseguente documentazione- potrebbe avviare le procedure per la sua beatificazione. Ciò per dare memoria eterna ad una giovane innocente che pagò con la vita l’arroganza del Potere. ll compito- a chi di dovere- di provvedere in merito.
lieta recava al petto un trovatello
preso là nel buglione, ove s’insacca
dal matrimonio e dallo stupro a gara,
o legittima o no, l’umana carne.
Oh benedetta, miseri innocenti,
la pubblica pietà che vi ricovra
nudi, piangenti, abbandonati! A voi
il casto grembo della cara madre
e del tetto paterno il santo asilo
che dà l’essere intero, e dolcemente
l’animo leva a dignità di vita,
error, vergogna, delitto e miseria
chiude per sempre! Crescerete soli,
soli all’affetto e malsecuri in terra;
al disamor di genitori ignoti,
come la pianta che non ha radice,
maledicendo!
(Giuseppe Giusti, Gita da Firenze a
Montecatini, 18 ottobre 1846