giovedì 21 luglio 2022

VITO TETI, LA RESTANZA, EINAUDI 2022

 Devo ammettere che, allorquando mi addentro nella lettura/studio dei saggi dellamico Vito Teti, avverto dei veri sentimenti di stima e ammirazione.

Ciò, quasi certamente, perché le sollecitazioni emotive che Teti suscita generalmente nel lettore dipendono anche dal fatto che egli ragiona come un poeta, si commuove come un poeta, scandaglia i luoghi della memoria con la stessa ansietà di chi crede nella forza evocativa dei versi.

La sua scrittura, infatti, in qualche passaggio cede alla commozione, diventa lirica alloccorrenza, si trasforma in melanconia creativa specie quando sorvola paesaggi lunari, deserti dellanima, paesi abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio delle antiche genìe, degli emigranti, di chi ha dovuto, forzatamente, lasciare il mondo d’appartenenza, ovvero storie di vita, radici antropologiche ancora vive e palpitanti, sogni, tanti sogni, per reinventare altrove quanto lasciato in paese.Un linguaggio che narra dal di dentro la materia viva delle proprie indagini demo-etno-antropologiche. Ricerche effettuate sul campo, tra la gente, incontrando il territorio, la sua storia passata e quella recente.

TETI, questo va ben sottolineato, quando scrive di paesi abbandonati, di ruderi etc, lo fa solo dopo averli visitati con amorevole cura, con profondo rispetto. Vedi- ad esempio- IL SENSO DEI LUOGHI, storie e memorie dei paesi abbandonati di Calabria, 2014.



Anche il modulo linguistico del presente lavoro, LA RESTANZA, Feltrinelli, 2022,   rivela lo sforzo dell’autore nell’edificare un particolare costrutto sintattico: ora discorsivo, quasi colloquiale, per poi ritornare ad una semantica necessariamente saggistica, stante, appunto, che non parliamo né di un romanzo né di un racconto.

A Teti non poteva sfuggire il fatto che con le antiche retoriche non si progredisce, che non bastano più le solite giustificazioni storiche come la proverbiale “Magna Grecia”, la “Malaunità” e conseguente “Questione Meridionale”, la” ndrangheta” e tutto il resto, per giustificare la nostra inerzia, il nostro atavico fatalismo.

Oggi, purtroppo, dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la bellezza del Sud non sempre trovano risposte/proposte convinte e concrete presso i nuovi ceti sociali e politici, incapaci di diventare classe dirigente desiderosa di liberare, davvero e per sempre, questo luogo.

Sono tante le domande a cui Teti tenta di dare risposte concrete, specie quando è costretto ad ammettere che sul cosiddetto recupero dei borghi vige non poca retorica mista a malafede soprattutto in campo politico.

Infatti, il problema vero, per l’antropologo di San Nicola da Crissa,”… è quello di dare avvio ad una seria politica di non spopolamento, ovvero che i superstiti – se così possiamo definirli- rimangano sul posto, e non per sopravvivere malamente, schiavi di ricordi e ripensamenti laceranti su eventuali scelte non fatte, ma come protagonisti di una RESTANZA come pratica di vita, come arte del vivere in contesto socio-economico sì povero sul piano demografico, ma ancora in grado di affrontare le sfide del domani. La scelta di restare, o di tornare, infatti, è sempre più connessa al desiderio di prendersi cura e rigenerare i luoghi che abitiamo”.

I saggi del Prof. Vito Teti non sono facili da riassumere, contengono elementi culturali dove primeggiano l’antropologia, l’archeologia, la storia, soprattutto del mediterraneo, nonché richiami puntuali a scrittori e intellettuali di valore europeo.
In conclusione, va sottolineato che nel presente saggio vengono rimarcati diversi concetti che delineano le forme più concrete di RESTANZA.

”Ripartire dai restanti- scrive Teti- significa sapersi fare carico delle memorie, dei bisogni, dei progetti di chi è rimasto e attende cambiare e inventare una nuova comunità. Bisogna essere utopici e concreti. Sono necessari nuovi pensieri per uscire da visioni localistiche e per immaginare una vita ancora pensabile e praticabile in questi luoghi. Una via duscita possibile che ci chiede di immaginare l’immaginabile, di prevedere l’imprevedibile”.


Vito Teti è un uomo da sempre impegnato ad affinare – con non poca tribolazione- la difficile arte della “restanza”, suggestivo neologismo da lui stesso coniato, con il quale, tra l’altro, stigmatizza che rimanere in paese ”.. non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è unarte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche dell’identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempoMi piace l’antropologia narrata – se cosi è permesso dire-  messa in atto, con passione e competenza, da Teti; un linguaggio che si oppone a qualsiasi manierismo linguistico, in particolar modo a quello accademico tout court, spesso, alloccorrenza, fin troppo gergale.


lunedì 9 maggio 2022

Breve viaggio in pullman (Arcavacata-Unical-Locri) Cronistoria di una studentessa “vittima” del docente universitario “ammazzatutti

 Il pullman sul quale viaggio (Arcavacata/Unical-Locri) è                                                   stracolmo di studenti sudati e stanchi. Quando  si avvicina a Rogliano (un tratto d’autostrada da                                 affrontare con prudenza) m’irrigidisco e cerco di allontanare la tensione pensando ad altro. L’asfalto                                  infuocato rilascia strani messaggi di luce. Manca l’aria, nonostante il buon sistema di areazione. Accanto a me è seduta una giovane studentessa universitaria. Appare triste, con gli occhi persi nel vuoto. Le dico che il caldo è soffocante, che il mezzo è troppo affollato; la ragazza, però, non mi risponde. Sono stanco, chiudo gli occhi alla ricerca di un po’ di sonno ristoratore, ma di a poco un giovane studente mi si avvicina dicendomi di conoscere i miei figli, che con uno di essi hanno frequentato lo stesso corso d’inglese ai tempi del liceo. E’ gentile. Mi saluta con garbo e torna al suo posto. La ragazza seduta al mio fianco, invece, scoppia in un pianto intenso e silenzioso; calde lacrime solcano il suo giovane viso. E’ nella mia natura cercare di capire cosa accade al prossimo. Posso fare qualcosa per te”,  le dico a bassa voce, per non farmi sentire dai presenti.

Ho paura di ritornare a casa a mani vuote”, mi risponde dopo aver inspirato a lungo.

Segue un fitto dialogo dal quale viene fuori che, per la terza volta consecutiva, non ha superato un esame importante. “Il prof. - mi dice - incute terrore, proprio ieri ha rimandato a casa la quasi totalità degli esaminandi. Lo fa sistematicamente. Tale comportamento non ci fa studiare tranquilli. L’Università è divenuta una vera ossessione, quasi un luogo di tortura psicologica”. Probabilmente opterà per una sede universitaria del Nord (forse Bologna); altri suoi colleghi di corso stanno maturando la stessa intenzione. La ragazza - lo deduco da quanto mi dice- ha alle spalle un brillante curriculum scolastico (maturità classica con 94/100), studia con passione e diligenza, non trascura mai le lezioni, in alcuni casi le registra. Mostra un’ottima proprietà di linguaggio. Cerco di calmarla, le chiedo di non demordere, di non lasciare la nostra bella terra, che sono troppi i giovani costretti ad abbandonarla. Si asciuga a più riprese le lacrime, mi risponde che ha bisogno di riflettere, che deciderà assieme ai suoi genitori. Scende   nei pressi di Locri. Mi saluta abbozzando un sorriso di gratitudine. Le auguro ogni bene. Il pullman riparte, ora è quasi vuoto. Rientro a casa turbato, quanto raccontatomi - ripeto a me stesso- non depone a favore del docente “ammazzatutti”. Difatti, quando si boccia troppo (quasi in modo compulsivo), non necessariamente si è     misurati nel giudizio. In alcuni casi, infatti, il motivo per cui gli allievi non ottengono buoni risultati può dipendere dalla rigidità didattica del docente. Senza empatia non si va da nessuna parte, infatti. Spero tanto che la ragazza non lasci l’Unical. Sarebbe una sconfitta per tutti.

U CATOJU E I PROHJ

 

Già la prima quartina è indicativa di come  Michele Germanò, anziano poetca dialettale originario di Sant'Agata del Bianco,  pensa e ripensa al suo paese  come “nu valurusu picciulu museo... di li penzeri è sempre visitatu”. Qui l’elemento poetico ben si coniuga con quello antropologico perché le rivitazioni mentali di Germanò sono quasi un’elencazione di vicende e personaggi che mai sfuggono al suo pensiero, alla sua esperienza di calabrese trasferitosi nel ventre di una storia cosmopolita (leggi CANADA) che sì lo aiuta a crescere sul piano economico, lo irrobustisce anche sul piano culturale (l’acquisizione di una’altra lingua), ma a un prezzo troppo alto. A ben leggere i suoi versi, si riscontra una nostalgia non solo da addebitare alla’emigrazione, vi è infatti  la consapevolezza che il luogo che lo ha visto nascere e crescere è irrimediabilmente cambiato, che la realtà degli oggetti che animava la civiltà contadina è ormai divenuta un triste  Museo. Difatti “…puru u foculara e senza fiamma”, “Riposa e cchju non scrusci lu tilaru”.Non più le donne, madri, sorelle, zie e fidanzate stanno chine sul telaio, non più coperte colorate realizzate in modo artigianale. E sì che un tempo i  tilari, anche di notte, facevano eco ai rumori notturni, al cammino dei contadini che si recavano di primo mattino in campagna.  Un mondo cadenzato da ritmi umani, da fatiche impregnate di sudore, questo sì, ma comunque con al centro l’uomo e la sua millenaria presenza terrena. Da segnalare il recupero di molti termini arcaici, utilizzati nelle nostre vallate fino alla metà degli anni’ 50.  Germanò in questo è alquanto abile, disegna dei quadretti semantici molto veritieri, recupera numerosi affreschi delle nostre tradizioni. In più, alla fine del testo poetico, allega un interessante glossario di detti termini  che facilitano la comprensione del loro  il signficato non solo sintattico ma anche allegorico. In conclusione, le quartine (ABAB) sono lo specchio concreto di un mondo ormai scorparso, di una generazione che ha fatto a pugni con la terra, le sue zolle aride e i tanti padroni di  turno, usurpatori senza scrupoli. Ma Germanò non recrimina contro nessuno, egli, con intelligenza e particolare senbilità, disegna tratti poetici del suo mondo d’origine, di quando  i barigghj erano recipienti in legno altamente  preziosi per il trasporto dell’acqua attinta alle poche fontane sorgive poste ai fianchi dei piccoli paesi di collina.

 “Quant’acqua, pe na vita ‘ndi portaru,

sicuramenti, cchiù di na jumara.

sabato 7 maggio 2022

HANDICAP PREGIUDIZIO LETTERATURA

  Il presente saggio,  realizzato nell’ambito dei programmi europei PETRA e ERASMUS, a cura, presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione- Università di Bologna- del Prof. Nicola Cuomo (“L’emozione di conoscere”, 2-4 settembre 1991), è stato pubblicato su “Aschesis” n. 6/9-settembre-dicembre 1991. In questa sede, è stato riveduto ed integrato in alcune sue parti.

 Vincenzo Stranieri : Pedagogista, cultore di Antropologia Culturale presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università della Calabria

Sin dall’antichità ogni manifestazione che non rientrava nell’alveo degli schemi culturali del sistema sociale era considerata un evento <<fuorinorma>> da esorcizzare in nome di principi religiosi o, anche, di criteri politico-religiosi. (1)

Gli spartani – a esempio- praticavano nei confronti dei bambini affetti da malformazioni, una sorta di giudizio di <<utilità>> per cui ritenevano giusto sopprimerli. (2)

La relazione tra gli uomini e il Potere politico-religioso era dunque fuorviata dal pregiudizio, dalla totale ignoranza dei motivi che stavano alla base dei comportamenti degli <<invasati>>, nonché degli individui oggi meglio conosciuti come portatori di handicaps.

Anche i secoli rinascimentali conobbero, non meno che in passato, forme più o meno aberranti di pregiudizio. (3)

Conseguentemente, anche nel sec.XVI° ed oltre, assistiamo al dilagarsi di un’ira persecutoria al punto che fra’ Girolamo Manghi da Viadana, Minore osservante (1529-1609), pubblica il <<Compendio dell’arte esorcistica>>, Bologna 1576. (4)

Pochi anni prima, invece, (1560) <<usciva per opera dello stampatore veneziano Lodovico Avanzi, che la pubblicava assieme alla magia Naturale di Giovan Battista della Porta, la traduzione italiana de “Occulta naturae Miracula” del medico zelandese Lievin Lemmes. Il capitolo VIII° era dedicato ai “parti mostruosi”, e, “nella copia dell’opera ora posseduta dalla biblioteca Universitaria di Bologna, accanto al titolo, una mano del XVI° sec. vergava l’avvenimento per li maritati pazzi e sporchi”>>. (5)

Inoltre, e qui i fatti diventano veracemente inquietanti, l’idea della <<terribilità>> della nascita era all’origine della tacita ma diffusa abitudine, anche in questo periodo, << di uccidere subito dopo il parto la creatura deforme che non fosse morta spontaneamente>>. (6)

lunedì 25 aprile 2022

LA PARTE DELL'0CCHIO- TESTO POETICO DI MARINA REZZONICO

Il volume di poesie, La parte dell’occhio, di Marina Rezzonico, Puntoecapo   Editrice, 2022, è composto da 7 sezioni i cui versi riproducono un tessuto linguistico alquanto unitario.

E’ anzitutto  un corposo  spazio dell’anima,  una preziosa configurazione geografica insita in un passato/presente che mai deborda in vittimismo o invocazioni nostalgiche.

Per primo è stato il porto:

moli di traffici e di industria.

Se ci fossi nata, del mare avrei serbato

Il suono di sirena,

lago di partenze, di umane distanze,

asilo di ogni arrivo.

Poesia narrata (ossimoro voluto) per non allontanarsi dal ricco bagaglio umano-culturale donatole dai luoghi fisici (Ticino, Liguria e Toscana) in cui l’artista ha vissuto e si è formata, e che ben si coniugano con quelli interiorizzati  nel corso della sua vita.

I luoghi, quelli vissuti e/o quelli ricostruiti per mezzo della memoria, producono continue rivisitazioni che trovano uno spazio preciso nella mente della poetessa, anche quando sovviene un certo timore e la natura sembra custodire segreti ormai perduti.

Le radici non attecchiscono

per caso. Richiedono lo scavo

delle generazioni.

Senza storia prevede

successive abrasioni

di ogni segno di riconoscimento.

Una poesia anche, se non soprattutto, “descrittiva”,  esplicativa dei diversi  spazi della memoria che, cosa non secondaria, non si sovrappongono al mondo intellettuale che li contiene.

Ho fatto avanti indietro

Tra pioggia e sole.

Ci ha fatto stanchi, svogliati.

Chiusi entro casa

a lasciare accartocciare

i giorni e le parole:

profani signori

alla corte del tempo.

 

Luoghi fisici e luoghi dell’anima dove l’elemento lirico tout court è sostituito dall’occhio vigile dell’autrice; e dal quale, forse, nasce La parte dell’occhio, ovvero quella porzione di sguardo che, anche da solo, è in grado di cogliere le migliori fattezze dell’umana esistenza.

Preparo una rete

per catturare con gli occhi

Il mio nome

In volo nell’aria.

La mia vita intera.

 

Sono numerosi i versi che compendiano questa particolare opera poetica. Tradizioni ormai scomparse, utensili ormai in disuso, ritmi di vita vorticosi e per questo quasi disumani.

 

Si fissava il telaio,

con una molletta,

uno strappo di carta.

E nell’andare, il fruscio

simulava il volare.

 

Dall’alto, guardavano il mondo.

 

Il rammarico pesa, non poteva essere altrimenti, nel pensiero dell’artista, i forsennati mutamenti socio-culturali aggrediscono la sua sensibilità, il  corpus intellettuale che li contiene.

 

Ogni avventura deposta,

lasciata fuori,

a tendere il suo agguato.

Silenzio.

Sguardo traverso

Sul presente disabitato.

 

In conclusione, ma molto altro nasconde questo robusto  testo poetico, va ribadita l’originale capacità della Ns artista d’intrecciare il suo mondo ideale- poetico con il cosiddetto mondo reale; quest’ultimo ancora somigliante, per fortuna,  ad  uno scrigno ricco di sentimenti veri.

 

Cerco ancora una terra da esplorare?

Una pietra da tirare,

una zolla da falciare,

una pervinca da cogliere?

Cerchi la tana dove riparare?

 


martedì 4 gennaio 2022

SALOTTI TELEVISIVI PRIVI DI SENTIMENTI VERI

 

 NO ALLA PORNOGRAFIA DEL DOLORE E ALLA SCARNIFICAZIONE DEI SENTIMENTI

           

    La pagina  di un qualsiasi quotidiano d’oggi  raccoglie  una mole di notizie che un uomo del Settecento - ad esempio- avrebbe ottenuto  in non poche decine d’anni. Notizie su notizie, rigagnoli d’inchiostro viaggiano per il mondo in cerca di fedeli lettori. Ma la notizia, oggi, corre, anzi dilaga, per mezzo di internet, si mescola a immagini colorate  pregne di proposte varie, ed appare difficile appropriarsi veramente di questa neo-babele che blatera dettagli su dettagli, proponendo, spesso, una realtà virtuale fatta di niente.Meglio oggi che ieri, naturalmente, ma è pure  opportuno quanto necessario capire che qualsiasi cervello umano non è in grado di sopportare questo bombardamento mediatico quotidiano.Non si tratta di censurare nessuno, bisogna invece non precorrere con l’attuale celerità tempi che riguardano l’intimo della natura umana (oltre che le necessità della nostra madre terra).Bisogna decelerare la corsa intrapresa, evitando s’infrangersi sugli scogli di una falsa conoscenza che, col passare del tempo, diverrà totalmente omologata.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a diatribe giornalistiche (carta stampata, tv etc) che risultano grottesche quanto inutili. Non voglio riferirmi a nessuna di queste in particolare (l’elenco sarebbe lungo, purtroppo), perché tutte presentano lo stesso vizio di forma: retorica bassa, demagogia urlata, populismo d’infima qualità. Nei salotti televisivi si parla di tutto, si giudica con non poca superficialità questa o quella vicenda, si esprimono valutazioni soggettive che intendono essere verità assolute.Si discutono sentenze, indagini ancora in corso senza essere sfiorati dal che minimo dubbio. Vige la presenza costante del tuttologo, colui/colei che discerne senza pentimenti di terremoti e piogge torrenziali, di naufragi e violenze domestiche.

Tutto è chiaro, tutto è certo in questi salotti colorati dove tutti fingono di essere  buoni amici.Ma è proprio in questi salotti televisivi che imperano due tipi di delitti culturali che Rosario Sorrentino (neurologo di fama mondiale) definisce- cito a memoria- “pornografia del dolore”, “scarnificazione dei sentimenti”.La nudità del dolore altrui  non disturba i numerosi retori, che affondano i loro bisturi conoscitivo dentro le carni più profonde della vittima di turno, scarnificandone, appunto, le emozioni più recondite. Autopsia dell’anima e del corpo, un po’ come quanto accade in alcune serie televisive americane trasmesse con solerzia anche in Italia dove gli esami necroscopici vengono mostrati in ogni loro piccolo particolare, non mancando, naturalmente, di evidenziare il rosso-cupo della carne umana distribuita in modo ordinato sui tavoli di altrettanto ordinati laboratori.Il corpo è un giocattolo che va montato e smontato senza particolari emozioni, come pure i sentimenti. Il  poter parlare di tutto eccita le menti di questi mendicanti del sapere, fa luccicare i loro occhi, esalta le loro questuanti narici.Deceleriamo la nostra folle corsa di falsa conoscenza- dicevo- solo così eviteremo gli scogli appuntiti dell’abbrutimento collettivo.

"lA RIVIERA", PRIMO GENNAIO 2022, P.19

 

domenica 26 dicembre 2021

ROMANZO D'IMPEGNO CIVILE

 

“ L’ uomo è forte” (1938) romanzo di Corrado Alvaro, è un inno alla libertà,

 un grido di dolore contro ogni forma di Totalitarismo

 Inizialmente era intitolato “Paura sul mondo”

 

 ENZO STRANIERI

 

Alvaro va riletto, le letture passate non hanno aperto squarci abbastanza vasti nel ventre della sua opera. E’ necessario accostarsi a quest’uomo senza pregiudizi, solo così si potrà cogliere la sua intima natura, che viene fuori in tutto il suo spessore ne “ L’uomo è forte”, romanzo dove l’impegno civile dello scrittore si evidenzia in una luce particolare. Alvaro, inizialmente, lo aveva intitolato “Paura sul mondo”, successivamente fu costretto a cambiarlo in “L’uomo è forte”. Ai censori dell’epoca (1938) il romanzo parve sospetto ed imposero allo scrittore il taglio di una ventina di righe e la precisazione che l’ambiente era la Russia. Il regime, così facendo, mostrò di non capire che il vero intento di Alvaro era una condanna univoca delle dittature: nazifascista e stalinista.


L’ambiente non era la sola Russia, dunque, ma il mondo, in particolare quella parte che mirava ad obiettivi di completa egemonia. L’atmosfera allucinante, le fobie che gravavano sui protagonisti ci conducano a F. Kafka, precisamente al “Processo” dove J.K. simboleggia la sconfitta di un’umanità che non ha compreso che nella vita “tutto è processo”, “tutto fa parte del tribunale”. “L’uomo è forte” è infatti un romanzo che narra la coercizione che il Potere opera sull’uomo allo scopo di annullarlo. Un Potere, questo,  che si  insinua nella  coscienza dei protagonisti,  ledendo la loro identità e sconvolgendoli sul piano morale. E tale violenza è possibile verificarla dalle prime battute del romanzo, quando Dale, ingegnere minerario, ritorna in patria dove è ancora viva la lotta interna tra le “bande controrivoluzionarie” e lo Stato. Ritrova Barbara, amica d’infanzia, e tra i due nasce l’amore. Ma Dale ben presto verificherà che la realtà di questo nuovo mondo è segnata dalla coercizione e dalla menzogna, un mondo dove il pensiero è considerato pericoloso. “Bisogna stare attenti a quel che si pensa. Possiamo influire sugli altri. E bisogna abituarsi a pensar bene”. Sono parole della segreteria dove lavora Dale che, successivamente, trovano conferma nel seguente assunto dell’Inquisitore: “ Tutti pensiamo a cose delittuose. Ecco perché è giusta l’espiazione. Il male è ovunque, in tutti, se mi fosse concesso dirlo affermerei che noi amiamo il colpevole”. E sarà proprio questa psicologia forte a far commettere ai protagonisti del romanzo tradimenti e delitti. Barbara, infatti, ossessionata dall’Inquisitore, denuncia Dale come ribelle. “Ella sente che Dale forse opera come tutti gli uomini, con un’energia logica e tenace, inesorabile come sono tutti gli uomini”. Barbara rifiuta l’intromissione di Dale nella sua vita, egli rappresenta il diavolo, colui che crea complotti contro i “salvatori della Patria”. “Era viva. Tra poco avrebbe deposto il suo carico di pensieri, di angosce, di terrori, era uscita dal mondo virile e turbolento, entrava nella ubbidienza e nella docilità delle regole”. Alvaro, attraverso Barbara e Dale, coglie i motivi che stanno alla base del consenso popolare alle dittature e che collimano in modo impressionante con le tesi di F.Adorno, esponente tra i più autorevole della “Scuola di Francoforte”. Ecco come Rossana Trifiletti Baldi sintetizza il pensiero di Adorno a proposito degli Stati totalitari: “L’efficacia dei dittatori risiede proprio nel fatto che essi assumono un atteggiamento asociale, e riescono a recepire nella loro ribellione fittizia la reale rivolta della natura che è stata repressa in ogni individuo: gli individui vengono così manipolati nella loro ultima reazione autentica, il “ritorno del represso”, e l’energia che istinti vietati mobilitano in ciascuno, viene deviata per i fini del regime”. Anche l’istinto di Barbara viene incanalato: “ Mi sono fidata del mio istinto. Il mio istinto mi diceva che sarebbe stato opportuno avvertire le autorità”. Per Adorno, inoltre, il rapporto tra il capo fascista e i suoi seguaci è di natura libidica, perché la figura del capo “diviene l’idealizzazione dell’io in ogni suo seguace, l’oggetto di una più immediata e fuorviante identificazione narcisistica”. Anche Alvaro conosce tale processo. “Barbara sentiva accanto a costui, l’Inquisitore, quello che una donna sente accanto ad un uomo pieno di desiderio violento e naturale, di quei desideri che legano contro la loro volontà due persone. Per poco non l’abbracciava stringendole le mani. E poiché un grande amore, sia pure come quello, nutrito di uno spaventevole istinto di distruzione, di una volontà di conquista fatale, non può non turbare una donna, ella scese quelle scale come se avesse sfiorato un amore cui non poteva rispondere ma cui la legava tuttavia una legge di natura”. Alvaro, dunque, coglie con acutezza di idee lo storpiamento che l’Inquisitore (il Potere) opera su Barbara (l’umanità), evidenziando come “nelle prassi dei regimi totalitari, l’individuo tocca il fondo della sua estraniazione, viene spossessato anche dei suoi istinti naturali e nel momento in cui crede di essere spinto da essi e di attuare la sua ribellione, è mosso come una pedina in senso contrario ai suoi interessi” (R.T.Baldi). E Dale? Egli corre verso il delitto di Stato. Dice l’Inquisitore: “ Noi non possiamo arrestare l’Ingegner Dale. Ci è troppo prezioso. Bisogna lasciargli il tempo di compiere la sua opera fino in fondo”. Dale, infatti, uccide in direttore della fabbrica in cui lavora credendolo una spia, ma viene catturato dalle bande controrivoluzionarie che lo affidano a Isidoro, contadino, per essere giustiziato. Nella parte finale, sostenuta da dialoghi fitti e penetranti (la metafora su “Le trasformazioni, ovvero l’asino d’oro” di Apuleio ne è l’esempio migliore), la narrazione dimostra che Alvaro  non sfugge alle sue responsabilità di scrittore.  Dale (Alvaro), infatti, si confronta col contadino Isidoro e non può fare a meno di costatare che “…sono ridicoli gli intellettuali, ma non c’è da disprezzarli. Sono fatti così…Ma li hanno allevati a credere che si possa accomodare ogni cosa, ragionevolmente, ragionando…”. E’ un finale tragicamente amaro, denso di emozioni particolari. Isidoro, simbolo della cultura d’appartenenza di Dale, media la catarsi di quest’ultimo, l’indispensabile ritorno alle origini. Egli sopravvive ai colpi sparatigli  da Isidoro (la Risurrezione) e ritorna nel  mondo fragile e mortale, ma è ancora un uomo e nella fuga, che lo porterà lontano dal Potere, troverà nuovi motivi di riscatto, forse.

 

 

 

 


 

 

sabato 27 novembre 2021

 "LA RIVIERA", DOMENICA 29 NOVEMBRE 2021, PAG.14

             “TUTTA UNA VITA”  DI SAVERIO STRATI,  RUBBETTINO 2021

 Un artista che ha  messo da parte gli strumenti stilistici di un tempo dando particolare rilevanza ad una sorta di spazio-tempo mentale capace di stabilire un rapporto nuovo  con i  ricordi, la memoria di quanto accaduto nel corso di una vita lunga e laboriosa

 ENZO STRANIERI

A  partire dagli anni ’80, Saverio Strati avverte l’esigenza di rivedere lo stile del suo linguaggio e, conseguentemente, anche le tematiche di fondo. Fino ad allora, tranne che nei romanzi  IL Nodo,1966, nei racconti Il Visionario e il ciabattino,1978, e in  L’uomo in fondo al pozzo,1989, ultimo suo romanzo pubblicato da Mondadori, la tematica centrale  è stato il Sud,  i suoi problemi secolari, le sue rinunce, le sue ataviche maledizioni sociali. E in questo è stato  concreto quanto originale, impegnandosi alacremente nella costruzione di una lingua popolare apparentemente semplice ma, cosa  alquanto rilevante, mai  consolatoria. Strati costruisce, elabora un tessuto lessicale che nei suoi numerosi romanzi porterà in auge il Meridione, le sue albe e suoi tramonti, i colori di una terra  protagonista di occupazioni secolari e quindi ancora alla ricerca di una sua  identità unitaria.

Di fronte alle  porte chiuse di Mondadori, suo editore fino al 1989, Strati si sente tradito, ha bisogno di esprimere il suo pensiero, le sue idee letterarie. Nel frattempo dà luce a un diario molto intimo (Tutta una vita) datato  1991, che sarà pubblicato postumo nel luglio 2021, presso Rubbettino, grazie all’interessamento costante di Palma Comandè, scrittrice e nipote dell’artista Il testo  reca  la  lucida prefazione di Vito Teti e la  nutrita postfazione  di Pasquale Tuscano.

Pino, protagonista del romanzo, appartiene a una famiglia benestante meridionale che si occupa di costruzioni edili. Il clima familiare è tranquillo e il giovane sogna di vivere l’esperienza universitaria in una grande città del nord (Milano) dove, in effetti, studierà architettura e non ingegneria come avrebbe preferito suo padre. Gli studi universitari non gli comportano serie privazioni economiche  ma anzi un  benessere dignitoso.

La città di Messina riserva al giovane amori poco duraturi  ma comunque piacevoli e degni di nota. La città dello stretto, anni ’50, si è in parte ripresa dal disastroso terremoto  del 1908 e offre una buona Università. Ma Pino sogna l’architettura e le bellezze museali delle grandi  città del Nord, ha bisogno di lasciarsi alle spalle la provincia, i limiti del paese d’origine.

A Milano, sua città adottiva, completerà i suoi studi universitari, laureandosi brillantemente in architettura.  Tale esperienza gli consentirà di appropriarsi di nuovi strumenti culturali, affinare con acume  anche le armi della conoscenza professionale.  Pino è comunque preso dalle bellezze museali, dai dipinti rinascimentali, dalla particolare architettura della città meneghina  a cui si aggiungono  le preziose visite a Firenze, ai suoi innumerevoli tesori culturali. Dicevo che la solidità economica della famiglia di Pino consente al giovane di guardare al mondo con occhi  meno rassegnati lo scorrere del tempo, sostenendo con un nuovo anelito i suoi progetti professionali altalenanti tra il territorio d’origine e il capoluogo lombardo perchè “combattuto fra il desiderio del rientro e il rifiuto di una società immobile” (G.Carteri).

In alcuni momenti  sembra incarnare  la vicenza umana di Rocco,  protagonista folle de “L’uomo in fondo al pozzo”(1989). Entrambi sognano  la fama, ma solo Pino, provvisto di una mente lucida e razionale, potrà godere del successo, seppur gravato da tante disillusioni sentimentali. Le donne, infatti, rappresentano eros e bellezza senza tempo, simboleggiano un mondo conchiuso, un abisso dei sensi incomparabile. E questo nonostante quasi tutte le donne che hanno conosciuto e amato Pino  ne denuncino  il suo apparente  cinismo.

Non è stato semplice scrivere di questa fatica postuma di Saverio Strati (S.Agata del Bianco 1924- Scandicci, luogo d’adozione, 2014).

I personaggi sono tanti, come pure i  protagonisti. Pur tuttavia, va detto che lo scrittore  muove i suoi personaggi/ pedine con la stessa abilità dei giocatori di scacchi. Soprattutto le prime 50/60 pagine aggrediscono il lettore, quasi lo disorientano, lo sollecitano ad alimentare meraviglia mista  a stupore. E questo perché non ci si aspettava uno scrittore prezioso custode  d’intimi segreti, testimone di vicende particolari che andavano riversate a futura memoria  sulla pagina bianca. E  questo senza particolari pudori. Le vicende amorose,infatti, esprimono una particolare voluttà, desideri ancestrali che danno  priorità alla carne rispetto alle semplici emozioni dell’animo.

Cosicché ci si trova di fronte a un’artista che ha ormai messo da parte gli strumenti stilistici di un tempo dando particolare rilevanza ad una sorta di spazio-tempo mentale capace di stabilire un rapporto originale  con i  ricordi, la memoria di quanto accaduto nel corso di una vita lunga quanto laboriosa. La circolarità del tempo, del pensiero che si aggancia al presente-passato-futuro,  con l’aggiunta di riflessioni che l’io narrante rivela al lettore  hic et nunc e che, naturalmente, non sono percepibili dalle figure di primo piano o anche secondarie  scelte all’uopo dall’artista. Quasi un ventaglio della memoria che  registra tutta una vita, appunto. Strati visiona in modo quasi morboso i dati della sua attuale esperienza con i numerosi avvenimenti del passato, di cui ha memoria viva e che ha conservato gelosamente in una sorta di scrigno fortunatamente non più privato.

 

 


 

 

 

 


domenica 24 ottobre 2021

La Padrina, romanzo di Palma Comandè, Rubbettino 2021. Recensione di Enzo Stranieri del 23 Ottobre 2021, LA RIVIERA, P.19.

 LA PADRINA,  terzo romanzo della scrittrice Palma Comandè che descrive il dramma della donna tra malavita e disagio sociale

     La Padrina” di Palma Comandè, Rubbettino, 2021, non è solo un romanzo, è anche un breviario antropologico, uno spazio dove il narrato cede il passo a brevi ma intensi aforismi. Credo che la quarta di copertina non renda completo merito al romanzo, apparentemente volto in più direzioni ma con al centro  protagonisti  che in realtà s’identificano in un’unica matrice sociale, un grumo di speranze deluse,  alimentate da un unico quanto pericoloso carburante: la violenza come riscatto sociale. E le donne, in un mondo così  legato alle antiche usanze (non solo a quelle ntranghitiste-mafiose), pagano un prezzo inaccettabile, doloroso oltremisura.  ll ruolo della donna all’interno di un alveo sociale che, negli anni ’80,  in un preciso territorio calabrese, è ancora denso  di contraddizioni socio-culturali, che la ingabbiano fino a renderla senza voce. Ci si pensa ombelico del mondo, s’ innaffiano arroganza  e miseria culturale, ma si rimane sempre e comunque ai margini del mondo, e questo anche quando si crede d’essere protagonisti in America (Merica), dove per viverci da ricchi mafiosi si paga un prezzo elevatissimo. Non ci si accorge del ghetto antropologico in cui si agisce,   lontani della società americana,  che li  giudica  portatori  di tradizioni d’altri tempi. Al vertice  di questo microcosmo c'è la nonna di Marià (protagonista/io narrante), donna Menù (La Padrina) che, come ebbe a dire in un secondo momento alla nipote,  è divenuta arida e violenta perché si è sentita creditrice nei confronti di una società che le aveva ingiustamente, secondo lei,  tolto affetti e sangue filiale. La Padrina comanda su tutto e su tutti. Ogni sua richiesta viene esaudita anche quando potrebbe sembrare violenta e priva d’umanità. Rappresenta la giustizia in pectore, simboleggia quello che un tempo veniva definito   “tribunale dei poveri”. Nel piccolo paese del Sud d'Italia dove è ambientato il romanzo non potevano mancare i sogni, le speranze in un futuro migliore. Cominciamo da quelli soffocati ancor prima di vedere la luce. Marià e Lisa sono amiche dai tempi dell'infanzia, da sempre condividono progetti per il futuro.

Lontano dalle fasi in cui la realtà prende una piega di violenza estrema, la freschezza giovanile e sognante delle due amiche giunge al lettore come acqua fresca di sorgente ancora incontaminata. In queste pagine c’è tanta poesia (opportuni, a tal proposito, i termini dialettali utilizzati  per dare la misura  del  luogo d’origine). I sogni e le  speranze  di Marià e Lisa sospingono verso un mondo volto al cambiamento,  lontano dalle trappole dell’ambiente paesano. Marià spera di fare la stilista, Lisa di sposare Peppe, il suo amore. Nessuna delle due, a conti fatti, riuscirà nell'intento e sarà Lisa, in procinto di sposarsi, a pagare con la vita i suoi sentimenti sinceri per il giovane ndranghitista. L’uccisione di Lisa e Peppe (che aveva deciso di lasciare il paese per vivere con l’amata a Milano, rompendo così con i vincoli mafiosi d’origine) è quasi un delitto annunciato. Da qui in poi si dipana un  narrato  vasto, tanti i misfatti compiuti e/o subiti dai  principali protagonisti. Va sottolineato, però, che Palma Comandè non si ferma alla mera narrazione di vicende di malavita all’interno di una Koinè immersa   nell’arretratezza. Non è soltanto una storia di mafia, infatti. Nella realtà antropologica di questo mondo conchiuso non c’è spazio per la donna, che  solo nella “fuga” può trovare un suo concreto riscatto. In questo senso la figura  di Marià  è ambivalente, cerca  disperatamente d’ essere una  moderna Antigone ma senza potervi riuscire. E per questo dice a se stessa: “ Che tutto quello che non c’era più, non mi restava che il ripiego in me stessa, a cercare la pace. Ovunque…nella rassegnazione”. Ma non è, come deducibile da un’ attenta disamina del romanzo,  una rassegnazione priva di luce.  Marià è accusata dalla Padrina di avere tradito gli ideali della famiglia, perché, tra l’altro, considera la montagna come terra matrigna, e per questo la disereda, la maledice con inaudita ferocia, sperando che  ella sia sotterrata al più presto  nei modi drammatici che hanno visto morire sua zia Mara Rosa, suicidatasi per sfuggire alle grinfie sadiche di sua madre (la Padrina). Chiudo con un’altra bella riflessione di Marià. “Ma l’imbarazzo di Rocco mi riportò drasticamente alle origini. A quel nostro mondo singolare. Accogliente ma anche respingente. Aperto ma anche chiuso. Vivo ma amche morto… Quel mondo dei contrasti. Che è tomba ed è  culla. Da cui fuggi , e nel quale vuoi tornare..”.