di Vincenzo Stranieri
Non conosco l’intimo motivo che mi ha fatto collegare il saggio di Carmelo Carabetta Corpo forte e pensiero debole. Immagine, efficientismo, edonismo, sessualità e corpo umano nel postmodernismo, Franco Angeli Editore, 2007, ad “Immobilità”, poesia d’amore di E. Evatušenko.
martedì 8 febbraio 2011
giovedì 9 dicembre 2010
APPELLO GENERAZIONALE
Quello che chiedo a tutti, specialmente alla mia/nostra generazione, è di non tradire la nostra infanzia, di custodirla come un dono prezioso e di pensarci ancòra "cotraregli" con nel cuore la voglia di dare al prossimo il meglio di noi stessi. Io vi porto tutti nel cuore, e, quando la solitudine m'inquieta più del dovuto, percorro le nostre "rughe" silenziose dove neanche i cani latrano, le finestre sono sbarrate e ognuno é in attesa del giorno. In quei momenti ritorno bambino e assieme a tutti voi ripercorro festoso le vie popolate della nostra infanzia.Amo la mia/nostra terra perché mi protegge dall'urbanesimo forzato, mi offre serenamente tutta la sua storia antropologica.
martedì 30 novembre 2010
Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, Roma 2004, pag.597,euro 32, prefazione di Predrag Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo,
di Vincenzo Stranieri *
Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, Roma 2004, pag.597,euro 32, prefazione di Predrag Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è un viaggio intellettuale dentro l’animo dei numerosi paesi abbandonati di Calabria, i cui ruderi risultano sconosciuti e privi di senso soprattutto ai calabresi, che, in quanto a volontà di conoscenza, a valorizzazione della propria storia, peccano senza particolari rimorsi.
Quello di Teti è quindi un viaggio all’interno di paesi abbarbicati, come ci ricorda Corrado Alvaro, “…sulla schiena di una montagna come quei nidi di creta che fanno i calabroni intorno a uno spino indurito…”, e che, nonostante le alterne vicende vissute (subite) ad opera dei conquistatori di turno, riuscivano comunque a mantenere una propria identità, consegnando alle generazioni future il seme antropologico d’appartenenza: i riti, le abitudini, le tradizioni, l’idea della vita e della morte, le processioni dei santi intrise di un “sano” paganesimo, che, in nome della tradizione, appunto, vede/va numerosa anche la presenza laica, che, nella religiosità popolare, ritrova/va le forme ancestrali della propria spiritualità.
domenica 7 novembre 2010
INTERVISTA A VINCENZO STRANIERI
Lei ha
scritto alcuni interessanti saggi su Saverio Strati dai quali si evince una
frequentazione culturale con l’autore de La
Marchesina (1956), se pur limitatamente ai periodi in cui l’artista faceva
ritorno nella sua casa di contrada “Cola” in S. Agata del Bianco, suo paese natio.
E’ vero, ho avuto la fortuna e il piacere di
incontrare diverse volte Saverio Strati. Era sua abitudine ritornare con una
certa regolarità a S. Agata del Bianco, ciò per riposarsi, ma anche per
lavorare ad alcune sue opere. Le bozze de Il
selvaggio di Santa Venere (Premio Campiello 1977) sono state, se mal non
ricordo, riviste e corrette nella casa di contrada “Cola” posta su di un poggio con lo sguardo sul mare Ionio (una
vista che abbraccia circa 50 Km di costa- capo Bruzzano- Punta Stilo). Era sempre
gentile, misurato nei giudizi, ed anche un po’ geloso delle sue cose. Ma ero
troppo giovane per capire la grandezza della sua arte, mi accontentavo di
dialogare sulle bellezze della nostra Magna Grecia, sul fatto che questa era
stata tradita dalle nuove mode e dalla violenza della malavita. Ricordo le sue
esortazioni a lavorare in difesa della civiltà contadina. “E’ il nostro humus,
non tradiamolo”, soleva ripetermi. Le sue parole facevano trasparire l’angoscia
per un mondo ormai preda del cosiddetto vivere moderno. Una lezione che non ho
dimenticato e che, tra l’altro, sta alla base delle mie recenti ricerche etnografiche.
Gli ho fatto avere “La Koinè
agro-pastorale nella Locride (Massari e pastori tra medioevo e modernità) Age,
Ardore Marina 2010, mia ultima fatica antropologica. Per telefono si è detto
commosso, ricorda molti dei protagonisti citati nel mio saggio, le numerose
foto lo hanno aiutato a ricordare alcuni eventi del suo/nostro passato. Per non
disturbarlo, mi limito a qualche sporadica telefonata.
In un
recente saggio, lei ha scritto che Saverio Strati si è fatto da solo, ha
edificato la propria scrittura lontano dagli odierni “ascensori sociali”. Vuole
spiegarci meglio tale concetto?
Fino a vent’anni, Strati ha fatto il muratore, non si
è mosso dal paese, ha conosciuto la fatica, quella che emana sudore, che rende
gli uomini carne bruciata dal sole o, diversamente, scalfita dal vento e dal
freddo che non manca nelle montagne calabresi. Ha lavorato ad Africo Vecchio,
prima che l’alluvione dell’ottobre 1951 lo rendesse un paese fantasma. Qui,
poi, ha ambientato il suo primo romanzo (La teda, 1957). Ha narrato dal di
dentro l’amara realtà di Terrarossa, il suo isolamento, la sua particolare
condizione antropologica. La scrittura stava, pur se lentamente, lievitando nel
suo animo e, spinto da un bisogno vero quanto incontenibile, intraprese la via
degli studi. A Messina, assieme a Walter
Pedullà e Carmelo Filocamo, fu allievo del grande critico Giacomo de Benedetti,
che, letti i suoi primi racconti, lo incoraggiò ad andare avanti “segnalandolo”
alla Casa Mondadori e ad alcune importanti riviste del tempo (“Il Ponte” etc). Era un “ascensore sociale” lecito, di quelli che,
appunto, segnalano un valore vero, non
un fesso qualunque privo di talento. Certo, dalla sua ebbe anche la fortuna. In
quegli anni il cinema era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti
popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi
subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché
anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a quella cineasta.
Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e
in numero notevole. A mio modesto avviso, le pagine più belle su Strati sono
state scritte da Pasquino Crupi, che gli ha dedicato un’intera monografia,
Walter Pedullà, Giuliano Manacorda e Geno Pampaloni. Strati abita da circa
quarant’anni a Scandicci, alle porte di Firenze, al quarto piano di un
fabbricato privo di ascensore (sic!); egli ha dedicato la sua esistenza
all’arte, al punto da non pensare ad altro, ai soldi, ad esempio. E ha dovuto,
a malincuore, chiedere per sé la Bacchelli, un sussidio per continuare a
vivere. Altro che ascensore sociale! Strati ha sempre pensato alla sua
Calabria, se la è cucita addosso per sempre, come delle stimmate.
Saverio
Strati, il primo dicembre prossimo, sarà insignito della “laurea ad honorem” in Scienze letterarie (Filologia Moderna) presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Cosa ci dice?
L’Unical ha voluto con forza che a Saverio Strati fosse
conferito tale titolo. A tal fine, il
ministro Gelmini è stato “incalzato” a più riprese perché firmasse l’autorizzazione
di sua competenza. Tra i principali sostenitori di tal evento vi sono i Proff.
Vito Teti, Nicola Merola, Margherita Graneri e Raffaele Perrelli, Preside della
Facoltà di Lettere. Vito Teti (ordinario di Etnologia e Direttore del Dipartimento
di Filologia e del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo) è amico
dell’artista calabrese, si stimano da qualche tempo; l’etnologo di S. Nicola da
Crissa ha pubblicato parecchi saggi sullo scrittore di S. Agata del Bianco, dove,
oltre alla valenza letteraria, ha tratteggiato con maestria il valore
antropologico della sua opera. A
Saverio Strati, negli anni cinquanta, mancava solo la discussione della tesi
per conseguire la laurea in Lettere. Subito venne la letteratura, il tempo
doveva essere impiegato per edificarsi scrittore, e il titolo fu messo da
parte, con grande dispiacere per i suoi genitori-contadini, che speravano tanto
in un figlio laureato. Peccato che la salute cagionevole non consenta al nostro
amato artista di partecipare all’importante cerimonia (a ricevere per
lui la preziosa pergamena sarà sua nipote Palma Comandé, scrittrice); sarebbe bello assistere alla sua emozione,
nel mentre – di certo- dedica la preziosa onorificenza anche ai suoi cari
genitori.
Se le affidassero l’incarico di scrivere
la motivazione della laurea ad honorem a Saverio Strati, cosa scriverebbe?
“ A Saverio Strati, nato a S. Agata del Bianco il 16
agosto 1924, è conferita la laurea ad honorem in Scienze Letterarie perché per
mezzo dei suoi numerosi romanzi sulla civiltà contadina e l'emigrazione del
popolo meridionale, ha saputo dare dignità e fisionomia a un mondo che,
altrimenti, la cultura ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore
delle ipotesi, trasformato in mero
folclore".
mercoledì 13 ottobre 2010
Entroterra in agonia
PER SALVARE LE NUMEROSE ZONE INTERNE CALABRESI ORMAI IN AGONIA, BISOGNA NON PERDERE ALTRO TEMPO PREZIOSO
VI E’ IL RISCHIO CONCRETO CHE INTERE COMUNITA’ DELL’ENTROTERRA ABBANDONINO PER SEMPRE I LUOGHI D’ORIGINE
di Vincenzo Stranieri
Vivo da sempre in un piccolo comune della vallata La Verde (Locride). Credo di avere scelto una vita stanziale fin dall’infanzia, quando tutto appare vasto e privo d’incognite. L’adolescente, come è giusto che sia, pensa alla vita utilizzando i riferimenti più prossimi: la famiglia, gli amici, la scuola, i giochi, che rappresentano un mondo conchiuso, un bozzolo che attende di aprirsi al giorno che nasce.
Si era figli di contadini, negli anni ’60, pochi gli artigiani ed i professionisti. Le nostre madri, come pure nonni e zie, si presentavano ai nostri occhi come un unico blocco affettivo, simboleggiando le tradizioni e i riti della civiltà contadina: abiti neri indossati per la perdita di qualche familiare, donne davanti alle bocche dei forni comunali nell’atto di cuocere il pane prodotto con grano proprio, i dolci tradizionali, i giochi di un tempo e, soprattutto, la vita all’aria aperta, tra i vicoli stretti del paese, senza i pericoli dell’odierno traffico automobilistico. E’ vero, il mondo cambia, prosegue nel suo lungo cammino. Ma un adolescente non può capire che la vita è un viaggio, spesso accidentato, verso il cosiddetto mondo adulto: famelico e privo di scrupoli. E quindi anch’io non ero preparato a comprendere, crescendo, che la mia terra, la mia regione erano/ sono ancora sottosviluppate e che bisogna/va adoperarsi per mutare in meglio le cose.
martedì 12 ottobre 2010
martedì 5 ottobre 2010
CORRADO ALVARO (S. LUCA 1895- ROMA 1956)
Fu una piccola scossa di terremoto, che si sentì in un solo paese, un paese povero e quindi trascurabile. I giornali ne parlarono in tre righe, e non riferiscono che Procopio aveva perduto sotto le rovine della sua casa lo stipo che era il solo mobile da lui posseduto fin dal giorno delle nozze.
C. Alvaro, Piedi nudi, in Il meglio dei racconti di Corrado Alvaro, oscar Mondadori, Cles, 1990, pag.69)
E’ vero che le cose presenti non ci interessano più, ma i pensieri, gli affetti, i dolori di ieri, vengono avanti nella memoria come violenze e ingiustizie…brucio tutto ancora come le pietre che buttano nella notte le vampe del giorno estivo.
domenica 3 ottobre 2010
Maria Multari (A cantunera), Caraffa del Bianco..........
Maria Multari, (A cantunera) era figlia di un addetto alla manutenzione delle strade provinciali della vallata La Verde. Abitava in Via P. di Piemonte, in una casa piccola ma decorosa. Fu madre di ben sette figli maschi; una famiglia numerosa che i coniugi Alecci (lo sposo si chiamava Domenico Alecci, uomo buono e lavoratore onesto) hanno portato avanti con enormi sacrifici ma anche con gioia ed amore, mai facendo pesare ai loro figli le non poche difficoltà economiche cui bisognava adempiere.
A cantunera era una specie di chioccia. Noi bambini frequentavamo la sua casa tutti i giorni; giocavamo con i sui figliuoli più piccoli (Pietro, Mario e Aldo), specialmente e nucigli, cu piroci, a libera, cu gialoffu, u palloni, ca carrozza i lignu. Non perdeva mai la pazienza, quando avevamo fame ci dava il buon pane fatto nei forni a legna, ci trattava come dei figli, insomma.
martedì 28 settembre 2010
L'ETA' MATURA DI SAVERIO STRATI
LA SUA ARTE E’ LA TESTIMONIANZA DI UN IMPEGNO LETTERARIO CHE AFFONDA LE RADICI IN UN MERIDIONALISMO PRIVO DELLE ANTICHE SCORIE A SFONDO POPULISTISTICO.
di Vincenzo Stranieri
Quando Saverio Strati tornava nella sua S.Agata con una certa regolarità, nella casa della mitica contrada Cola da dove ha avuto inizio il suo importante viaggio letterario, ero ancora troppo giovane per capire appieno l’importanza della sua opera. Nelle nostre brevi chiacchierate (anni ’70), mi colpivano particolarmente due cose: la rabbia positiva che animava la sua arte, l’amarezza, profonda, dello scrittore per la gelosia, la totale mancanza di solidarietà e di spirito di aggregazione che stavano/stanno alla base dell’arretratezza culturale ed economica della Calabria. “C’è sempre stato in Calabria uno spirito feroce di autodistruzione; la storia stessa della nostra regione ha questa terribile impronta”. La stessa gelosia, o ignoranza, che ha impedito, nel 1977, quando gli è stato assegnato il premio letterario Campiello per il romanzo “Il Selvaggio di Santa Venere”, alla gente del suo paese di esprimergli un augurio, un semplice gesto capace di testimoniare l’orgoglio nei confronti del “compaesano” riconosciuto ancora una volta scrittore valente, testimone e prodotto di una terra sì periferica e marginale , ma che, grazie anche ai suoi libri, poteva cominciare anch’essa il suo viaggio verso la cultura e dunque verso quel riscatto socio- culturale agognato da secoli.
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