domenica 11 aprile 2021

GIOACCHINO CRIACO, L’ULTIMO DRAGO D’APROMONTE (Rizzoli, Milano, 2020)

 

Dopo il romanzo d'esordio “Anime nere” (Rubbettino, Soveria Mannelli 2008) in tanti si aspettavano una battuta d'arresto del giovane autore di Africo Nuovo, questo perché i pregiudizi viaggiano veloci e senza ritegno. Tuttavia Gioacchino Criaco non si è fatto intimorire dai ghigni sardonici di quanti giudicano senza leggere, animati da gelosie e rancori capaci di costruzioni malevoli col solo fine di togliere spazio e valore a un artista che, invece, con caparbietà e intelligenza continua a percorrere il solco della cultura nazionale e non (alcuni suoi romanzi sono tradotti all'estero). Detto questo, ho voglia di parlare del suo ultimo romanzo “L’ultimo drago d’Aspromonte”, Rizzoli, Milano 2020, adornato dalle pregevoli tavole/disegni di Vincenzo Filosa. L'ho letto a più riprese, mi è piaciuto da subito, quasi ad ogni pagina dicevo a me stesso che di strada ne aveva fatto lo scrittore di “Anime nere”, una strada senz’altro accidentata, perché la scrittura è capace di trabocchetti che possono sortire anche pesanti sconfitte. Egli, a mio modesto parere, sin dal suo esordio, si è posto un compito, non facile, ma che sta perseguendo con tenacia, ovvero delineare il vero volto umano-culturale del suo/nostro mondo nel tentativo di evidenziare non solo le ombre ma anche e soprattutto le luci. Lui stesso si porta addosso antiche stimmate, soffre ancora per le gravi contraddizioni che hanno animato per decenni le “anime nere” nascoste nei fitti boschi dell'amato Aspromonte, e tuttavia sembra dire loro in ogni suo scritto, che è necessario fermarsi, che la vita è breve e che bisogna assaporarne la parte migliore. Ma tornando alla struttura stilistica di questo suo ultimo romanzo, va subito detto che esso segna una maturazione rilevante rispetto al resto delle opere precedenti e questo perché Criaco ha saputo non ripetersi. Non mi aspettavo un romanzo così bello, non mi aspettavo una scrittura così robusta e al tempo stesso leggera, quasi eterea.
La figura del giovane trasferito quasi con forza in una comunità dell'Aspromonte per disintossicarsi dalla droga è solo un pretesto simbolico, una potente allegoria per portare alla luce le ansie dello scrittore, le sue interne lacerazioni culturali che trovano piena esplicazione in una necessaria sospensione spazio-temporale utile per portare alla luce le sue ferite interiori. E questo perché in questo generoso romanzo il protagonista è sempre Criaco, ogni personaggio lo rispecchia in pieno, gli ricorda vecchie questioni, ma non rancori, Non è tempo di rancori /vendette, Il giovane infatti, vivendo a stretto contatto con la natura e gli animali, sta, se pur lentamente, divenendo un strano eremita : beve molto vino, mangia senza mai saziarsi , parla con gli ortaggi del piccolo orto, ma è pur sempre inquieto e insoddisfatto e affida alla natura, appunto, la sua agognata risurrezione. Quest'ultima si è rivelata una marcia purificatoria per i boschi, e questo soprattutto di notte, allorquando il popolo dei boschi parla, sussurra, ricorda al giovane antiche profezie, sogni rimasti incompiuti. Un viaggio dentro le ombre notturne, i misteri che animano la sua giovane vita . Egli ha così modo di apprendere uno strano linguaggio: la parola appartiene anche alle piante, che nel mentre parlano invitano il giovane a compiere fino alla fine il suo cammino verso saperi antichi ma ancora capaci di forza e magia creativa. In queste pagine il romanzo cresce di vigore e progettualità (allegorie sospese tra sogno e magia), ci fa apprendere l'esistenza di un mondo divenuto luogo di fantasmi stanchi di nascondersi nei boschi di un monte aspro, solitario, sospeso tra vallate fiorenti e radure senza vita, prive di uomini e anche animali. Ma anche i rovi, i muri a secco, gli ovili dismessi nascondono tesori perduti, verità che non desiderano essere sotterrati nella nuda terra. E quindi il viaggio purificatorio del giovane (di Criaco) deve per forza avvenire nei boschi, dentro le terre arse dal sole dove un tempo i pastori portavano orgogliosamente al pascolo le loro greggi. Ed è un proprio un vecchio pastore (saggio e ricco di buon senso) che rivela al giovane la nascosta verità inerente il suo luogo d'origine, soprattutto le menzogne a lui taciute dai suoi familiari (da alcuni vecchi giornali custoditi dal vecchio il giovane scopre la natura criminale dei suoi, la loro appartenenza alla ndrangheta). “In questa montagna, ci sono solo peccatori” (pag.163), qui nascono e crescono peccati che vanno espiati. Pure il porco/sindaco è un animale corrotto, che cura i suoi interessi, che ingrassa quando non è tempo di uccidere i maiali e dimagrisce volutamente (lo si risparmia perché denutrito) proprio nel periodo in cui i maiali diventano carne per l'intera annata. Qui Criaco insiste con maestria sulla leva allegorica che sorregge l'intero romanzo; gli animali assomigliano alle persone, infatti…”mi mostrano il rifugio dei peccatori" (p.171). Il finale rimanda a: 1) Lo scrittore fa ritorno alle origini, quelle vere, le stesse che ancora custodiscono le forme, la memoria antropologica di quanti dalla montagna sono stati deportati verso il mare. E la fama di questo popolo, alimentata da pregiudizi e faciloneria, ha prodotto nelle anime sensibili volontà di riscatto e profondo desiderio di costruirsi altro rispetto ai facili luoghi comuni; 2) Il drago che dà il titolo al romanzo, e che generalmente rappresenta le forme magiche, ancestrali che regolano la vita e i profondi misteri dell'Universo, nell’opera diviene sia fustigatore (specie a livello onirico) dei peccati commessi da quanti avidamente hanno remato verso approdi sbagliati, sia fedele custode delle fattezze antiche, primordiali, di un Aspromonte che non vuole essere invaso da quanti non ne comprendono la storia e la bellezza. Utopia? Sterile sogno? Non credo, il romanzo di Criaco è quanto mai realistico: metafore e allegorie sottendono sempre e comunque alla necessità di proteggere e valorizzare antropologicamente ciò che in apparenza appare perduto, sollecitano un impegno verso un cammino non necessariamente assolutorio rispetto a responsabilità che da individuali sono divenute quasi collettive. E’ il sogno, questo sì, di una rinascita che sempre e comunque celebri senza retorica le fattezze culturali e storiche del mitico Aspromonte. Ciò non rappresenta un limite, non circoscrive l’opera in un preciso ambito geografico, perché in ogni luogo della terra vi è un Aspromonte da conoscere, interrogare e, soprattutto, da proteggere.

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mercoledì 17 marzo 2021

Il seme nelle terre perse, di Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016

 


 

Prendo con un certo ritardo i miei appunti su un saggio dal titolo suggestivo: Il seme nelle terre perse, di Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016, motivi contingenti non mi hanno consentito di scrivere prima su questo bel testo che contiene diversi saggi di natura variegata che hanno come unico baricentro la semina culturale (mi si passi la metafora) che in ogni lembo di terra potrebbe, se è vera e viva la decisione di seminare, attecchire in un qualsiasi terreno incolto. Italiano si è costruito un particolare linguaggio: letterario quanto basta, chiaro e puntiglioso, perché lui tiene alla comunicazione priva di fraintendimenti. E in questo egli è proprio bravo, mai s’inerpica su pericolosi dirupi semantici perché lui è persona mite e priva di retro pensieri. Detto questo, la miscellanea dei suoi scritti offre-tra ‘altro- un inedito spaccato del teatro di Mario La Cava- a esempio- la cui struttura scenica e prosastica aveva tanto impressionato Leonardo Sciascia; per poi ricordarci che anche un Gramsci ha potuto sbagliare allorquando ha sminuito in modo grossolano e violento il romanzo Emigranti di Francesco Perri. Italiano mantiene una buona amicizia con Matteo Collura, cugino di Leonardo Sciascia, e al quale ha dedicato un prezioso volume. Collura è venuto a Bovalino più volte per la presentazione di alcuni suoi saggi, e del nostro lembo di terra è rimasto impressionato positivamente. Italiano parlando di Collura in realtà parla anche di Leonardo Sciascia, indomabile “moralista” troppo presto venuto a mancare. Non sono assenti le note di cronaca, naturalmente, ma queste vanno giustamente affidate al lettori, che invito a leggere questo bel saggio intriso di valori morali senza tempo.

martedì 16 marzo 2021

“Brevi finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020

 

“Brevi finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020, è una sorta di taccuino contenente note che poco insistono su vicende di mera quotidianità, tantomeno l'autore registra pensieri staccati da valutazioni storico-politiche attualmente in auge. Egli s'impegna – tra l’altro - a decifrare i motivi di fondo che hanno contribuito a impantanare il dibattito socio-antropologico a livello globale.  E lo fa osservando con dovizia di particolari le contraddizioni della società attuale, ma nel farlo non usa alcun nerbo, il suo linguaggio è apparentemente calmo e mai scontroso, infatti, Pare di sentire una voce volutamente flebile,  mai volgare, con parole che disegnano la realtà interna/esterna senza mai scivolare in beceri luoghi comuni, mantenendo sempre oggettività e senso  delle proporzioni. Anche l'ironia di alcune note è saggia e mai invasiva. E’ un linguaggio- come dicevo- che differisce molto dalle sue precedenti opere narrative e di viaggio, a dimostrazione della progressiva maturazione semantica. In questo testo di appunti, infatti, Talia mantiene un contegno linguistico straordinariamente unitario. Non voglio riassumere il testo, non è questo che interessa il lettore, ma non posso non ribadire che l'autore ha saputo con eleganza e maestria descrivere con estrema incisività la sua attuale visione del mondo, che, a ben vedere, va di molto oltre strette e BREVI FINESTRE.

  “Questo ci indica che in futuro di fronte a scenari inediti dovremo essere capaci di esprimere forme originali di pensiero e di conoscenza e definire nuovi e più sofisticati linguaggi che ci permettano di esprimerli”.(pag.87)

 

mercoledì 10 marzo 2021

AMO LE DONNE


Perché amo a dismisura l'altra metà del cielo? Forse per le figure femminili che hanno animato la mia bella infanzia (mamma, nonne e tante zie e vicine di casa), ma non solo. La Vallata La Verde in cui mi ostino a vivere ha consentito anche alle generazioni precedenti alla mia di studiare a Locri e a Siderno. E le belle ragazze dai neri grembiuli erano tante, sorridenti, felici di acculturarsi. Per noi maschi era un fatto normale, come pure normale era cercare di conquistare un loro sorriso, uno sguardo donato come pegno di un'età straordinariamente densa di luce vera. Ci salutiamo con affetto ancora oggi. Amo le donne e non comprendo dove stia la loro inferiorità. Vorrei ricordarmi e ricordarvi una frase che conservo gelosamente nella mia agenda "segreta", un pensiero profondo del grandissimo Corrado Alvaro.
SCAVARSI LA FORMA NELLA DONNA CHE SI E' SCELTA, CERCARE COME IN UN MONDO (Quasi una vita, p.146).




domenica 7 marzo 2021

MICHELE PAPALIA, SULL’ONORE NOSTRO, CITTÀ DEL SOLE, RC, 2020

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Dopo aver letto e apprezzato il breve prologo del primo capitolo (immagini incisive anche sul piano poetico) ho pensato che il resto del romanzo avrebbe avuto un suo celere seguito seguendo i canoni classici del romanzo: azione e caratteristiche peculiari dei protagonisti, trama e ambiente geografico umano d’azione; ma poi ho notato che altre sedici brevi introduzioni facevano capolino a ogni cap. e, conseguentemente, mi sono convinto che era meglio leggere il testo di Michele Papalia non come un romanzo tout court bensì come il frutto di diciassette testi narrativi brevi (da notare che il pregiudizio iettatorio riferito al numero 17 non trova riscontro da parte dell’autore) che, se uniti, potevano ugualmente reggere l’impalcatura romanzata. E questo perché ogni breve racconto, nonostante le similitudini dei protagonisti, è autonomo, non ha bisogno d particolari allegorie, tantomeno di evidenti spazi geografici. Nei paesi di un’Italia ricca di piccoli, medi e grandi paesi stanno scomparendo i personaggi tipici, rappresentativi dell’antropologia profonda dei luoghi che, invece, nell’opera di Papalia rappresentano l’ossatura più sostanziosa, sintetizzano storie e memorie di un mondo che, purtroppo, non ha retto alla forza violenta dei tempi mutati. Le fantasie amorose e di rivalsa sociale (priva di esiti positivi) di Don Ciccio o Poeta che desidera la bella Cata, “ I capelli color carbone (che) lambivano le punte dei seni”. Ma è proprio quando la prospettiva della lettura muta, quando si decide di unire i componenti di questa collana antropologica dedicata a un piccolo paese aspromontano che la storia prende un’altra piega e i brevi incipit ai capitoli non hanno più la forza di rimanere autonomi all’interno dell’intero tessuto narrativo. In fondo non è bello creare sofferenza, penetrare nelle profondità del mondo in cui si vive, narrarne la storia, evidenziarne soprattutto le sconfitte. Prepotenze, le stesse che, forse, hanno alimentato il seme maligno dell’Onorata Società, che rappresenta la nascita e lo sviluppo di violenze altrettanto feroci se comparabili alle ingiustizie perpetrate dai Potenti di turno ( Il Cigno e Giosafatto, aristocratici avidi e senza scrupoli). Alla fine non vince nessuno, le sorti di questo isolato paese dell’estremo Sud non interessano ai più , o meglio, andando avanti nel tempo, esso, suo malgrado, viene a tutt’oggi additato come brutto e cattivo, fornace viva della criminalità organizzata. Per finire, va dato merito a Michele Papalia del suo profondo atto d’amore verso la sua Platì, dove e nato e dove ha deciso di viverci, e questo, si badi bene, in una realtà antropologica sì romanzata, ma dove il blocco spazio-tempo vissuto dai personaggi sembra ancora imperare sulla realtà attuale. Un microcosmo avvolto in una cornice di luci inquietanti che vuole ricordare a tutto a tutti che senza lotta non si vince, che maledire il fato vuol dire sprofondare ancor più nel ventre sterile del vittimismo.
Pieno merito a questo giovane autore, testimone mai passivo del suo mondo d’origine, proteso , all’occorrenza, verso più vasti orizzonti.

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sabato 6 marzo 2021

Alessandro Sallusti intervista Luca Palamara IL SISTEMA (Potere, politica affari: (storia segreta della magistratura italiana), Rizzoli ed. Milano 2021

Intitolare un romanzo non è cosa semplice. Deve essere soprattutto tematico, pena facili depistamenti. Mettiamo di voler intitolare un “nostro” romanzo IL SISTEMA, conseguentemente dobbiamo stare attenti a non creare equivoci con i Sistemi che imperano dalla notte dei tempi, e che sempre e comunque si coniugano con il Potere cui appartengono quanti impongono le proprie ideologie su noi comuni mortali. Oltre al titolo, il romanzo abbisogna di una bella trama: accattivante, verosimile, e con in serbo qualche vellutata storia d’amore. Detto questo in soldoni, il discorso sarebbe lungo e faticoso, ho da dirvi che per leggere SISTEMA (Sallusti intervista Palamara) ho dovuto pensare all’intervista non come a un’operazione normale di inchiesta giornalistica. No. per poterla leggere fino in fondo, l’ho dovuta pensare come si fa per un romanzo: periodo storico, protagonisti, tessitura, trama, esito finale. Ma non pensiate che la cosa riesca facilmente. Spesso si ha l’impressione di venire a conoscenza di fatti non più inverosimili, inventati da chissà quale fervida fantasia. No. Palamara, è vero, è un regista abile del SISTEMA. Ma non è il solo, purtroppo. Nella piramide del potere inerente la magistratura italiana egli è forse il più coriaceo, il più accreditato presso le procure compiacenti. ma vi sono altri numerosi colleghi che lavorano sottotraccia per il Sistema.

Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora? Solo in parte. Da anni la magistratura mostra crepe al suo interno, fibrillazioni non sempre sopite. Si capisce bene dalle confidenze di Palamara a Sallusti, s’intuisce che il SISTEMA traballa allorquando gli interessi non collimano con gli obiettivi primari degli organismi interni. Tutti aspirano a qualcosa, nessuno vuole recedere, crescono così colpi bassi difficili da archiviare, accuse pesanti da proferire senza alcun ritegno. Crescono pure i Dossier, informazioni segrete da carpire anche con l’inganno e da utilizzare nei momenti opportuni. Il magistrato X ambisce, magari legittimamente, a essere promosso Procuratore Capo di una città a lui gradita, ma deve rinunciarvi perché, stranamente, viene resa pubblica una sua disavventura, chiamiamola così, verificatasi in passato e che ora assurge a colpa indifendibile. Tranello dopo tranello, sgambetto malevolo dopo sgambetto.

Palamara usa un proverbio azzeccato per mostrare le basi un tempo cementificate del SISTEMA giustizia, ovvero che CANE NON MANGIA CANE. E invece i morsi sono in aumento, fanno male, logorano i rapporti storici, inficiano le regole interne al SISTEMA Il nepotismo  non conosce distinzione di classe,  un po’ tutti, all’occorrenza, attingono alla mammella materna. Non sempre è un fatto immorale, si può essere bravi figliuoli pur in presenza di genitori ingombranti, ben inseriti in ambiti sociali altolocati. Tuttavia è più facile ritrovarsi contadini quando si proviene da famiglie dedite da lunghe stagioni all’aratura dei campi. E quindi il cosiddetto  ASCENSORE SOCIALE , strumento  per scalare  le irte montagne  che conducono a posti di prestigio, ha una sua peculiare funzione, difficilmente dà spazio e trasporto a quanti non orbitano negli alvei riconosciuti degli eletti, che hanno conosciuto SOLO vizi e bambagia.  E’ vero non bisogna generalizzare, non sempre i figli  prendono il posto dei padri, ma pochi s’oppongono  al SISTEMA che sorregge certi ambienti legati al POTERE  di turno. Che anche in Magistratura l’ascensore sociale funzioni senza particolari intoppi è fatto ormai accertato. E questo non necessariamente tra parenti prossimi. E visto che stiamo parlando di Luca Palamara, figlio di magistrato, il quale ha dovuto per forza di cose “vomitare” il malaffare esistente nel suo mondo  lavorativo, non risulta giusto giudicare  il mondo della magistratura come un corpo compatto inserito nel SISTEMA. Lo assicura lo stesso Palamara, che i buoni magistrati ci sono e che lavorano con dedizione e onestà professionale. Non mi è antipatico Palamara perché alla resa dei conti, e non solo per difendersi dalle conseguenze, ha ammesso cose che altrimenti sarebbe rimaste sepolte nell’omertà e quindi nell’oblìo. Spero tanto che un bel po’ di magistratura si pensioni, che vada a casa, ha già avuto troppo e senza pagare nulla in cambio. Spero tanto nei giovani magistrati da poco entrati in funzione, e che forse sapranno  stare lontano da qualsiasi SISTEMA di potere, inaugurando così stagioni nuove e positive e questo in nome di Falcone, Borsellino e tutti gli onesti rappresentanti dello Stato (a tutti i livelli) che hanno lottato per darci  un mondo ricco di ideali che tutti noi siamo chiamati a  custodire con estremo pudore.

 


giovedì 17 dicembre 2020

IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI

 IL LINGUAGGIO VERISTA DI SAVERIO STRATI

Terza intervista di Leopoldo Ardino a Enzo Stranieri*
Buongiorno Prof., siamo giunti alla nostra terza intervista. So che lei conosce profondamente l’opera di Saverio Strati. Pertanto, sono curioso di sentirmi dire delle cose nuove, non le solite rimasticature rintracciabili in una qualsiasi antologia scolastica e non.. Cominciamo.
D:; J. Conrad scrive nel 1897 al suo amico Robert Bontin Cunninghame Graham: «Si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore».
R.: Come lettore di Saverio Strati, lo sono a partire dagli anni’70, devo confessarvi che in più d’una occasione interrompevo la lettura dei suoi libri per cercare di capire i motivi di fondo che stavano dietro la sua scrittura, in particolare riflettevo sulla sua complessa formazione letteraria. Ho sempre immaginato l’ambiente creativo di un artista come un laboratorio denso di alambicchi utilizzati per distillare -diciamo così- i nobili processi di quanti impegnati nella creazione delle diverse forme d’arte.
D. ; Ma quale laboratorio immaginare per Saverio Strati? Quali e quanti sono stati gli alambicchi del suo studio creativo?
R.; Va da sé che per scrivere bisogna possedere i rudimenti della propria lingua. Nel caso di Strati era vitale saper pensare e scrivere in lingua italiana. Sembrerebbe un’ impresa ardua, stante ch’era stato obbligato dalla famiglia a lasciare gli studi dopo il conseguimento della quinta elementare. Difatti, fino ai 21 anni conosce solo il dialetto, non sa, non può pensare in italiano. Pertanto, non è difficile immaginarlo sfiduciato di fronte alla pagina bianca, ancora immerso negli studi allo scopo di recuperare quello che per decenni gli era stato tolto in termini di conoscenza. La sua frustrazione è grande, perché nel suo animo, seppure a livello embrionale, sta crescendo lo scrittore che narrerà con maestria e coraggio le gesta del popolo meridionale.
D.; Fa una certa impressione la capacità di Strati di contenere nella mente una nutrita galassia di personaggi utili alla sua letteratura verista.
R.; E’ vero, la sua mente diviene un importante quaderno di appunti, nel quale annota, memorizza i tratti salienti della sua esperienza di operaio che, poi, utilizzerà come materia fondante della sua narrativa. . “.. Per venticinque anni – scrive STRATI- non mi sono mai mosso dalla Calabria e fino a ventuno ho lavorato. Ho parlato il dialetto, sono stato SEMIANALFABETA come tutti perché allora si doveva badare soltanto a imparare il proprio mestiere: sono stato interamente coinvolto nel mondo ho vissuto in mezzo a operai, muratori , artigiani ne ho assorbito la cultura e la LINGUA…”
D.; Ma cosa ha significato parlare fino ai 21 anni la sola lingua dialettale?
R.; Di certo un grosso limite, perché qualsiasi lingua s’impara presto e meglio da piccoli. Ma al nostro futuro scrittore non è stato consentito questo privilegio. Tuttavia , nonostante i limiti linguistici, nel suo cuore ardeva il fuoco della conoscenza. “ A giorni, come egli confida in sua breve biografia-, lo ricordo bene, ero veramente contento del lavoro che compivo (muratore), ma la mia passione segreta era di leggere, di studiare. Quando mi capitava qualche libro (anche i libri erano rarissimi nel recente passato in un ambiente contadino tagliato fuori dalla vita nazionale), lo leggevo con grande passione. Infatti lessi le opere della cosiddetta cultura popolare: Il Guerrino detto il Meschino; I paladini di Francia, I Reali di Francia, il Quo Vadis, I romanzi di A. Dumas, I miserabili di Hugo, che per noi lavoratori era il libro dei libri,, perché ricco di idee, di stimoli, di giustizia “sociale”.
D.; E comunque la fatica di STRATI per conquistare la lingua italiana è stato uno sforzo intellettuale denso di grandi sacrifici.
R.; Scrive lo stesso scrittore. “…se amavo proprio studiare, potevo diplomarmi alle magistrali ed essere così, dopo cinque- sei anni, insegnante elementare, Ripresi, con grande gioia ed entusiasmo, la scuola interrotta a undici anni. Dovetti naturalmente partire da zero, dato che avevo dimenticato tutto; cioè non sapevo scrivere senza fare anche tre sbagli in una parola…”. Strati non è un POETA, non può esserlo, c’è poco di ROMANTICO, di bucolico nella sua esperienza di vita. Ma non traduce dal dialetto, che conosce molto bene; sarebbe stato un suicidio letterario tradurre il dialetto in lingua italiana: uno scimmiottamento inutile. Utilizza, questo sì, alcuni termini dialettali, ma solo in alcuni dialoghi dove trovano spazio invettive quasi sempre urlate (Il visionario e il ciabattino. Il Diavolaro, La Teda).
D.; Introduce, però, I PROVERBI, già presenti nell’opera di Verga.
R.; Vero, compito principale dei proverbi è lasciare tracce rilevanti del mondo che lo scrittore ha inteso difendere e rappresentare. .“La pietra che non sta ferma se la porta l’acqua”. (In Il pastore maledetto”, p. 248; “Vai con i migliori di te e fagli le spese”. (Dialogo tra contadini, in La Marchesina, p.156). “Quando il ricco vende e il povero compra, il diavolo ride”. (Dialogo tra contadini, in La Marchesina, p.156).Lo fa, come in parte anticipato, con oculatezza, li posiziona al posto giusto, specie quando le vicende narrate prendono pieghe rivelatrici del CARATTERE dei personaggi. Il saggio di turno proietta la sua immagine quasi sempre a fine dialogo, si materializza per dare conclusione a un rapporto dialettico espressosi in mimiche facciali, ghigni, sorrisi maliziosi, battute sardoniche che rivelano una profonda teatralità. I PROVERBI non solo come elemento letterario, quindi, ma anche e soprattutto come cultura di un popolo , testimoni di valori secolari. Difatti, a ben riflettere, il proverbio chiude, sigilla un dialogo, ne stabilisce la valenza finale. E questo perché l’antica saggezza popolare resiste al tempo, sfugge a qualsiasi classificazione di merito.
D.; Cosicché qual è il rapporto di STRATI E LA LINGUA?
R.; Strati sa che il suo popolo, le masse -volendo essere solo per un attimo gramsciani- non possiedono una loro precipua lingua. E che, purtroppo, nessun popolo è in grado di costruirsela da sola. E’ pura realtà storica quella narrata da Strati, che conosce dal di dentro, che conserva nell’animo come prezioso lascito testamentario. Personaggi che, uniti a particolari vicende del mondo contadino, hanno dato forma e sostanza alla sua arte creativa. Egli sa che un idioma provinciale non può aspirare a lingua nazionale. Pur tuttavia può trovare espressione in un linguaggio che non scada nei localismi e che compia un viaggio purificatore -diciamo così- per mezzo dell’azione culturale di un suo straordinario rappresentante, lo stesso che, fino a 21 anni, aveva sudato assieme a loro, impastando calce e costruendo case. E’ lui, SAVERIO STRATI, la lingua del suo popolo, non lascia che altri trasformino la sua terra in sterile folclore, in una volgare imitazione del dolore, in un’azione corale di lamento per le amare vicissitudini che hanno intrappolato la vita del popolo meridionale: sottomesso al potere di turno, pietrificato dalla fatica dinanzi a signorotti gonfi di un parassitismo umano-culturale ai limiti della stupidità più atavica, incapaci com’erano di apportare migliorie ai loro fondi. Piccoli feudatari senza testa, padroni per lascito, designatori passivi di antiche eredità.
D.; Una categoria sociale che il Nostro ben conosce.
R..; Vero, Strati li conosce bene, non lascia che nei suoi romanzi avanzino per più di un passo, li mostrerà, anzi, nel loro grigiore culturale, denunciandone l’avarizia mentale. Il calabrese vuole essere parlato, scrive Corrado Alvaro. E Strati, quasi a volere prendere in prestito la sua, di Alvaro, osservazione, fa si che nei suoi romanzi il linguaggio della sua Calabria abbia forme che gli consentano di comunicare a qualsiasi livello sociale, divenendo così - se tradotta- lingua universale. E questo perché le ha tolto di dosso l’antica patina della sofferenza priva di riscatto sociale. L’uomo stratiano ha imparato a lottare, non è più fermo nei suoi passi, comprende che solo per mezzo del lavoro può cambiare la propria condizione socio-economica. Va da se che per essere una lingua capace di penetrare nella realtà nazionale bisogna scrollarsi di dosso costrutti arcaici elementari, e anche CEDERE il giusto prezzo idiomatico alla lingua italiana, ma senza per questo perdere il proprio carattere di fondo, cercando, per quanto possibile, di riservare un minimo di ossigeno ai termini più caratteristici degli idiomi ereditati dai diversi popoli che hanno conquistato la nostra terra nei secoli passati.
D.: Cosa terribilmente difficile.
R.; Da una parte la lingua italiana appresa da Strati a tarda età, lingua letteraria completamente diversa dal suo antico dialetto. Ed è proprio in questo frangente che egli sfodera una bravura fino ad allora ritenuta improbabile. Scrivere utilizzando una lingua che non tradisca le origini, che sappia narrare il problema della sua miseria secolare, il dramma dell’emigrazione e tutto quello che ne consegue, appare un compito gigantesco. Strati non si considera uno scrittore neorealista, anzi. “…Avrei scritto come ho scritto anche se il Neorealismo non fosse mai esistito; mi sono limitato a trasformare la mia esperienza in conoscenza e la conoscenza in scrittura. Ma - e qui STRATI esagera un po’- all’interno del Neorealismo, invece, trovarono collocazione scrittori borghesi che si accostarono agli umili per puro populismo.”. Cosicché Il suo linguaggio dovrà essere, alla fine del suo processo purificatorio, più REALISTA DEL RE. E ciò in assenza di una qualsivoglia mielosa RETORICA, mille leghe lontano da forme di LIRISMO PIAGNONE, lo stesso che annovera ancora parecchi proseliti nella nostra terra, Conseguentemente, egli elabora un linguaggio semplice, asciutto, ma non per questo elementare. Usa spesso i verbi rafforzativi, costruisce intensi dialoghi dove i personaggi, all’occorrenza, sfoderano locuzioni brevi ma intense, spesso intrise di acredine antica. E’ la lingua, finalmente, di un popolo che dalle scorie di un passato senza gloria, trova nel suo mentore, ovvero Saverio Strati, la concreta speranza di non rimanere ancorato per sempre ai margini della storia.

Eccome, se serve una lingua!
* Cultore di Etnologia e Antropologia Culturale Presso Università della Calabria

giovedì 30 luglio 2020

I DON RODRIGO DELLA VALLATA LA VERDE

Il 18 agosto 1907 la giovane e bella contadina Eugenia Todarello di Pardesca di Bianco fu impunemente trucidata e violata nelle sue parti intime (riempite di pietre e terriccio).
I Don Rodrigo non conoscono alcun tipo di restrizione spazio-temporale, nel senso che la prepotenza dei più forti trova spazio e complicità in ogni epoca.
Oggi, purtroppo, si è giunti al “femminicidio” : le donne subiscono violenze mortali da parte di fidanzati, mariti ed ex, parenti, familiari stretti, etc, a dimostrazione che il mondo femminile è ancora considerato inferiore a quello maschile, e, pertanto, degno di qualsiasi brutalità.
Nel Sud, specie al tempo del dominio baronale (durato quasi cinquecento anni: dal XIV sec. a quasi metà del sec. XX), la donna subiva le neglette angherie maschili, soprattutto quando le veniva a mancare il marito. Lo stato di vedovanza la lasciava “non protetta” rispetto alle bramosie dei signorotti del luogo.
                       
 "Gazzetta del Mezzogiorno",  28 Agosto  1907 (Trafiletto  fornitomi da Mario Leone)
Ma non solo ai baroni interessava la carne, il possesso della “merce umana”.
Ad essi si aggiungeva una vasta schiera di proprietari, spesso rozzi e violenti, che possedevano i migliori terreni, e che perciò tiranneggiavano i contadini e i pastori.
Ma il 18 agosto del 1907, una giornata torrida più delle altre, nessuno poteva immaginare che nel cuore della Vallata la Verde (contrada Grazìa, comune di Bianconovo)), proprio ai margini dell’omonima fiumara, una bella diciottenne sarebbe morta in circostanze a dir poco tragiche.
EUGENIA TODARELLO
Si chiamava Eugenia Todarello, era nata a Pardesca di Bianco il 24 settembre 1889 da Francesco Todarello e Mariangela Mesiti, onesti contadini alle prese con i duri lavori della terra.
Quella infausta mattina d’agosto, i suoi genitori stavano nei campi a lavorare, i fratelli più piccoli giocavano, Eugenia, invece, con in testa un recipiente di coccio (bumbuleglia) era quasi giunta presso una sorgente non lontana dalla fiumara La Verde per fare rifornimento d’acqua.
Ma qualcuno, poco prima della sorgente, cercò di violentarla e , vistosi energicamente rifiutato, la uccise a bastonate.
Nessuno pagò per l’orrendo crimine, un signorotto del posto fu semplicemente interrogato senza conseguenze giudiziarie. Alcuni pastori che pascolavano i loro greggi nelle vicinanze del bosco dissero, forse mentendo, di non avere assistito all’accaduto.
Eugenia fu consegnata alla nuda terra del neo-nato cimitero di Pardesca di Bianco.
Lo sgomento fu grande. L’omicida non solo aveva privato della vita la giovane e bella Eugenia, ma ne aveva anche deturpato il corpo. Le sue parti intime furono infatti riempite di pietre, un gesto di folle rabbia e disprezzo verso chi si era giustamente opposta alla violenza dei suoi aguzzini.
Sulla vallata cadde un silenzio collettivo, la paura ebbe il sopravvento, anche l’ ”Onorata Società” rimase indifferente di fronte alla vita e all’“onore” violati; segno, questo, ch’era al soldo dei potenti di turno. Ieri come oggi.
DON DOMENICO BATTAGLIA
Ma non tutti stettero zitti, Don Domenico Battaglia, arciprete di Caraffa del Bianco, poco tempo dopo, nel corso di messa domenicale, eseguì il rito della “Squagghjata” (della scomunica), ovvero il rito della candela (che si “squagghjia”, si scioglie) con il quale il sacerdote emise scomunica nei confronti dell’assassino (o degli assassini?) di Eugenia e di quanti, pur avendo assistito ai fatti, avevano taciuto. Era stato il vescovo di Locri-Gerace (Giorgio Delrio † (6 dicembre 1906 - 16 dicembre 1920) a disporre che in tutte le parrocchie fossero accese le candele della scomunica. L’evento delittuoso era stato troppo grave per non prendere provvedimenti così decisi.
MARGHERITA DI SAVOIA
La Regina Margherita, prima regina d’Italia come consorte di Umberto I di Savoia, appurato il terribile delitto invio una lapide-ricordo ai genitori di Eugenia (da sistemare sulla sua tomba).
Presso la pretura di Bianco- come anticipato- furono chiamati a testimoniare, oltre al signorotto che aveva più volte importunato – ma senza esito- la giovane, e che per questo fu il principale sospettato, alcuni pastori e contadini che quel 18 agosto faticavano in zona.
Nessuno vide, nesuno diede prova di coraggio.
E’ certo, infatti, che un delitto così barbaro non poteva passare inosservato.
MARIO LA CAVA
Mario La Cava, scrittore (Bovalino-1908/1988), indagò sulla morte di Eugenia allo scopo di scriverne un romanzo. Ma la cosa non andò in porto. Forse, stante l’omertà, non ricavò le notizie necessarie per un lavoro letterario a sfondo realistico.
I sospetti sul signorotto erano sorti per le sue pregresse molestie nei confronti della giovane ed anche perché era solito approfittare di tutte quelle povere donne che non erano in grado di opporsi alla sua cupidigia.
In punto di morte, lo stesso consegnò al prete ch’era andato a confessarlo una dichiarazione
scritta dove affermava di essere totalmente estraneo al delitto, e che ciò doveva essere reso pubblico nel corso del suo funerale. Il suo desiderio fu esaudito da Don Antonino Pelle (priore del santuario di Polsi), officiante incaricato.
Ma vox populi, però, era convinta della sua colpevolezza, tanto che, specie gli anziani, ripetevano sconcertati che manco in punto di morte il truce signorotto s’era deciso a confessare i suoi misfatti.
Una cosa però è ipotizzabile: per via del ruolo sociale rivestito, egli non poteva non sapere com’erano andati i fatti (nutro il sospetto, stante le modalità del delitto, che a parteciparvi siano state più persone ). Restano però da considerare altri aspetti. Perché tanta ferocia? Quali i veri motivi di tale sfregio? E se si fosse trattato di un gesto intenzionale stabilito a suo tempo a tavolino? E se si, da chi? e per quali motivi? Profanare post-mortem un corpo già martoriato, insistendo sulle parti intimi a mo’ di totale infamia, come a voler celebrare il pieno possesso di un corpo considerato privo di valore, in assenza di qualsiasi pietas cristiana, può far pensare che la morte della giovane Eugenia sia stato un evento iniziatico?, il progetto insano di un neo-gruppo che ha deciso di sacrificare la giovane sull’altare di chissà quale insano rito? Per intanto, sarebbe stato giusto dedicare alla memoria di Eugenia Todarello almeno una via, come pure una santa messa ogni 18 agosto, giorno della sua morte violenta. Successivamente, la chiesa- accertati fatti e conseguente documentazione- potrebbe avviare le procedure per la sua beatificazione. Ciò per dare memoria eterna ad una giovane innocente che pagò con la vita l’arroganza del Potere. ll compito- a chi di dovere- di provvedere in merito.
Una povera donna montanina
lieta recava al petto un trovatello
preso là nel buglione, ove s’insacca
dal matrimonio e dallo stupro a gara,
o legittima o no, l’umana carne.
Oh benedetta, miseri innocenti,
la pubblica pietà che vi ricovra
nudi, piangenti, abbandonati! A voi
il casto grembo della cara madre
e del tetto paterno il santo asilo
che dà l’essere intero, e dolcemente
l’animo leva a dignità di vita,
error, vergogna, delitto e miseria
chiude per sempre! Crescerete soli,
soli all’affetto e malsecuri in terra;
al disamor di genitori ignoti,
come la pianta che non ha radice,
maledicendo!
(Giuseppe Giusti, Gita da Firenze a
Montecatini, 18 ottobre 1846

domenica 12 agosto 2018

Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018



                       Di Vincenzo Stranieri
Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018, è una storia corale in cui l’autrice rivela un impegno creativo privo di sterili rimasticature, distante dalle norme di base del fare romanzo. Potrebbe sembrare - a una lettura superficiale- che tutto giri intorno all’io narrante e al suo naturale alter ego (Rosa Sirace) e che il resto rimanga imprigionato nell’angusto spazio- se pur utile-  della subalternità. Così non è. L’autrice, infatti, narra dal di dentro il suo mondo (interiore e fisico), ne fa parte a pieno titolo, i cosiddetti altri  sono importanti perché  riempiono la sua vita  di miti e sogni. Cosicché la  sua scrittura delinea le tappe più rilevanti dell’esistenza controversa dei numerosi protagonisti della sua fatica letteraria. Una saga familiare che  assorbe la storia antropologica di quanti chiamati ad avere il ruolo sul palcoscenico creativo dell’autrice,  e che carpisce per custodire quanto accaduto e accadrà al suo cospetto, nel tentativo riuscito di dare chiara luce alle genti che s’incrociano con la sua vicenda. Una tecnica narrativa non facile  ma ben riuscita. Tanti microcosmi sotto  un’unica regia, che agisce per conto di un impegno prima di tutto poetico (“Ma un giorno io ho dichiarato d’essere pronta a scodinzolare nel vento, pur di non perdere il cielo di vista”),  ) con l’intento precipuo di conoscere e sorreggere la memoria di comunità  in estremo affanno demografico. Il luogo dove ha deciso di vivere Rosa  è un piccolo paese del Sud, infatti.
 “In quel preciso momento sentii d’amare il Sud
perché ti lascia campare senza chiederti nulla,
come una melanzana viola
nei campi rossi di tramonto”.
L’incipit anticipa in qualche misura il viaggio narrativo della Serazzi. “Antonia Cristallo, mia nonna, dice che noi fummo sempre poveri e mai tamarri”.

E’ vero, è un Sud povero legato alle antiche norme della civiltà contadina.. In questo mondo sospeso tra tradizione e modernità ritorna Rosa Sirace, dopo avere concluso gli studi universitari a Perugia, ma il capoluogo umbro ha lasciato in lei tracce marginali perché ella sente battere nel suo cuore la città alle pendici del Vesuvio, la Napoli dove da piccola andava a trovare nonno Giuseppe Sirace.
 Una città dai forti contrasti culturali e antropologici che ha molto influito sulla sua formazione e che vengono anch’essi catapultati nel microcosmo calabro eletto a solido domicilio. Tutto è autobiografico, anche quanto non realmente vissuto fisicamente, l’importante è quello che si vive con l’animo, l’autrice narra- come anticipato-  dal di dentro una Koinè che ancora intende resistere ai tumulti sociali della  cosiddetta modernità. 
I capitoli sono introdotti da citazioni bibliche pertinenti quanto allusive.
Di certo Sonia Serazzi è un’attenta studiosa della Bibbia, che elegge a guida spirituale sia quando si rivela atto d’amore (“Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato” ), sia quanto ammonisce e condanna (“I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati”).
Ma la scrittrice, nel corso del suo narrare, lascia trasparire anche un “necessario” atteggiamento laico, lasciando che  le tessere narrative traccino i tratti psicologici  più salienti dei pochi abitanti rimasti in paese, nonché quelli dei suoi familiari più stretti, senza caricare i protagonisti di uno spirito religioso pervasivo  o caritatevole.
Capitoli medio brevi bisognosi di spazio, d’ossigeno puro. Da qui, all’occorrenza, una certa distanza   tra i diversi paragrafi, in sé racconti già definiti.
Pregni di sottile ironia e affettuoso sfottò sono i nomignoli appiccicati ad alcuni stretti familiari. Nicca Fiori, madre della protagonista, alias Baronessa di Barbamannu, Guido Sorace, il padre, alias Il Viscontino di Verolea, e poi il nome vero della nonna, Antonia Cristallo, che potrebbe ugualmente sembrare un nomignolo, donna dal carattere coriaceo, che pretende- forse a ragione- di avere un ruolo pedagogico nei confronti dell’amata nipote che incorona come Rosasua.  E poi i vicini di casa, gli amici, alcuni dei quali provvisti di nomignoli calzanti.
Ma è un mondo in decomposizione, purtroppo. La Serazzi, pertanto, ha fretta di salvare memorie, di riempire il suo onesto taccuino di fatti, vicende in grado di restituire corpo e carne ai protagonisti della sua terra, un mondo  pregno di antico sudore capace di preservare e trasmettere dignità e forza d’animo.




La  Baronessa di Babbumannu è convinta che la povertà debba tacere, altrimenti diventa una corona di pidocchi: sozzura in mostra che devi grattare lo stesso da solo
Un romanzo da leggere senza fretta, assaporandone il ritmo interno, la scrittura originale dove tutto è conoscenza e voglia di vivere.
Così ho imparato che la vita è andare per qualcuno che ci guarda”.