di Vincenzo Stranieri
Quanti cercano di capire i motivi
di fondo che portarono alla cosiddetta Unità d’Italia (17 marzo 1861) è doveroso che lo facciano con rigore e competenza spogliandosi da pregiudizi ed analisi
sommarie. Chi pensa che il Sud d’Italia sia stato annesso con l’inganno e la violenza non deve essere
etichettato come “ neo-borbonico”, viceversa quanti chiudono gli occhi (spesso per ignoranza,
cinismo e/o per mero interesse di
bottega) devono comprendere che la ricerca della verità vera non porta
necessariamente ad una volontà (infantile quanto storicamente inattuabile)
disgregatrice della Nazione. Indietro non si può tornare, è vero quanto
opportuno, ma esigere la verità, denunciare le carneficine perpetrate dai bersaglieri
piemontesi vuole significare – tra
l’altro- quanto sia giusto e moralmente
doveroso dare “degna sepoltura” ai tanti,
troppi, morti innocenti di una processo risorgimentale che ha
considerato le loro vite inutili quanto “politicamente” dannose. E se
non fosse che stiamo parlando di cose altamente serie, verrebbe da canticchiare
a mo’ di provocazione la simpatica canzone di Caterina Caselli ( Nessuno mi può
giudicare,…la verità vi fa male, lo so. Tornando a noi, dal lavoro di alcuni
storici non patentati ( per questo, forse, più attendibili), ho appurato, con
poco sgomento, che alcuni comuni della
nostra Vallata la Verde- in particolar modo
quelli di Caraffa, S. Agata, Casignana e
Bianco- sono stati investiti dalla violenza gratuita delle truppe savoiarde. Le
cose andarono come segue.
Uno dei briganti che nella
Locride giurò fedeltà a Francesco II (ultimo re dei Borbone a Napoli) e che
all’occorrenza ebbe aiuti dai comitati legittimisti, e sostegno dai numerosi
soldati e sottoufficiali borbonici sbandati, fu Ferdinando Mittica che, con la
sua banda, si era sistemato nelle vicinanze di Platì.
Egli, una mattina del mese di
agosto (si era nel 1861), scese dall’Aspromonte con un buon seguito di
giannizzeri armati di schioppo, e si presentò in Chiesa a S. Agata, mentre
l’arciprete Tedesco alzava verso il cielo l’ostia consacrata che, essendosi
questo spaventato, per poco non gli cadde di mano Sul campanile della chiesa fu
issato lo stendardo di Francesco II e Giuseppe Franco (figlio del Barone
don Amato, e fedele borbonico) fu proclamato sindaco al posto di
Francesco Rossi che era un savoiardo, cosicché la festa finì a tarallucci e
vino senza colpo ferire e i briganti tornarono ai monti.( DIENI G., Dove
nacque Pitagora, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1974, pp. 263-264).
Nei centri di arruolamento
borbonici, aperti a Roma e in altre città degli Stati Pontifici, gli ufficiali
stranieri: spagnoli, francesi, bavaresi, austriaci, piombarono a frotte. Il più
noto di questi fu senza dubbio Jose Bories, il quale in vista di una prossima
missione militare in Calabria fu nominato da Francesco II maresciallo di campo
Bories parte da Marsiglia e punta su Malta con una ventina di compagni,
ufficiali spagnoli, francesi, siciliani, napoletani, e da qui con un trabiccolo
parte per la Calabria dove il 13
settembre sbarca sulla costa ionica, nei pressi Brancaleone. Il suo intento era
di raggiungere al più presto Platì per
unirsi a Mittica. Passa sotto Caraffa. Quando arrivano in contrada “Petrusa”,
dalla prominenza del rione Pizzo partono contro di loro alcuni colpi di fucil,
a cui essi rispondono.
Convento dei Riformati di Crocefisso, fondato nell’anno 1622.
(Francesco Misitano, 1964).
Al Convento del Crocefisso di
Bianco, qualche chilometro più avanti, gli spagnoli (così furono chiamati dagli
abitanti della zona i membri di quel corpo di spedizione) sono accolti e
rifocillati dai monaci. Quel convento era storico. Il principe Carafa in
persona, affacciandosi alla finestra, si ben ignava ogni anno di ordinare “il cominciamento della Fera” e ivi
viveva e pregava Padre Bonaventura da Casignana (al secolo Giuseppe Nicita,
Casignana, 1880-1860), “religioso di
santa vita”, e confessore della Beata Regina Maria Cristina di Spagna la
quale, tra l’altro, gli aveva anche scritto: “ alle 2 il dopo pranzo, Dio mi
concesse un parto felicissimo dando alla luce una bambina”. Sempre in detto
convento, vent’anni prima, il viaggiatore inglese Edward Lear si era dissetato
in un pomeriggio caldo d’agosto. “Un
pozzo d’acqua pura”, scrisse, “ e un
secchio di ferro incatenato che ricorderò per tutta la vita. ( INCORPORA G., Lupa di mare, Age, Ardore
Marina, 1997, p.36).
“ Da qui il drappello si avvia
verso Platì. “Bories e i suoi
compagni saranno poi, l’8 dicembre 1861, intercettati a Tagliacozzo
dalle truppe italiane (carabinieri, guardia nazionale, bersaglieri) e fucilati
alle 4 del pomeriggio dello stesso
giorno. Per S.Agata e Caraffa incomincia
ora la tragedia: il generale savoiardo De Gori
sbarca il 20 di settembre con forze
ragguardevoli a Bianco per una spedizione punitiva e affida la missione al maggiore Rossi, cugino
del Sindaco spodestato di S.Agata. “Si
cercano tutti i coloni che furono creduti manutengoli dei briganti o ligi alla
cospirazione”. A S.Agata il 25 settembre
1861 cadono sotto il piombo dei bersaglieri presso le Pietre di S. Rocco, site
davanti al palazzo baronale: Don Giuseppe Franco, di anni 33, figlio del barone
e della nobildonna Marianna Scoppa; Francesco Carneli , di anni 22, bracciante;
Francesco Priolo, di anni 50, domestico dei Franco, nato a Reggio; Giuseppe
Spanò, di anni 39, mulattiere; Vincenzo Zangari, di anni 36, campagnolo. Altri
mezzadri e coloni dei Franco furono fustigati con un nerbo bagnato allo stesso
posto vicino ai caduti con l’imposizione di gridare ad ogni nerbata: Viva
Vittorio Emanuele! Via l’Italia! Abbasso i Borboni! Morte a Mittica”. ( MISITANO
F.SCO., Il sacerdote Vincenzo
Tedesco, in “Calabria Sconosciuta”, n. 77, pp.79).
A tal proposito “Francesco
Sicari, fittavolo dei Franco, dopo le nerbate ricevute, avviandosi verso casa
“zoppicando e contorcendosi, si lamentava: “O
gnura Mariantonia lapriti a porta e lavatimi prestu cu sali ed acitu, ca sugnu
tuttu na caja. Viva Vittoriu e Manueli! Viva u generali Di Gori!, Morti a Mittica!
Morìu compari Vicenzu e Peppi Spanò, attri ammazzanu! Tutti ndi mmazzanu…Viva
Vittoriu, Viva Di Gori” .( DIENI G., op.cit.. 267).
De Gori era il generale che aveva
ordinato il massacro e le fustigazioni!. Giovanni Franco, fratello di Giuseppe,
si salvò perché, cucito dentro un materasso ch’era indirizzato ad un cardinale,
fu spedito a Roma a bordo della nave “Pagliata”, ormeggiata in prossimità di
Bianco. L’abate don Antonio Franco, un sacerdote della famiglia baronale di S.
Agata, fu catturato a Bianco e fucilato nei pressi del Convento del Crocefisso.
Questi fu incendiato. I monaci però avevano già abbandonato il convento e
s’erano rifugiati: padre Bernardino a Casignana, padre Giacomo ed il
ventinovenne padre Francesco Battaglia a Caraffa. Un quarto monaco (forse il
superiore del convento) fu raggiunto dai bersaglieri in contrada “Gnura Elena” del Comune di Caraffa ed
abbattuto a colpi di fucile. Padre Francesco Battaglia fu poi arrestato nel suo
nascondiglio di Caraffa, dove viveva la sua famiglia, e liquidato lo stesso 25
settembre dietro l’abside della chiesa parrocchiale. Nello stesso giorno fu
fucilato nei pressi della chiesetta della “Madonna delle Grazie” Antonio
Zappia, di anni 36, nativo di S. Agata, figlio di Vincenzo e di Elisabetta
Mesiti e marito di Agata Sicari. Era stato prelevato nel suo fondo in contrada
“Cannavia” del comune di S. Agata. La voce popolare narra di un altro fucilato
dietro l’abside della chiesa parrocchiale di Caraffa. Si tratterebbe di un
tale, professione tintore, forse un parente di padre Francesco Battaglia, che
anche apparteneva ad una famiglia di tintori. Purtroppo di questa esecuzione
non si trova traccia né nei registri dello stato civile né in quelli della parrocchia di Caraffa.
Giovanni Battaglia, fratello di Francesco, per sfuggire alla cattura, in quanto
anche lui ricercato, si dovette nascondere per lungo tempo in una stalla di
maiali (hurnegliu di porci). Quando
gli spagnoli di Josè Bories passarono, si trovava con loro un giovane
caraffese, denominato “Carzi Randi”
(Pantaloni Grandi), che li aiutava trasportando per loro una cassetta. Un altro
giovane di Caraffa, di nome Giovanni Alafaci, si avvicinò al compaesano per
dirgli di cedergli la cassetta, per un cambio nel trasporto, che lui alla prima
svolta se la sarebbe svignata col carico, del quale poi gli avrebbe dato la
metà. “Carzi Randi” però non cedette
alle lusinghe e Giovanni Alafaci, dopo qualche centinaio di metri , si staccò
dal gruppo. Il 25 settembre, giorno del massacro dei filoborbonici da parte dei
piemontesi, Giovanni Alafaci fu accusato, per quei pochi passi fatti con gli
spagnoli, di collaborazionismo insieme a
“Carzi Randi” ed iscritto nella lista degli
eliminandi per fucilazione. Entrambi dovettero cercarsi un nascondiglio
ed ivi starsene bene accovacciati fino a quando, qualche mese più tardi, le
esecuzioni capitali furono sospese”. ( MISITANO
F.SCO, op.cit., pp.79-80).
Ma il ritorno dei Borboni era un
sogno effimero, impossibile da realizzare, troppo le cose mutate, troppo forti
ed organizzate le truppe sabaude.
Dalle montagne di Gerace il 19
settembre (1861) venne spedito un dispaccio a cura del deputato Agostino
Plutino, comandante mobile di Reggio, col quale si comunicava l’avvenuto
sbaragliamento della comitiva Mittica e
degli spagnoli, inseguita verso il territorio di Monteleone dal De Gori e dallo
stesso Plutino. Il Mittica veniva braccato come una belva sanguinaria. Questi,
contro una mobilitazione così grossa, aveva poche speranze di uscire vivo. Al
brigante fu teso un agguato sulle montagne di Platì dal capitano delle milizie
di quel Comune, Ferrari, assieme a sette guardie nazionali. Mittica morì alla
prima scarica con il compagno Loseri. Decapitate, le teste furono portate sulle
baionette a Gerace dove il Generale De Gori, che lì aveva il quartier generale,
ordinò il seppellimento. Il Mittica venne tradito dai suoi stessi paesani
dietro compenso.
(CATALDO V, Cospirazioni,
Economia e Società nel Distretto di Gerace in provincia di Calabria Ultra Prima
dal 1847 all’Unità d’Italia, AGE,
Ardore Marina 2000 , p. 499.
Anche Borjes e compagni rimasero
vittime dell’illusione che avevano loro inculcato Ruffo e Clary, e saranno
fucilati con la stessa ferocia riservata al Mittica ed ai suoi pochi fedeli.
In ogni caso, la reazione
dell’esercito Regio, rappresentato nel nostro Distretto dal Generale De Gori,
fu esagerata e priva d’ogni umana pietà, sentimento, quest’ultimo, che dovrebbe
appartenere al cuore degli uomini in ogni tempo e situazione. La povera gente
aveva accolto il brigante Mittica per paura e ignoranza, non certo perché
approvasse le sue idee, c’era poco da approvare e da capire in quel frangente
storico. I piemontesi hanno commesso
eccidi con efferata rabbia e con l’esagerata certezza di essere nel giusto;
hanno ucciso a sangue freddo gente inerme nei pressi della casa di Dio; hanno
inseguito e trucidato persone che non avevano avuto alcun ruolo decisivo nella
scelta borbonica di riappropriarsi del Regno. E dunque l’impronta lasciata
nella terra di Calabria era stata quella del sangue e del terrore,
dell’istituzione forte che badava non ai morti innocenti ma alla cosiddetta
ragion di Stato ( sic!).