martedì
4 gennaio 2022
SALOTTI TELEVISIVI PRIVI DI SENTIMENTI VERI
NO ALLA PORNOGRAFIA DEL DOLORE E ALLA
SCARNIFICAZIONE DEI SENTIMENTI
La pagina di un
qualsiasi quotidiano d’oggi contiene una mole di notizie che un uomo del
Settecento - ad esempio- avrebbe ottenuto in non poche decine
d’anni. Notizie su notizie, rigagnoli d’inchiostro viaggiano per il mondo
in cerca di fedeli lettori. Ma la notizia, oggi, corre, anzi dilaga, per mezzo
di internet, si mescola a immagini colorate pregne di proposte varie, ed
appare difficile appropriarsi veramente di questa neo-babele che blatera
dettagli su dettagli, proponendo, spesso, una realtà virtuale fatta di niente. Meglio
oggi che ieri, naturalmente, ma è pure opportuno quanto necessario
capire che qualsiasi cervello umano non è in grado di sopportare questo
bombardamento mediatico quotidiano. Non si tratta di censurare nessuno, bisogna
invece non precorrere con l’attuale celerità tempi che riguardano l’intimo
della natura umana (oltre che le necessità della nostra madre terra).Bisogna
decelerare la corsa intrapresa, evitando s’infrangersi sugli scogli di una
falsa conoscenza che, col passare del tempo, diverrà totalmente omologata.
Negli ultimi anni
stiamo assistendo a diatribe giornalistiche (carta stampata, tv etc) che
risultano grottesche quanto inutili. Non voglio riferirmi a nessuna di queste
in particolare (l’elenco sarebbe lungo, purtroppo), perché tutte presentano lo
stesso vizio di forma: retorica bassa, demagogia urlata, populismo d’infima
qualità. Nei salotti televisivi si parla di tutto, si giudica con non poca
superficialità questa o quella vicenda, si esprimono valutazioni soggettive che
intendono essere verità assolute. Si discutono sentenze, indagini ancora in
corso senza essere sfiorati dal che minimo dubbio. Vige la presenza costante
del tuttologo, colui/colei che discerne senza pentimenti di terremoti e piogge
torrenziali, di naufragi e violenze domestiche.
Tutto è chiaro, tutto è certo in questi salotti
colorati dove tutti fingono di essere buoni amici. Ma è proprio in questi salotti televisivi che imperano
due tipi di delitti culturali che Rosario Sorrentino (neurologo di fama
mondiale) definisce- cito a memoria- “pornografia del dolore”, “scarnificazione
dei sentimenti”.La nudità del dolore
altrui non disturba i numerosi retori, che affondano i loro bisturi
conoscitivo dentro le carni più profonde della vittima di turno,
scarnificandone, appunto, le emozioni più recondite. Autopsia dell’anima e del
corpo, un po’ come quanto accade in alcune serie televisive americane trasmesse
con solerzia anche in Italia dove gli esami necroscopici vengono mostrati in
ogni loro piccolo particolare, non mancando, naturalmente, di evidenziare il
rosso-cupo della carne umana distribuita in modo ordinato sui tavoli di
altrettanto ordinati laboratori. Il corpo è un giocattolo che va montato e
smontato senza particolari emozioni, come pure i sentimenti.
Il poter parlare di tutto eccita le menti di questi mendicanti del
sapere, fa luccicare i loro occhi, esalta le loro questuanti narici.Deceleriamo
la nostra folle corsa di falsa conoscenza- dicevo- solo così eviteremo gli
scogli appuntiti dell’abbrutimento collettivo.
"lA RIVIERA", PRIMO GENNAIO 2022, P.19
Domenica
26 dicembre 2021
“ L’ uomo è forte” (1938) romanzo di Corrado Alvaro, è
un inno alla libertà,
un grido di dolore contro ogni forma di
Totalitarismo
Inizialmente era intitolato “Paura sul mondo”
Alvaro va riletto, le letture passate non hanno aperto
squarci abbastanza vasti nel ventre della sua opera. E’ necessario accostarsi a
quest’uomo senza pregiudizi, solo così si potrà cogliere la sua intima natura,
che viene fuori in tutto il suo spessore ne “ L’uomo è forte”, romanzo dove
l’impegno civile dello scrittore si evidenzia in una luce particolare. Alvaro,
inizialmente, lo aveva intitolato “Paura sul mondo”, successivamente fu
costretto a cambiarlo in “L’uomo è forte”. Ai censori dell’epoca (1938)
il romanzo parve sospetto ed imposero allo scrittore il taglio di una ventina
di righe e la precisazione che l’ambiente era la Russia. Il regime, così
facendo, mostrò di non capire che il vero intento di Alvaro era una condanna
univoca delle dittature: nazifascista e stalinista.
L’ambiente non era la sola Russia, dunque, ma il
mondo, in particolare quella parte che mirava ad obiettivi di completa
egemonia. L’atmosfera allucinante, le fobie che gravavano sui protagonisti ci
conducano a F. Kafka, precisamente al “Processo” dove J.K. simboleggia
la sconfitta di un’umanità che non ha compreso che nella vita “tutto è
processo”, “tutto fa parte del tribunale”. “L’uomo è forte” è infatti un
romanzo che narra la coercizione che il Potere opera sull’uomo allo scopo di
annullarlo. Un Potere, questo, che si insinua
nella coscienza dei protagonisti, ledendo la loro
identità e sconvolgendoli sul piano morale. E tale violenza è possibile
verificarla dalle prime battute del romanzo, quando Dale, ingegnere minerario,
ritorna in patria dove è ancora viva la lotta interna tra le “bande
controrivoluzionarie” e lo Stato. Ritrova Barbara, amica d’infanzia, e tra i
due nasce l’amore. Ma Dale ben presto verificherà che la realtà di questo nuovo
mondo è segnata dalla coercizione e dalla menzogna, un mondo dove il pensiero è
considerato pericoloso. “Bisogna stare attenti a quel che si pensa. Possiamo
influire sugli altri. E bisogna abituarsi a pensar bene”. Sono parole della
segreteria dove lavora Dale che, successivamente, trovano conferma nel seguente
assunto dell’Inquisitore: “ Tutti pensiamo a cose delittuose. Ecco perché è
giusta l’espiazione. Il male è ovunque, in tutti, se mi fosse concesso dirlo
affermerei che noi amiamo il colpevole”. E sarà proprio questa psicologia forte
a far commettere ai protagonisti del romanzo tradimenti e delitti. Barbara,
infatti, ossessionata dall’Inquisitore, denuncia Dale come ribelle. “Ella sente
che Dale forse opera come tutti gli uomini, con un’energia logica e tenace,
inesorabile come sono tutti gli uomini”. Barbara rifiuta l’intromissione di
Dale nella sua vita, egli rappresenta il diavolo, colui che crea complotti
contro i “salvatori della Patria”. “Era viva. Tra poco avrebbe deposto il suo
carico di pensieri, di angosce, di terrori, era uscita dal mondo virile e
turbolento, entrava nella ubbidienza e nella docilità delle regole”. Alvaro,
attraverso Barbara e Dale, coglie i motivi che stanno alla base del consenso
popolare alle dittature e che collimano in modo impressionante con le tesi di
F.Adorno, esponente tra i più autorevole della “Scuola di Francoforte”. Ecco
come Rossana Trifiletti Baldi sintetizza il pensiero di Adorno a proposito
degli Stati totalitari: “L’efficacia dei dittatori risiede proprio nel fatto
che essi assumono un atteggiamento asociale, e riescono a recepire nella loro
ribellione fittizia la reale rivolta della natura che è stata repressa in ogni
individuo: gli individui vengono così manipolati nella loro ultima reazione
autentica, il “ritorno del represso”, e l’energia che istinti vietati
mobilitano in ciascuno, viene deviata per i fini del regime”. Anche l’istinto
di Barbara viene incanalato: “ Mi sono fidata del mio istinto. Il mio istinto
mi diceva che sarebbe stato opportuno avvertire le autorità”. Per Adorno,
inoltre, il rapporto tra il capo fascista e i suoi seguaci è di natura
libidica, perché la figura del capo “diviene l’idealizzazione dell’io in ogni
suo seguace, l’oggetto di una più immediata e fuorviante identificazione
narcisistica”. Anche Alvaro conosce tale processo. “Barbara sentiva accanto a
costui, l’Inquisitore, quello che una donna sente accanto ad un uomo pieno di
desiderio violento e naturale, di quei desideri che legano contro la loro
volontà due persone. Per poco non l’abbracciava stringendole le mani. E poiché
un grande amore, sia pure come quello, nutrito di uno spaventevole istinto di
distruzione, di una volontà di conquista fatale, non può non turbare una donna,
ella scese quelle scale come se avesse sfiorato un amore cui non poteva
rispondere ma cui la legava tuttavia una legge di natura”. Alvaro, dunque,
coglie con acutezza di idee lo storpiamento che l’Inquisitore (il Potere) opera
su Barbara (l’umanità), evidenziando come “nelle prassi dei regimi totalitari,
l’individuo tocca il fondo della sua estraniazione, viene spossessato anche dei
suoi istinti naturali e nel momento in cui crede di essere spinto da essi e di
attuare la sua ribellione, è mosso come una pedina in senso contrario ai suoi
interessi” (R.T.Baldi). E Dale? Egli corre verso il delitto di Stato. Dice
l’Inquisitore: “ Noi non possiamo arrestare l’Ingegner Dale. Ci è troppo
prezioso. Bisogna lasciargli il tempo di compiere la sua opera fino in fondo”.
Dale, infatti, uccide in direttore della fabbrica in cui lavora credendolo una
spia, ma viene catturato dalle bande controrivoluzionarie che lo affidano a
Isidoro, contadino, per essere giustiziato. Nella parte finale, sostenuta da
dialoghi fitti e penetranti (la metafora su “Le trasformazioni, ovvero l’asino
d’oro” di Apuleio ne è l’esempio migliore), la narrazione dimostra che
Alvaro non sfugge alle sue responsabilità di
scrittore. Dale (Alvaro), infatti, si confronta col contadino
Isidoro e non può fare a meno di costatare che “…sono ridicoli gli
intellettuali, ma non c’è da disprezzarli. Sono fatti così…Ma li hanno allevati
a credere che si possa accomodare ogni cosa, ragionevolmente, ragionando…”. E’
un finale tragicamente amaro, denso di emozioni particolari. Isidoro, simbolo
della cultura d’appartenenza di Dale, media la catarsi di quest’ultimo,
l’indispensabile ritorno alle origini. Egli sopravvive ai colpi
sparatigli da Isidoro (la Risurrezione) e ritorna
nel mondo fragile e mortale, ma è ancora un uomo e nella fuga, che
lo porterà lontano dal Potere, troverà nuovi motivi di riscatto, forse.
sabato 27
novembre 2021
"LA
RIVIERA", DOMENICA 29 NOVEMBRE 2021, PAG.14
“TUTTA UNA VITA” DI
SAVERIO STRATI, RUBBETTINO 2021
Un artista che ha messo da parte gli
strumenti stilistici di un tempo dando particolare rilevanza ad una sorta di
spazio-tempo mentale capace di stabilire un rapporto nuovo con
i ricordi, la memoria di quanto accaduto nel corso di una vita lunga
e laboriosa
A partire
dagli anni ’80, Saverio Strati avverte l’esigenza di rivedere lo stile del suo
linguaggio e, conseguentemente, anche le tematiche di fondo. Fino ad allora,
tranne che nei romanzi IL Nodo,1966, nei racconti Il
Visionario e il ciabattino,1978, e in L’uomo in fondo al
pozzo,1989, ultimo suo romanzo pubblicato da Mondadori, la tematica
centrale è stato il Sud, i suoi problemi secolari, le sue
rinunce, le sue ataviche maledizioni sociali. E in questo è
stato concreto quanto originale, impegnandosi alacremente nella
costruzione di una lingua popolare apparentemente semplice ma,
cosa alquanto rilevante, mai consolatoria. Strati
costruisce, elabora un tessuto lessicale che nei suoi numerosi romanzi porterà
in auge il Meridione, le sue albe e suoi tramonti, i colori di una
terra protagonista di occupazioni secolari e quindi ancora alla
ricerca di una sua identità unitaria.
Di
fronte alle porte chiuse di
Mondadori, suo editore fino al 1989, Strati si sente tradito, ha bisogno di
esprimere il suo pensiero, le sue idee letterarie. Nel frattempo dà luce a un
diario molto intimo (Tutta una vita) datato 1991, che sarà
pubblicato postumo nel luglio 2021, presso Rubbettino, grazie
all’interessamento costante di Palma Comandè, scrittrice e nipote dell’artista
Il testo reca la lucida prefazione di Vito
Teti e la nutrita postfazione di Pasquale Tuscano.
Pino, protagonista del romanzo, appartiene a una famiglia benestante
meridionale che si occupa di costruzioni edili. Il clima familiare è tranquillo
e il giovane sogna di vivere l’esperienza universitaria in una grande città del
nord (Milano) dove, in effetti, studierà architettura e non ingegneria come
avrebbe preferito suo padre. Gli studi universitari non gli comportano serie
privazioni economiche ma anzi un benessere dignitoso.
La città di Messina riserva al giovane amori poco duraturi ma
comunque piacevoli e degni di nota. La città dello stretto, anni ’50, si è in
parte ripresa dal disastroso terremoto del 1908 e offre una buona
Università. Ma Pino sogna l’architettura e le bellezze museali delle
grandi città del Nord, ha bisogno di lasciarsi alle spalle la
provincia, i limiti del paese d’origine.
A
Milano, sua città adottiva, completerà i suoi studi universitari, laureandosi
brillantemente in architettura. Tale esperienza gli consentirà di
appropriarsi di nuovi strumenti culturali, affinare con acume anche
le armi della conoscenza professionale. Pino è comunque preso dalle
bellezze museali, dai dipinti rinascimentali, dalla particolare architettura
della città meneghina a cui si aggiungono le preziose
visite a Firenze, ai suoi innumerevoli tesori culturali. Dicevo che la solidità
economica della famiglia di Pino consente al giovane di guardare al mondo con
occhi meno rassegnati lo scorrere del tempo, sostenendo con un nuovo
anelito i suoi progetti professionali altalenanti tra il territorio d’origine e
il capoluogo lombardo perchè “combattuto fra il
desiderio del rientro e il rifiuto di una società immobile” (G.Carteri).
In alcuni momenti sembra incarnare la vicenza umana
di Rocco, protagonista folle de “L’uomo in fondo al pozzo”(1989).
Entrambi sognano la fama, ma solo Pino, provvisto di una mente
lucida e razionale, potrà godere del successo, seppur gravato da tante
disillusioni sentimentali. Le donne, infatti, rappresentano eros e bellezza
senza tempo, simboleggiano un mondo conchiuso, un abisso dei
sensi incomparabile. E questo nonostante quasi tutte le donne che hanno
conosciuto e amato Pino ne denuncino il suo
apparente cinismo.
Non è stato semplice scrivere di questa fatica postuma di Saverio Strati
(S.Agata del Bianco 1924- Scandicci, luogo d’adozione, 2014).
I personaggi sono tanti, come pure i protagonisti. Pur tuttavia,
va detto che lo scrittore muove i suoi personaggi/ pedine con la
stessa abilità dei giocatori di scacchi. Soprattutto le prime 50/60 pagine
aggrediscono il lettore, quasi lo disorientano, lo sollecitano ad alimentare
meraviglia mista a stupore. E questo perché non ci si aspettava uno
scrittore prezioso custode d’intimi segreti, testimone di vicende
particolari che andavano riversate a futura memoria sulla pagina
bianca. E questo senza particolari pudori. Le vicende
amorose,infatti, esprimono una particolare voluttà, desideri ancestrali che
danno priorità alla carne rispetto alle semplici emozioni
dell’animo.
Cosicché ci si trova di fronte a un’artista che ha ormai messo da parte gli
strumenti stilistici di un tempo dando particolare rilevanza ad una sorta di
spazio-tempo mentale capace di stabilire un rapporto originale con
i ricordi, la memoria di quanto accaduto nel corso di una vita lunga
quanto laboriosa. La circolarità del tempo, del pensiero che si aggancia al
presente-passato-futuro, con l’aggiunta di riflessioni che l’io
narrante rivela al lettore hic et nunc e che, naturalmente, non sono
percepibili dalle figure di primo piano o anche secondarie scelte
all’uopo dall’artista. Quasi un ventaglio della memoria che registra
tutta una vita, appunto. Strati visiona in modo quasi morboso i dati della sua
attuale esperienza con i numerosi avvenimenti del passato, di cui ha memoria
viva e che ha conservato gelosamente in una sorta di scrigno fortunatamente non
più privato.
domenica 24 ottobre
2021
La Padrina, romanzo di Palma Comandè, Rubbettino 2021. Recensione di Enzo
Stranieri del 23 Ottobre 2021, LA RIVIERA, P.19.
LA
PADRINA, terzo romanzo della scrittrice Palma Comandè che descrive
il dramma della donna tra malavita e disagio sociale
La Padrina” di Palma Comandè, Rubbettino, 2021, non è solo un romanzo, è
anche un breviario antropologico, uno spazio dove il narrato cede il passo a
brevi ma intensi aforismi. Credo che la quarta di copertina non renda completo
merito al romanzo, apparentemente volto in più direzioni ma con al centro
protagonisti che in realtà s’identificano in un’unica matrice
sociale, un grumo di speranze deluse, alimentate da un unico quanto
pericoloso carburante: la violenza come riscatto sociale. E le donne, in un
mondo così legato alle antiche usanze (non solo a quelle ntranghitiste-mafiose),
pagano un prezzo inaccettabile, doloroso oltremisura. ll ruolo della
donna all’interno di un alveo sociale che, negli anni ’80, in un
preciso territorio calabrese, è ancora denso di contraddizioni
socio-culturali, che la ingabbiano fino a renderla senza voce. Ci si pensa
ombelico del mondo, s’ innaffiano arroganza e miseria culturale, ma si
rimane sempre e comunque ai margini del mondo, e questo anche quando si crede
d’essere protagonisti in America (Merica), dove per viverci da ricchi
mafiosi si paga un prezzo elevatissimo. Non ci si accorge del ghetto
antropologico in cui si agisce, lontani della società
americana, che
li giudica portatori di tradizioni d’altri
tempi. Al vertice di questo microcosmo c'è la nonna di Marià
(protagonista/io narrante), donna Menù (La Padrina) che, come ebbe a dire in un
secondo momento alla nipote, è divenuta arida e violenta perché si è
sentita creditrice nei confronti di una società che le aveva ingiustamente,
secondo lei, tolto affetti e sangue filiale. La Padrina comanda su
tutto e su tutti. Ogni sua richiesta viene esaudita anche quando potrebbe
sembrare violenta e priva d’umanità. Rappresenta la giustizia in pectore,
simboleggia quello che un tempo veniva definito “tribunale dei poveri”.
Nel piccolo paese del Sud d'Italia dove è ambientato il romanzo non potevano
mancare i sogni, le speranze in un futuro migliore. Cominciamo da quelli
soffocati ancor prima di vedere la luce. Marià e Lisa sono amiche dai tempi
dell'infanzia, da sempre condividono progetti per il futuro.
Lontano dalle fasi in
cui la realtà prende una piega di violenza estrema, la freschezza giovanile e
sognante delle due amiche giunge al lettore come acqua fresca di sorgente
ancora incontaminata. In queste pagine c’è tanta poesia (opportuni, a tal
proposito, i termini dialettali utilizzati per dare la
misura del luogo d’origine). I sogni e
le speranze di Marià e Lisa sospingono verso un mondo
volto al cambiamento, lontano dalle trappole dell’ambiente paesano. Marià
spera di fare la stilista, Lisa di sposare Peppe, il suo amore. Nessuna delle
due, a conti fatti, riuscirà nell'intento e sarà Lisa, in procinto di sposarsi,
a pagare con la vita i suoi sentimenti sinceri per il giovane ndranghitista.
L’uccisione di Lisa e Peppe (che aveva deciso di lasciare il paese per vivere
con l’amata a Milano, rompendo così con i vincoli mafiosi d’origine) è quasi un
delitto annunciato. Da qui in poi si dipana
un narrato vasto, tanti i misfatti compiuti e/o subiti
dai principali protagonisti. Va sottolineato, però, che Palma
Comandè non si ferma alla mera narrazione di vicende di malavita all’interno di
una Koinè immersa nell’arretratezza. Non è soltanto una storia
di mafia, infatti. Nella realtà antropologica di questo mondo conchiuso non c’è
spazio per la donna, che solo nella “fuga” può trovare un suo
concreto riscatto. In questo senso la figura di Marià è
ambivalente, cerca disperatamente d’ essere una moderna
Antigone ma senza potervi riuscire. E per questo dice a se stessa: “ Che
tutto quello che non c’era più, non mi restava che il ripiego in me stessa, a
cercare la pace. Ovunque…nella rassegnazione”. Ma non è, come deducibile da
un’ attenta disamina del romanzo, una rassegnazione priva di
luce. Marià è accusata dalla Padrina di avere tradito gli ideali
della famiglia, perché, tra l’altro, considera la montagna come terra matrigna,
e per questo la disereda, la maledice con inaudita ferocia, sperando
che ella sia sotterrata al più presto nei modi drammatici
che hanno visto morire sua zia Mara Rosa, suicidatasi per sfuggire alle grinfie
sadiche di sua madre (la Padrina). Chiudo con un’altra bella riflessione di
Marià. “Ma l’imbarazzo di Rocco mi riportò drasticamente alle origini. A
quel nostro mondo singolare. Accogliente ma anche respingente. Aperto ma anche
chiuso. Vivo ma amche morto… Quel mondo dei contrasti. Che è tomba ed
è culla. Da cui fuggi , e nel quale vuoi tornare..”.
domenica 11 aprile
2021
GIOACCHINO CRIACO, L’ULTIMO DRAGO D’APROMONTE (Rizzoli, Milano, 2020)
Dopo il romanzo d'esordio “Anime nere” (Rubbettino,
Soveria Mannelli 2008) in tanti si aspettavano una battuta d'arresto del
giovane autore di Africo Nuovo, questo perché i pregiudizi viaggiano veloci e
senza ritegno. Tuttavia Gioacchino Criaco non si è fatto intimorire dai ghigni
sardonici di quanti giudicano senza leggere, animati da gelosie e rancori
capaci di costruzioni malevoli col solo fine di togliere spazio e valore a un
artista che, invece, con caparbietà e intelligenza continua a percorrere il
solco della cultura nazionale e non (alcuni suoi romanzi sono tradotti
all'estero). Detto questo, ho voglia di parlare del suo ultimo romanzo
“L’ultimo drago d’Aspromonte”, Rizzoli, Milano 2020, adornato dalle pregevoli
tavole/disegni di Vincenzo Filosa. L'ho letto a più riprese, mi è piaciuto da
subito, quasi ad ogni pagina dicevo a me stesso che di strada ne aveva fatto lo
scrittore di “Anime nere”, una strada senz’altro accidentata, perché la
scrittura è capace di trabocchetti che possono sortire anche pesanti sconfitte.
Egli, a mio modesto parere, sin dal suo esordio, si è posto un compito, non
facile, ma che sta perseguendo con tenacia, ovvero delineare il vero volto
umano-culturale del suo/nostro mondo nel tentativo di evidenziare non solo le
ombre ma anche e soprattutto le luci. Lui stesso si porta addosso antiche
stimmate, soffre ancora per le gravi contraddizioni che hanno animato per
decenni le “anime nere” nascoste nei fitti boschi dell'amato Aspromonte, e
tuttavia sembra dire loro in ogni suo scritto, che è necessario fermarsi, che
la vita è breve e che bisogna assaporarne la parte migliore. Ma tornando alla
struttura stilistica di questo suo ultimo romanzo, va subito detto che esso
segna una maturazione rilevante rispetto al resto delle opere precedenti e
questo perché Criaco ha saputo non ripetersi. Non mi aspettavo un romanzo così
bello, non mi aspettavo una scrittura così robusta e al tempo stesso leggera,
quasi eterea.
La figura del giovane trasferito quasi con forza in
una comunità dell'Aspromonte per disintossicarsi dalla droga è solo un pretesto
simbolico, una potente allegoria per portare alla luce le ansie dello
scrittore, le sue interne lacerazioni culturali che trovano piena esplicazione
in una necessaria sospensione spazio-temporale utile per portare alla luce le
sue ferite interiori. E questo perché in questo generoso romanzo il
protagonista è sempre Criaco, ogni personaggio lo rispecchia in pieno, gli
ricorda vecchie questioni, ma non rancori, Non è tempo di rancori /vendette, Il
giovane infatti, vivendo a stretto contatto con la natura e gli animali, sta,
se pur lentamente, divenendo un strano eremita : beve molto vino, mangia senza
mai saziarsi , parla con gli ortaggi del piccolo orto, ma è pur sempre inquieto
e insoddisfatto e affida alla natura, appunto, la sua agognata risurrezione.
Quest'ultima si è rivelata una marcia purificatoria per i boschi, e questo
soprattutto di notte, allorquando il popolo dei boschi parla, sussurra, ricorda
al giovane antiche profezie, sogni rimasti incompiuti. Un viaggio dentro le
ombre notturne, i misteri che animano la sua giovane vita . Egli ha così modo
di apprendere uno strano linguaggio: la parola appartiene anche alle piante,
che nel mentre parlano invitano il giovane a compiere fino alla fine il suo
cammino verso saperi antichi ma ancora capaci di forza e magia creativa. In queste
pagine il romanzo cresce di vigore e progettualità (allegorie sospese tra sogno
e magia), ci fa apprendere l'esistenza di un mondo divenuto luogo di fantasmi
stanchi di nascondersi nei boschi di un monte aspro, solitario, sospeso tra
vallate fiorenti e radure senza vita, prive di uomini e anche animali. Ma anche
i rovi, i muri a secco, gli ovili dismessi nascondono tesori perduti, verità
che non desiderano essere sotterrati nella nuda terra. E quindi il viaggio
purificatorio del giovane (di Criaco) deve per forza avvenire nei boschi,
dentro le terre arse dal sole dove un tempo i pastori portavano orgogliosamente
al pascolo le loro greggi. Ed è un proprio un vecchio pastore (saggio e ricco
di buon senso) che rivela al giovane la nascosta verità inerente il suo luogo
d'origine, soprattutto le menzogne a lui taciute dai suoi familiari (da alcuni
vecchi giornali custoditi dal vecchio il giovane scopre la natura criminale dei
suoi, la loro appartenenza alla ndrangheta). “In questa montagna, ci sono solo
peccatori” (pag.163), qui nascono e crescono peccati che vanno espiati. Pure il
porco/sindaco è un animale corrotto, che cura i suoi interessi, che ingrassa
quando non è tempo di uccidere i maiali e dimagrisce volutamente (lo si
risparmia perché denutrito) proprio nel periodo in cui i maiali diventano carne
per l'intera annata. Qui Criaco insiste con maestria sulla leva allegorica che
sorregge l'intero romanzo; gli animali assomigliano alle persone, infatti…”mi
mostrano il rifugio dei peccatori" (p.171). Il finale rimanda a: 1) Lo
scrittore fa ritorno alle origini, quelle vere, le stesse che ancora
custodiscono le forme, la memoria antropologica di quanti dalla montagna sono
stati deportati verso il mare. E la fama di questo popolo, alimentata da
pregiudizi e faciloneria, ha prodotto nelle anime sensibili volontà di riscatto
e profondo desiderio di costruirsi altro rispetto ai facili luoghi comuni; 2)
Il drago che dà il titolo al romanzo, e che generalmente rappresenta le forme
magiche, ancestrali che regolano la vita e i profondi misteri dell'Universo,
nell’opera diviene sia fustigatore (specie a livello onirico) dei peccati
commessi da quanti avidamente hanno remato verso approdi sbagliati, sia fedele
custode delle fattezze antiche, primordiali, di un Aspromonte che non vuole
essere invaso da quanti non ne comprendono la storia e la bellezza. Utopia?
Sterile sogno? Non credo, il romanzo di Criaco è quanto mai realistico:
metafore e allegorie sottendono sempre e comunque alla necessità di proteggere
e valorizzare antropologicamente ciò che in apparenza appare perduto,
sollecitano un impegno verso un cammino non necessariamente assolutorio
rispetto a responsabilità che da individuali sono divenute quasi collettive. E’
il sogno, questo sì, di una rinascita che sempre e comunque celebri senza
retorica le fattezze culturali e storiche del mitico Aspromonte. Ciò non
rappresenta un limite, non circoscrive l’opera in un preciso ambito geografico,
perché in ogni luogo della terra vi è un Aspromonte da conoscere, interrogare e,
soprattutto, da proteggere.
dì 17 marzo 2021
Il seme nelle terre perse, di Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016
Prendo
con un certo ritardo i miei appunti su un saggio dal titolo suggestivo: Il seme
nelle terre perse, di Giuseppe Italiano (Rubbettino, 2016, motivi contingenti
non mi hanno consentito di scrivere prima su questo bel testo che contiene
diversi saggi di natura variegata che hanno come unico baricentro la semina
culturale (mi si passi la metafora) che in ogni lembo di terra potrebbe, se è
vera e viva la decisione di seminare, attecchire in un qualsiasi terreno
incolto. Italiano si è costruito un particolare linguaggio: letterario quanto
basta, chiaro e puntiglioso, perché lui tiene alla comunicazione priva di
fraintendimenti. E in questo egli è proprio bravo, mai s’inerpica su pericolosi
dirupi semantici perché lui è persona mite e priva di retro pensieri. Detto
questo, la miscellanea dei suoi scritti offre-tra ‘altro- un inedito spaccato
del teatro di Mario La Cava- a esempio- la cui struttura scenica e prosastica
aveva tanto impressionato Leonardo Sciascia; per poi ricordarci che anche un
Gramsci ha potuto sbagliare allorquando ha sminuito in modo grossolano e
violento il romanzo Emigranti di Francesco Perri. Italiano mantiene una buona
amicizia con Matteo Collura, cugino di Leonardo Sciascia, e al quale ha
dedicato un prezioso volume. Collura è venuto a Bovalino più volte per la presentazione
di alcuni suoi saggi, e del nostro lembo di terra è rimasto impressionato
positivamente. Italiano parlando di Collura in realtà parla anche di Leonardo
Sciascia, indomabile “moralista” troppo presto venuto a mancare. Non sono
assenti le note di cronaca, naturalmente, ma queste vanno giustamente affidate
al lettori, che invito a leggere questo bel saggio intriso di valori morali
senza tempo.
martedì
16 marzo 2021
“Brevi finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020
“Brevi
finestre” di Domenico Talia, Il seme bianco, Roma 2020, è una sorta di taccuino
contenente note che poco insistono su vicende di mera quotidianità, tantomeno
l'autore registra pensieri staccati da valutazioni storico-politiche
attualmente in auge. Egli s'impegna – tra l’altro - a decifrare i motivi di
fondo che hanno contribuito a impantanare il dibattito socio-antropologico a
livello globale. E lo fa osservando con dovizia di particolari le
contraddizioni della società attuale, ma nel farlo non usa alcun nerbo, il suo
linguaggio è apparentemente calmo e mai scontroso, infatti, Pare di sentire una
voce volutamente flebile, mai volgare, con parole che disegnano la realtà
interna/esterna senza mai scivolare in beceri luoghi comuni, mantenendo sempre
oggettività e senso delle proporzioni. Anche l'ironia di alcune note
è saggia e mai invasiva. E’ un linguaggio- come dicevo- che differisce molto
dalle sue precedenti opere narrative e di viaggio, a dimostrazione della
progressiva maturazione semantica. In questo testo di appunti, infatti, Talia
mantiene un contegno linguistico straordinariamente unitario. Non voglio
riassumere il testo, non è questo che interessa il lettore, ma non posso non
ribadire che l'autore ha saputo con eleganza e maestria descrivere con estrema
incisività la sua attuale visione del mondo, che, a ben vedere, va di molto
oltre strette e BREVI FINESTRE.
“Questo ci indica che in futuro di fronte a scenari
inediti dovremo essere capaci di esprimere forme originali di pensiero e di
conoscenza e definire nuovi e più sofisticati linguaggi che ci permettano di
esprimerli”.(pag.87)
mercoledì
10 marzo 2021
Perché amo a
dismisura l'altra metà del cielo? Forse per le figure femminili che hanno
animato la mia bella infanzia (mamma, nonne e tante zie e vicine di casa), ma
non solo. La Vallata La Verde in cui mi ostino a vivere ha consentito anche
alle generazioni precedenti alla mia di studiare a Locri e a Siderno. E le
belle ragazze dai neri grembiuli erano tante, sorridenti, felici di
acculturarsi. Per noi maschi era un fatto normale, come pure normale era
cercare di conquistare un loro sorriso, uno sguardo donato come pegno di un'età
straordinariamente densa di luce vera. Ci salutiamo con affetto ancora oggi.
Amo le donne e non comprendo dove stia la loro inferiorità. Vorrei ricordarmi e
ricordarvi una frase che conservo gelosamente nella mia agenda "segreta",
un pensiero profondo del grandissimo Corrado Alvaro.
SCAVARSI LA FORMA NELLA DONNA CHE SI E' SCELTA,
CERCARE COME IN UN MONDO (Quasi una vita, p.146).
domenica
7 marzo 2021
MICHELE PAPALIA, SULL’ONORE NOSTRO, CITTÀ DEL SOLE, RC, 2020
Dopo
aver letto e apprezzato il breve prologo del primo capitolo (immagini incisive
anche sul piano poetico) ho pensato che il resto del romanzo avrebbe avuto un
suo celere seguito seguendo i canoni classici del romanzo: azione e
caratteristiche peculiari dei protagonisti, trama e ambiente geografico umano
d’azione; ma poi ho notato che altre sedici brevi introduzioni facevano
capolino a ogni cap. e, conseguentemente, mi sono convinto che era meglio
leggere il testo di Michele Papalia non come un romanzo tout court bensì come
il frutto di diciassette testi narrativi brevi (da notare che il pregiudizio
iettatorio riferito al numero 17 non trova riscontro da parte dell’autore) che,
se uniti, potevano ugualmente reggere l’impalcatura romanzata. E questo perché
ogni breve racconto, nonostante le similitudini dei protagonisti, è autonomo,
non ha bisogno d particolari allegorie, tantomeno di evidenti spazi geografici.
Nei paesi di un’Italia ricca di piccoli, medi e grandi paesi stanno scomparendo
i personaggi tipici, rappresentativi dell’antropologia profonda dei luoghi che,
invece, nell’opera di Papalia rappresentano l’ossatura più sostanziosa,
sintetizzano storie e memorie di un mondo che, purtroppo, non ha retto alla
forza violenta dei tempi mutati. Le fantasie amorose e di rivalsa sociale
(priva di esiti positivi) di Don Ciccio o Poeta che desidera la bella Cata, “ I
capelli color carbone (che) lambivano le punte dei seni”. Ma è proprio quando
la prospettiva della lettura muta, quando si decide di unire i componenti di
questa collana antropologica dedicata a un piccolo paese aspromontano che la
storia prende un’altra piega e i brevi incipit ai capitoli non hanno più la
forza di rimanere autonomi all’interno dell’intero tessuto narrativo. In fondo
non è bello creare sofferenza, penetrare nelle profondità del mondo in cui si
vive, narrarne la storia, evidenziarne soprattutto le sconfitte. Prepotenze, le
stesse che, forse, hanno alimentato il seme maligno dell’Onorata Società, che
rappresenta la nascita e lo sviluppo di violenze altrettanto feroci se
comparabili alle ingiustizie perpetrate dai Potenti di turno ( Il Cigno e
Giosafatto, aristocratici avidi e senza scrupoli). Alla fine non vince nessuno,
le sorti di questo isolato paese dell’estremo Sud non interessano ai più , o
meglio, andando avanti nel tempo, esso, suo malgrado, viene a tutt’oggi additato
come brutto e cattivo, fornace viva della criminalità organizzata. Per finire,
va dato merito a Michele Papalia del suo profondo atto d’amore verso la sua
Platì, dove e nato e dove ha deciso di viverci, e questo, si badi bene, in una
realtà antropologica sì romanzata, ma dove il blocco spazio-tempo vissuto dai
personaggi sembra ancora imperare sulla realtà attuale. Un microcosmo avvolto
in una cornice di luci inquietanti che vuole ricordare a tutto a tutti che
senza lotta non si vince, che maledire il fato vuol dire sprofondare ancor più
nel ventre sterile del vittimismo.
Pieno merito a questo giovane autore, testimone mai passivo del suo mondo
d’origine, proteso , all’occorrenza, verso più vasti orizzonti.
sabato
6 marzo 2021
Alessandro Sallusti intervista Luca Palamara IL SISTEMA (Potere, politica
affari: (storia segreta della magistratura italiana), Rizzoli ed. Milano 2021
Intitolare un romanzo non è cosa semplice. Deve essere
soprattutto tematico, pena facili depistamenti. Mettiamo di voler intitolare un
“nostro” romanzo IL SISTEMA, conseguentemente dobbiamo stare attenti a non
creare equivoci con i Sistemi che imperano dalla notte dei tempi, e che sempre
e comunque si coniugano con il Potere cui appartengono quanti impongono le
proprie ideologie su noi comuni mortali. Oltre al titolo, il romanzo abbisogna
di una bella trama: accattivante, verosimile, e con in serbo qualche vellutata
storia d’amore. Detto questo in soldoni, il discorso sarebbe lungo e faticoso,
ho da dirvi che per leggere SISTEMA (Sallusti intervista Palamara) ho dovuto
pensare all’intervista non come a un’operazione normale di inchiesta
giornalistica. No. per poterla leggere fino in fondo, l’ho dovuta pensare come
si fa per un romanzo: periodo storico, protagonisti, tessitura, trama, esito
finale. Ma non pensiate che la cosa riesca facilmente. Spesso si ha
l’impressione di venire a conoscenza di fatti non più inverosimili, inventati
da chissà quale fervida fantasia. No. Palamara, è vero, è un regista abile del
SISTEMA. Ma non è il solo, purtroppo. Nella piramide del potere inerente la
magistratura italiana egli è forse il più coriaceo, il più accreditato presso
le procure compiacenti. ma vi sono altri numerosi colleghi che lavorano
sottotraccia per il Sistema.
Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora? Solo in
parte. Da anni la magistratura mostra crepe al suo interno, fibrillazioni non
sempre sopite. Si capisce bene dalle confidenze di Palamara a Sallusti,
s’intuisce che il SISTEMA traballa allorquando gli interessi non collimano con
gli obiettivi primari degli organismi interni. Tutti aspirano a qualcosa,
nessuno vuole recedere, crescono così colpi bassi difficili da archiviare,
accuse pesanti da proferire senza alcun ritegno. Crescono pure i Dossier,
informazioni segrete da carpire anche con l’inganno e da utilizzare nei momenti
opportuni. Il magistrato X ambisce, magari legittimamente, a essere promosso Procuratore
Capo di una città a lui gradita, ma deve rinunciarvi perché, stranamente, viene
resa pubblica una sua disavventura, chiamiamola così, verificatasi in passato e
che ora assurge a colpa indifendibile. Tranello dopo tranello, sgambetto
malevolo dopo sgambetto.
Palamara usa un proverbio azzeccato per mostrare le
basi un tempo cementificate del SISTEMA giustizia, ovvero che CANE NON MANGIA
CANE. E invece i morsi sono in aumento, fanno male, logorano i rapporti
storici, inficiano le regole interne al SISTEMA Il nepotismo non
conosce distinzione di classe, un po’ tutti, all’occorrenza,
attingono alla mammella materna. Non sempre è un fatto immorale, si può essere
bravi figliuoli pur in presenza di genitori ingombranti, ben inseriti in ambiti
sociali altolocati. Tuttavia è più facile ritrovarsi contadini quando si
proviene da famiglie dedite da lunghe stagioni all’aratura dei campi. E
quindi il cosiddetto ASCENSORE SOCIALE, strumento per
scalare le irte montagne che conducono a posti di
prestigio, ha una sua peculiare funzione, difficilmente dà spazio e trasporto a
quanti non orbitano negli alvei riconosciuti degli eletti, che hanno conosciuto
SOLO vizi e bambagia. E’ vero non bisogna generalizzare, non sempre
i figli prendono il posto dei padri, ma pochi
s’oppongono al SISTEMA che sorregge certi ambienti legati al
POTERE di turno. Che anche in Magistratura l’ascensore sociale
funzioni senza particolari intoppi è fatto ormai accertato. E questo non
necessariamente tra parenti prossimi. E visto che stiamo parlando di Luca
Palamara, figlio di magistrato, il quale ha dovuto per forza di cose “vomitare”
il malaffare esistente nel suo mondo lavorativo, non risulta giusto
giudicare il mondo della magistratura come un corpo compatto inserito
nel SISTEMA. Lo assicura lo stesso Palamara, che i buoni magistrati ci sono e
che lavorano con dedizione e onestà professionale. Non mi è antipatico Palamara
perché alla resa dei conti, e non solo per difendersi dalle conseguenze, ha
ammesso cose che altrimenti sarebbe rimaste sepolte nell’omertà e quindi
nell’oblìo. Spero tanto che un bel po’ di magistratura si pensioni, che vada a
casa, ha già avuto troppo e senza pagare nulla in cambio. Spero tanto nei
giovani magistrati da poco entrati in funzione, e che forse sapranno stare
lontano da qualsiasi SISTEMA di potere, inaugurando così stagioni nuove e
positive e questo in nome di Falcone, Borsellino e tutti gli onesti
rappresentanti dello Stato (a tutti i livelli) che hanno lottato per
darci un mondo ricco di ideali che tutti noi siamo chiamati
a custodire con estremo pudore.
domenica 12 novembre
2017
VALLATA LA VERDE- I MASSACRI DEI BERSAGLIERI PIEMONTESI
(1861).
di Vincenzo Stranieri
Quanti
cercano di capire i motivi di fondo che portarono alla cosiddetta Unità
d’Italia (17 marzo 1861) è doveroso che lo facciano con rigore e
competenza spogliandosi da pregiudizi ed analisi sommarie. Chi pensa che
il Sud d’Italia sia stato annesso con l’inganno e la violenza non deve essere
etichettato come “ neo-borbonico”, viceversa quanti chiudono gli occhi
(spesso per ignoranza, cinismo e/o per mero interesse di bottega) devono
comprendere che la ricerca della verità vera non porta necessariamente ad una
volontà (infantile quanto storicamente inattuabile) disgregatrice della
Nazione. Indietro non si può tornare, è vero quanto opportuno, ma esigere la
verità, denunciare le carneficine perpetrate dai bersaglieri
piemontesi vuole significare – tra l’altro- quanto sia giusto e
moralmente doveroso dare “degna sepoltura” ai tanti, troppi, morti
innocenti di una processo risorgimentale che ha considerato le loro
vite inutili quanto “politicamente” dannose. E se non fosse che stiamo parlando
di cose altamente serie, verrebbe da canticchiare a mo’ di provocazione la
simpatica canzone di Caterina Caselli ( Nessuno mi può giudicare,…la verità vi
fa male, lo so. Tornando a noi, dal lavoro di alcuni storici non patentati (
per questo, forse, più attendibili), ho appurato, con poco sgomento, che
alcuni comuni della nostra Vallata la Verde- in particolar modo
quelli di Caraffa, S. Agata, Casignana e Bianco- sono stati
investiti dalla violenza gratuita delle truppe savoiarde. Le cose
andarono come segue.
Uno dei briganti che nella Locride giurò
fedeltà a Francesco II (ultimo re dei Borbone a Napoli) e che all’occorrenza
ebbe aiuti dai comitati legittimisti, e sostegno dai numerosi soldati e
sottoufficiali borbonici sbandati, fu Ferdinando Mittica che, con la sua banda,
si era sistemato nelle vicinanze di Platì.
Egli, una mattina del mese di agosto (si era
nel 1861), scese dall’Aspromonte con un buon seguito di giannizzeri armati di
schioppo, e si presentò in Chiesa a S. Agata, mentre l’arciprete Tedesco alzava
verso il cielo l’ostia consacrata che, essendosi questo spaventato, per poco
non gli cadde di mano Sul campanile della chiesa fu issato lo stendardo di
Francesco II e Giuseppe Franco (figlio del Barone don Amato, e
fedele borbonico) fu proclamato sindaco al posto di Francesco Rossi che era un
savoiardo, cosicché la festa finì a tarallucci e vino senza colpo ferire e i
briganti tornarono ai monti.( DIENI G., Dove
nacque Pitagora, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1974, pp. 263-264).
Nei centri di arruolamento borbonici, aperti
a Roma e in altre città degli Stati Pontifici, gli ufficiali stranieri:
spagnoli, francesi, bavaresi, austriaci, piombarono a frotte. Il più noto di
questi fu senza dubbio Jose Bories, il quale in vista di una prossima missione
militare in Calabria fu nominato da Francesco II maresciallo di campo Bories
parte da Marsiglia e punta su Malta con una ventina di compagni, ufficiali
spagnoli, francesi, siciliani, napoletani, e da qui con un trabiccolo parte per
la Calabria dove il 13 settembre sbarca sulla costa ionica, nei pressi
Brancaleone. Il suo intento era di raggiungere al più presto Platì per
unirsi a Mittica. Passa sotto Caraffa. Quando arrivano in contrada “Petrusa”,
dalla prominenza del rione Pizzo partono contro di loro alcuni colpi di fucil,
a cui essi rispondono.
Al Convento del Crocefisso di Bianco, qualche
chilometro più avanti, gli spagnoli (così furono chiamati dagli abitanti della
zona i membri di quel corpo di spedizione) sono accolti e rifocillati dai
monaci. Quel convento era storico. Il principe Carafa in persona, affacciandosi
alla finestra, si ben ignava ogni anno di ordinare “il cominciamento della
Fera” e ivi viveva e pregava Padre Bonaventura da Casignana (al secolo
Giuseppe Nicita, Casignana, 1880-1860), “religioso di santa vita”,
e confessore della Beata Regina Maria Cristina di Spagna la quale, tra l’altro,
gli aveva anche scritto: “ alle 2 il dopo pranzo, Dio mi concesse
un parto felicissimo dando alla luce una bambina”. Sempre in detto
convento, vent’anni prima, il viaggiatore inglese Edward Lear si era dissetato
in un pomeriggio caldo d’agosto. “Un pozzo d’acqua pura”, scrisse,
“ e un secchio di ferro incatenato che ricorderò per tutta la vita. ( INCORPORA
G., Lupa di mare, Age, Ardore Marina, 1997, p.36).
“ Da qui il drappello si avvia verso Platì.
“Bories e i suoi compagni saranno poi, l’8 dicembre 1861,
intercettati a Tagliacozzo dalle truppe italiane (carabinieri, guardia
nazionale, bersaglieri) e fucilati alle 4 del pomeriggio dello stesso
giorno. Per S.Agata e Caraffa incomincia ora la tragedia: il generale
savoiardo De Gori sbarca il 20 di settembre con forze ragguardevoli
a Bianco per una spedizione punitiva e affida la missione al maggiore
Rossi, cugino del Sindaco spodestato di S.Agata. “Si cercano tutti i coloni
che furono creduti manutengoli dei briganti o ligi alla cospirazione”. A
S.Agata il 25 settembre 1861 cadono sotto il piombo dei bersaglieri
presso le Pietre di S. Rocco, site davanti al palazzo baronale: Don Giuseppe
Franco, di anni 33, figlio del barone e della nobildonna Marianna Scoppa;
Francesco Carneli , di anni 22, bracciante; Francesco Priolo, di anni 50,
domestico dei Franco, nato a Reggio; Giuseppe Spanò, di anni 39, mulattiere;
Vincenzo Zangari, di anni 36, campagnolo. Altri mezzadri e coloni dei Franco
furono fustigati con un nerbo bagnato allo stesso posto vicino ai caduti con
l’imposizione di gridare ad ogni nerbata: Viva Vittorio Emanuele! Via l’Italia!
Abbasso i Borboni! Morte a Mittica”. ( MISITANO F.SCO., Il
sacerdote Vincenzo Tedesco, in “Calabria Sconosciuta”, n. 77, pp.79).
A tal proposito “Francesco Sicari, fittavolo
dei Franco, dopo le nerbate ricevute, avviandosi verso casa “zoppicando e
contorcendosi, si lamentava: “O gnura Mariantonia lapriti a porta e lavatimi
prestu cu sali ed acitu, ca sugnu tuttu na caja. Viva Vittoriu e Manueli! Viva
u generali Di Gori!, Morti a Mittica! Morìu compari Vicenzu e Peppi Spanò,
attri ammazzanu! Tutti ndi mmazzanu…Viva Vittoriu, Viva Di Gori” .( DIENI
G., op.cit.. 267).
De Gori era il generale che aveva ordinato il
massacro e le fustigazioni!. Giovanni Franco, fratello di Giuseppe, si salvò
perché, cucito dentro un materasso ch’era indirizzato ad un cardinale, fu
spedito a Roma a bordo della nave “Pagliata”, ormeggiata in prossimità di
Bianco. L’abate don Antonio Franco, un sacerdote della famiglia baronale di S.
Agata, fu catturato a Bianco e fucilato nei pressi del Convento del Crocefisso.
Questi fu incendiato. I monaci però avevano già abbandonato il convento e
s’erano rifugiati: padre Bernardino a Casignana, padre Giacomo ed il
ventinovenne padre Francesco Battaglia a Caraffa. Un quarto monaco (forse il
superiore del convento) fu raggiunto dai bersaglieri in contrada “Gnura
Elena” del Comune di Caraffa ed abbattuto a colpi di fucile. Padre
Francesco Battaglia fu poi arrestato nel suo nascondiglio di Caraffa, dove
viveva la sua famiglia, e liquidato lo stesso 25 settembre dietro l’abside
della chiesa parrocchiale. Nello stesso giorno fu fucilato nei pressi della
chiesetta della “Madonna delle Grazie” Antonio Zappia, di anni 36, nativo di S.
Agata, figlio di Vincenzo e di Elisabetta Mesiti e marito di Agata Sicari. Era
stato prelevato nel suo fondo in contrada “Cannavia” del comune di S. Agata. La
voce popolare narra di un altro fucilato dietro l’abside della chiesa
parrocchiale di Caraffa. Si tratterebbe di un tale, professione tintore, forse
un parente di padre Francesco Battaglia, che anche apparteneva ad una famiglia
di tintori. Purtroppo di questa esecuzione non si trova traccia né nei registri
dello stato civile né in quelli della parrocchia di Caraffa. Giovanni
Battaglia, fratello di Francesco, per sfuggire alla cattura, in quanto anche
lui ricercato, si dovette nascondere per lungo tempo in una stalla di
maiali (hurnegliu di porci). Quando gli spagnoli di Josè Bories
passarono, si trovava con loro un giovane caraffese, denominato “Carzi Randi”
(Pantaloni Grandi), che li aiutava trasportando per loro una cassetta. Un altro
giovane di Caraffa, di nome Giovanni Alafaci, si avvicinò al compaesano per
dirgli di cedergli la cassetta, per un cambio nel trasporto, che lui alla prima
svolta se la sarebbe svignata col carico, del quale poi gli avrebbe dato la
metà. “Carzi Randi” però non cedette alle lusinghe e Giovanni
Alafaci, dopo qualche centinaio di metri , si staccò dal gruppo. Il 25
settembre, giorno del massacro dei filoborbonici da parte dei piemontesi,
Giovanni Alafaci fu accusato, per quei pochi passi fatti con gli spagnoli,
di collaborazionismo insieme a “Carzi Randi” ed iscritto nella lista degli
eliminandi per fucilazione. Entrambi dovettero cercarsi un nascondiglio ed ivi
starsene bene accovacciati fino a quando, qualche mese più tardi, le esecuzioni
capitali furono sospese”. ( MISITANO F.SCO, op.cit.,
pp.79-80).
Ma il ritorno dei Borboni era un sogno
effimero, impossibile da realizzare, troppo le cose mutate, troppo forti ed
organizzate le truppe sabaude.
Dalle montagne di Gerace il 19 settembre
(1861) venne spedito un dispaccio a cura del deputato Agostino Plutino,
comandante mobile di Reggio, col quale si comunicava l’avvenuto
sbaragliamento della comitiva Mittica e degli spagnoli, inseguita verso
il territorio di Monteleone dal De Gori e dallo stesso Plutino. Il Mittica
veniva braccato come una belva sanguinaria. Questi, contro una mobilitazione così
grossa, aveva poche speranze di uscire vivo. Al brigante fu teso un agguato
sulle montagne di Platì dal capitano delle milizie di quel Comune, Ferrari,
assieme a sette guardie nazionali. Mittica morì alla prima scarica con il
compagno Loseri. Decapitate, le teste furono portate sulle baionette a Gerace
dove il Generale De Gori, che lì aveva il quartier generale, ordinò il
seppellimento. Il Mittica venne tradito dai suoi stessi paesani dietro
compenso.
(CATALDO V, Cospirazioni,
Economia e Società nel Distretto di Gerace in provincia di Calabria Ultra Prima
dal 1847 all’Unità d’Italia, AGE, Ardore Marina 2000 , p. 499.
Anche Borjes e compagni rimasero vittime
dell’illusione che avevano loro inculcato Ruffo e Clary, e saranno fucilati con
la stessa ferocia riservata al Mittica ed ai suoi pochi fedeli.
In ogni caso, la reazione dell’esercito
Regio, rappresentato nel nostro Distretto dal Generale De Gori, fu esagerata e
priva d’ogni umana pietà, sentimento, quest’ultimo, che dovrebbe appartenere al
cuore degli uomini in ogni tempo e situazione. La povera gente aveva accolto il
brigante Mittica per paura e ignoranza, non certo perché approvasse le sue
idee, c’era poco da approvare e da capire in quel frangente storico. I
piemontesi hanno commesso eccidi con efferata rabbia e con l’esagerata certezza
di essere nel giusto; hanno ucciso a sangue freddo gente inerme nei pressi
della casa di Dio; hanno inseguito e trucidato persone che non avevano avuto
alcun ruolo decisivo nella scelta borbonica di riappropriarsi del Regno. E
dunque l’impronta lasciata nella terra di Calabria era stata quella del sangue
e del terrore, dell’istituzione forte che badava non ai morti innocenti ma alla
cosiddetta ragion di Stato ( sic!).
domenica 12 agosto
2018
Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018
Di
Vincenzo Stranieri
Il cielo comincia dal
basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018, è una
storia corale in cui l’autrice rivela un impegno creativo privo di sterili
rimasticature, distante dalle norme di base del fare romanzo. Potrebbe sembrare
- a una lettura superficiale- che tutto giri intorno all’io narrante e al suo
naturale alter ego (Rosa Sirace) e che il resto rimanga imprigionato
nell’angusto spazio- se pur utile- della subalternità. Così non è.
L’autrice, infatti, narra dal di dentro il suo mondo (interiore e fisico), ne
fa parte a pieno titolo, i cosiddetti altri sono importanti
perché riempiono la sua vita di miti e sogni. Cosicché
la sua scrittura delinea le tappe più rilevanti dell’esistenza
controversa dei numerosi protagonisti della sua fatica letteraria. Una saga
familiare che assorbe la storia antropologica di quanti chiamati ad
avere il ruolo sul palcoscenico creativo dell’autrice, e che
carpisce per custodire quanto accaduto e accadrà al suo cospetto, nel tentativo
riuscito di dare chiara luce alle genti che s’incrociano con la sua vicenda.
Una tecnica narrativa non facile ma ben riuscita. Tanti microcosmi
sotto un’unica regia, che agisce per conto di un impegno prima di
tutto poetico (“Ma un giorno io ho dichiarato d’essere pronta a
scodinzolare nel vento, pur di non perdere il cielo di vista”), )
con l’intento precipuo di conoscere e sorreggere la memoria di
comunità in estremo affanno demografico. Il luogo dove ha deciso di
vivere Rosa è un piccolo paese del Sud, infatti.
“In quel
preciso momento sentii d’amare il Sud
perché ti lascia
campare senza chiederti nulla,
come una melanzana
viola
nei campi rossi di
tramonto”.
L’incipit anticipa in
qualche misura il viaggio narrativo della Serazzi. “Antonia Cristallo,
mia nonna, dice che noi fummo sempre poveri e mai tamarri”.
E’ vero, è un Sud
povero legato alle antiche norme della civiltà contadina.. In questo mondo
sospeso tra tradizione e modernità ritorna Rosa Sirace, dopo avere concluso gli
studi universitari a Perugia, ma il capoluogo umbro ha lasciato in lei tracce marginali
perché ella sente battere nel suo cuore la città alle pendici del Vesuvio, la
Napoli dove da piccola andava a trovare nonno Giuseppe Sirace.
Una città dai
forti contrasti culturali e antropologici che ha molto influito sulla sua
formazione e che vengono anch’essi catapultati nel microcosmo calabro eletto a
solido domicilio. Tutto è autobiografico, anche quanto non realmente vissuto
fisicamente, l’importante è quello che si vive con l’animo, l’autrice narra-
come anticipato- dal di dentro una Koinè che ancora intende
resistere ai tumulti sociali della cosiddetta modernità.
I capitoli sono
introdotti da citazioni bibliche pertinenti quanto allusive.
Di certo Sonia
Serazzi è un’attenta studiosa della Bibbia, che elegge a guida spirituale sia
quando si rivela atto d’amore (“Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e
sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore degli
eserciti ha parlato” ), sia quanto ammonisce e condanna (“I sazi si
sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati”).
Ma la scrittrice, nel
corso del suo narrare, lascia trasparire anche un “necessario” atteggiamento
laico, lasciando che le tessere narrative traccino i tratti
psicologici più salienti dei pochi abitanti rimasti in paese, nonché
quelli dei suoi familiari più stretti, senza caricare i protagonisti di uno
spirito religioso pervasivo o caritatevole.
Capitoli medio brevi
bisognosi di spazio, d’ossigeno puro. Da qui, all’occorrenza, una certa
distanza tra i diversi paragrafi, in sé racconti già definiti.
Pregni di sottile
ironia e affettuoso sfottò sono i nomignoli appiccicati ad alcuni stretti
familiari. Nicca Fiori, madre della protagonista, alias Baronessa di
Barbamannu, Guido Sorace, il padre, alias Il Viscontino di Verolea,
e poi il nome vero della nonna, Antonia Cristallo, che potrebbe ugualmente
sembrare un nomignolo, donna dal carattere coriaceo, che pretende- forse a
ragione- di avere un ruolo pedagogico nei confronti dell’amata nipote che
incorona come Rosasua. E poi i vicini di casa, gli
amici, alcuni dei quali provvisti di nomignoli calzanti.
Ma è un mondo in decomposizione, purtroppo. La
Serazzi, pertanto, ha fretta di salvare memorie, di riempire il suo onesto
taccuino di fatti, vicende in grado di restituire corpo e carne ai protagonisti
della sua terra, un mondo pregno di antico sudore capace di
preservare e trasmettere dignità e forza d’animo.
Face Book non puo' ( non deve) sostituirsi alla vita vera)
Si rende necessario
rientrare nei ranghi. Ha ragione Giulia Galletta, FB non può sostituirsi alla
vita reale, fatte di regole alquanto diverse da quelle del web, dove le
emozioni possono trovare maggiore spazio e consenso. I profanatori del tempio
(i ladri che hanno derubato la Santa Patrona della nostra piccola
comunità) oltre ad avere compiuto un gesto sacrilego stanno creando malumori e
malintesi all’interno del Gruppo. Ciò può solo produrre fratture e sterili mugugni.
Di certo, chi di dovere sta lavorando al caso, e sarebbe utile stare in
attesa degli esiti conseguenti. Finora il Gruppo ha lavorato bene, ognuno ha
dato quello che ha potuto, e senza alcuna voglia di protagonismo. Lo ha fatto
per amore del proprio paese, della sua storia, del mondo contadino che ha
consentito a tutti noi di andare a scuola, di professare un mestiere decoroso.
Il solo “mi piace” non equivale ad essere omertosi, semmai il contrario. Quando
qualcuno del Gruppo sintetizza bene le vicende, le argomenta in modo
esauriente, allora risulta inutile quanto retorico ripetere
concetti conchiusi. In certi momenti della vita, bisogna frenare gli
impeti, comprendere che si è scelto di far parte di una grande comunità (FB) e
che ognuno può equivocare anche una semplice parola, e con ciò accrescere
la suscettibilità di quanti si sentono tirati in ballo. Facciamo tutti un bagno
di umiltà e continuiamo a dare voce e sostanza al nostro Gruppo in modo
unitario. Non ci sono colti e meno colti, ognuno è importante.
Forse ha ragione
Umberto Eco quando scrive:
Chiesta Matrice
"S.Maria degli Angeli " di Caraffa del Bianco (RC)
Ciascuno di noi ogni tanto è cretino,
imbecille, stupido o
matto.
Diciamo che la
persona normale
è quella che mescola
in misura ragionevole
tutte queste
componenti, questi tipi ideali.
Umberto Eco,
Il pendolo di Foucault, 1988
venerdì 10 febbraio
2017
Morire è semplice. Il suicidio del giovane precario.
09 febbraio 2017
Morire è molto
semplice, difficile- spesso impossibile- è vivere nell’alveo di una società
(tutti noi) poco premiante, sorda alle richieste d’aiuto dei giovani. E sì che
hanno strasudato, i giovani, per diventare uomini pronti ad occupare un giusto
ruolo nel mondo del lavoro, disposti a esprimere una professionalità
fresca e degna di essere messa alla prova. Mi ha molto colpito la lettera di
Michele ( 30 anni, suicidatosi l’altro giorno, pubblicata sul “Il Giornale”),
che ha deciso di lasciare il mondo terreno perché nessuno l’ha aiutato a
trovare un lavoro, a sfuggire ai giorni privi di prospettiva, a dipendere in
tutto dai suoi genitori, persone splendide distrutte dal dolore . Michele aveva
tanta voglia di vivere, ma le delusioni, tante e ingiustificate, hanno
lacerato il suo giovane cuore, demolendo la fiducia in se stesso e negli altri
I genitori hanno
chiesto che la lettera del figlio fosse pubblicata integralmente dal Messaggero
Veneto . «Perché questo è un allarme rosso, un grave fenomeno sociale, che lui
ha voluto denunciare».
PRECARIETA'
La lettera di Michele
pubblicata da “il Giornale”
Ho vissuto (male) per
trent'anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di
stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non
oggettivi.
Ho cercato di essere
una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho
cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del
malessere un'arte.
Ma le domande non
finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono
stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di
colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e
desideri per l'altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di
invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la
mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle
aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare
buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso
in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una
grande qualità.
PRECARIATO
Tutte balle. Se la
sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non
lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una
dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative,
sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa
inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.
Da questa realtà non
si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può
pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si
può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente
stabile.
A quest'ultimo
proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po' non
potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente
non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio
assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di
affrontarlo.
Non è assolutamente
questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a
continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di
garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
NO AL PRECARIATO JPEG
Non ci sono le
condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono
rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io
non c'entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo
per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta
di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per
avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il
massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.
PRECARI RAGAZZI CON LA MASCHERA JPEG
Di no come risposta
non si vive, di no si muore, e non c'è mai stato posto qui per ciò che volevo,
quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento
tradito, da un'epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi
come sarebbe suo dovere fare.
Lo stato generale
delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che
sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste
l'alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere,
allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l'ho dimostrato. Mi rendo
conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è
tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c'è
davvero bisogno.
Sono entrato in
questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non
mi piaceva nemmeno un po'. Basta con le ipocrisie.
GIULIANO POLETTI
Non mi faccio ricattare
dal fatto che è l'unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che
fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e
ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo.
Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il
libero arbitrio obbedisce all'individuo, non ai comodi degli altri.
Io lo so che questa
cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la
voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza
sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice
facendo il tuo destino.
Perdonatemi, mamma e
papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.
Dentro di me non
c'era caos. Dentro di me c'era ordine. Questa generazione si vendica di un
furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non
odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo
non è un insulto alle mie origini, ma un'accusa di alto tradimento.
30ENNE SUICIDIO LETTERA
P.S. Complimenti al
ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché
ho potuto.
L’OPINIONE.
AL CINEMA CON “ANIME NERE”
VINCENZO STRANIERI IL 23 OTTOBRE 2014.
PUBBLICATO IN AGGIORNAMENTI, COPERTINE, CULTURA,
. Quindicinale IN APROMONTE.
Un mio amico calabrese che vive al Nord è rimasto sorpreso quando, tempo addietro, gli
dissi per telefono che presto sarei andato al cinema a vedere Anime nere del
regista Francesco Munzi, film liberamente ispirato all’omonimo romanzo di
Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) e che, al recente Festival del cinema di
Venezia, aveva riscosso un buon successo. «Perché vai a vedere un film che
tratta di cose che ben conosci. Vivi nel cuore geografico che ha partorito la
‘ndrangheta ed i suoi famuli. Sarà di certo un film che ricalcherà i soliti
stereotipi», così ebbe a rimproverarmi benevolmente il mio amico. É persona
intelligente, nonostante abbia lasciato la nostra terra da circa trent’anni,
conosce bene il suo/nostro mondo d’origine. Qui aveva lottato con impegno
contro i soprusi, i suoi comizi erano vibranti e ricchi di passione giovanile.
Ma il suo consiglio non poteva trovare il mio consenso.
ANDAVO AL CINEMA soprattutto
perché un buon film è sempre un’opera d’arte ed anche perché io sono socratico
per convinzione (so di non sapere), certo che c’è sempre qualcosa d’apprendere.
Inoltre, fatto non secondario, avevo quattro anni or sono recensito
positivamente il libro di Gioacchino Criaco. Il film ha inizio, una strana ansia
mi assale, respiro profondamente alla ricerca di una concentrazione che mi
consenta di seguire una storia che narra dal di dentro un mondo incastonato
nell’alveo antropologico della ‘ndrangheta. È un’opera volutamente lenta, il
regista fa lievitare le singole vicende evitando la presenza d’intrepidi eroi.
Il sangue non scorre a fiumi ed è pure assente l’eco assordante di fucili
ultramoderni in grado di lacerare il silenzio notturno dell’Aspromonte. Guardo
le immagini volutamente velate da un buio trasparente, ascolto le locuzioni
dialettali dei protagonisti. Non ho bisogno di leggere i sottotitoli. É una
lingua che conosco bene. Il pensiero corre veloce, la mente s’arrovella, cerca
un filo conduttore al quale aggrapparsi per non cadere in errore. Mi soccorre
la pausa tra un tempo e l’altro.
PRENDO APPUNTI. Mia moglie li
sbircia incuriosita. Mi chiede perché le scene, specie i primi piani, non sono
nitide. Le dico che è una scelta del regista. Di anime nere come la notte si
tratta, infatti. «É vero – mi risponde – ma devi ammettere che in una terra
arsa dal sole ci si aspetterebbe squarci di luce abbagliante. Ed invece anche
le parole dei protagonisti sembrano prigioniere del buio che incombe su uomini
e cose». Comincia il secondo tempo, la mia attenzione è al massimo, ascolto e
guardo tutto quello che Munzi ha costruito con fatica greve, stante che i fondi
erogati dalle nostre istituzioni locali sono stati esigui se non del tutto
assenti. Siamo al finale, drammatico quanto inaspettato. Anche i miei due
amici, che hanno assistito al film nella fila di fianco alla mia, sono rimasti
spiazzati, increduli per una chiusa così tragica, pregna di profonda intensità
emotiva. Luciano, infatti, uccide suo fratello Rocco (che fino ad allora s’era
goduto lo status sociale raggiunto nel regno del malaffare milanese) colpevole
di non avere saputo proteggere Leo (figlio ventenne di Luciano) eliminato da un
gruppo rivale per avere progettato all’insaputa di tutti l’uccisione di un
potente boss locale.
LEO VIENE consegnato ai suoi aguzzini dal suo
migliore amico (vai a fidarti!). Prima di lui era stato ucciso Luigi, il terzo
dei fratelli Carbone, dedito al traffico internazionale di droga. Solo Luciano
vive stabilmente in Calabria in compagnia del suo gregge di capre. Egli è
lontano da traffici e violenze varie. Prima di ritornare all’epilogo, mi preme
sottolineare come Munzi abbia saputo mettere in evidenza (tutto il film stimola
questa riflessione) lo scontro generazionale all’interno delle ‘ndrine: la
vecchia ‘ndrangheta (composta da quanti negli anni ‘70 avevano eliminato i
capi-bastoni del reggino), e quella dei nostri giorni sempre più smaniosa di
guadagnare in fretta denaro e prestigio all’interno della criminalità
organizzata che, come si sa, è divenuta un’holding internazionale. Il film
presenta delle peculiarità che lo rendono fortemente originale. Munzi, infatti,
compie un viaggio all’interno delle forme culturali di una famiglia calabrese
che si rivela disomogenea e non sempre ligia alle regole del mondo
‘ndranghetistico.
TRE FRATELLI, segnati
dall’uccisione del padre per via di una faida che per lungo tempo aveva
insanguinato il territorio alimentando sgomento e terrore nelle popolazioni del
basso Aspromonte orientale. Lo Stato (rappresentato dalle forze dell’ordine) è
presente solo quando vengono uccisi Luigi e Leo. Lo è per prassi, idem la
chiesa, rappresentata da un giovane sacerdote che, durante il funerale del
giovane Leo, proferisce un’omelia incapace, specie in quel frangente, di
produrre alcuna consolazione. I cuori sono in piena accelerazione, pronti a
scoppiare per la rabbia ed il dolore, nonché per il desiderio di una pronta
vendetta. Non ci sono magistrati, organi inquirenti impegnati a contrastare le
‘ndrine, cosicché non ci sono tribunali, testimoni, avvocati alle prese con
alibi, prove e/o possibili codicilli in grado di aiutare gli imputati di turno.
Non è un giudizio negativo contro la Giustizia e/o la Chiesa, a Munzi interessa
che sia la famiglia Carbone a denudarsi, e questo senza filtri o intromissioni
che ne modificherebbero la vera natura. Trattasi, quindi, dell’affresco amaro
di un mondo ancora legato ad un passato/presente capace di partorire anime nere
pronte ad immolarsi in nome d’insani valori.
IL FILM DIFFERISCE alquanto
dal romanzo di Criaco, ma non per questo ne violenta la morfologia. É una
libera interpretazione del regista, infatti. Andrebbe visto almeno due volte un
film. Di certo qualcosa mi è sfuggito, ma la tarantella no (ballo secolare
musicato in modo semplice ma in grado di creare ritmi vorticosi nella mente dei
partecipanti). Luigi guarda gli altri ballare appoggiato ad un palo della
vecchia baracca che ospita alcune famiglie legate alla criminalità organizzata.
Balla da fermo, mima estasiato i suoi ritmi, sembra posseduto, ne vuole gustare
ogni attimo, sente la frescura della montagna amica dove ha vissuto da piccolo.
Quell’antico ballo gli comunica visioni paradisiache, un’inimitabile pace
interiore. E questo a poche ore della sua tragica esecuzione da parte di un gruppo
rivale. E le donne? Quale il loro ruolo? Sono donne senza sorriso (mogli,
figlie e nipoti), sottomesse a figure maschili che inseguono facili guadagni a
costo della vita. Ogni giorno le sfiora la morte ed i loro cuori si gonfiano
d’eterno dolore. Hanno anche l’ingrato compito di riproporre la ritualità
(ereditata dal mondo greco-romano) dei funerali di un tempo, quelli dove si
recitano litanie (con atteggiamenti da prèfiche) inneggianti le qualità
positive del defunto. Ed anche interminabili pianti capaci di esaurire le poche
lacrime custodite con parsimonia, stante che, purtroppo, un morto tira l’altro.
Ed è bene tenere sempre pronto l’abito scuro. E ciò in contrasto con l’eleganza
della bionda moglie di Rocco, donna del Nord che non riesce a capire il mondo
del marito e che desidera tornare al più presto nella sua Milano dove fino ad
allora aveva goduto di rispetto e privilegi (si era mai domandata il motivo di
tanto benessere?).
DICEVO DEL tragico epilogo. Le
interpretazioni sono molteplici. È certo, però, che senza quel tipo di finale
lo scenario avrebbe avuto come protagonista un mondo senza scampo, privo di
qualsiasi prospettiva. È vero, ciò costa sangue, dolore atroce; il tutto,
infatti, rimbalza pesantemente all’interno della famiglia Carbone, dei suoi
pochi sopravvissuti. Ho letto su facebook diversi post che invitano il regista
a realizzare al più presto la continuazione del film, una sorta di Anime nere
2, 3, 4 etc. Mi auguro che ciò non accada, spero tanto che questo film sia
considerato un’opera cult (un classico) in grado di sfidare il tempo.
martedì 23 settembre
2014
Francesco Stilo. Un’intera esistenza
trascorsa ad allevare capre e a far laureare i suoi sette figli
Nella foto in alto da sinistra: Santoro
Criaco, Francesco Stilo e sua moglia Domenica Criaco, Andrea Stilo, figlio di
Francesco. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia
Francesco Stilo, classe 1926, è uno dei pochi pastori di Africo vecchio ad
essere tornato a vivere nel luogo d’origine dopo la disastrosa alluvione dell’ottobre
1951. Alluvione che ha comportato la fondazione di Africo nuovo, nei pressi di
Capo Bruzzano.
É un vero resistente, il nostro pastore di lattare, fiero della sua scelta,
affezionato alle sue bestie forse ancor più che agli uomini. Ma non è un uomo
isolato, un eremita che intende sfuggire al cosiddetto mutare dei
tempi. Egli conosce quanto avviene fuori dal suo raggio d’azione
lavorativo, lo sanno i suoi sette figli (tre maschi e quattro femmine, tutti
laureati), che ha voluto mandare a scuola a tutti i costi, sacrificandosi
assieme alla moglie perché potessero realizzarsi.
E dunque, oltre che pastore, il nostro è stato/è un ottimo educatore, una guida
sicura, soprattutto sul piano etico, della propria famiglia. Conosco alcuni dei
suoi sette figli, che vivono l’essere professionisti con dedizione ed umiltà.
Nessuno di loro ha dimenticato il mondo dell’infanzia e, di tanto in tanto,
ritornano nei luoghi d’origine, per rivivere, quasi in un processo catartico,
il tempo dell’infanzia trascorso sul dorso di una montagna sì aspra ma capace
d’infondere valori profondi e sicurezza interiore.
Francesco Stilo è stato un ottimo educatore, ma senza il peso della vendetta
sociale, perché egli non maledice il proprio destino, non lo considera ingrato.
È una saggezza antica, la sua, che lo posiziona nell’alveo di un equilibrio
socio-culturale in grado di proteggerlo dall’invettiva gratuita e dalle facili
lamentele. Occhi e carnagione chiari, lineamenti scolpiti dalla fatica e dal
sole, corporatura media ed atletica, quasi una leggerezza dell’essere, oltre
che del fisico. Desta meraviglia ed anche un po’ d’invidia quest’uomo che
non teme la solitudine ed i rumori della notte che avvolgono le montagne di
Africo vecchio e di Casalinuovo, ormai preda di sterpi e rovi. Non è
difficile immaginare lo sgomento delle due popolazioni montane, in
quell’ottobre del 1951, quando la devastante alluvione procurò gravi danni ad
uomini e cose.
Nella foto in alto la tosatura delle pecore. Africo vecchio, 13 giugno
1976, altopiano Milia
Un diluvio universale in cui la chiesa divenne il solo rifugio per combattere
la malasorte, nel mentre la preghiera si trasformava in disperata implorazione,
riconoscimento del limite umano. In quell’ottobre del 1951 successe mezzo
finimondo, piovve incessantemente per alcuni giorni, la montagna franò in più
punti portando con sé uomini, animali e case a fondo valle.
Questo è il modo più drammatico per ritrovarsi senza alcun bene materiale,
senza un tetto dove ripararsi e soprattutto senza un’attività lavorativa né
riconoscimento del limite umano. E alla violenza della natura s’aggiunse
quella politica, e le due comunità, da secoli abbarbicate sui crinali della montagna,
si trovarono, loro malgrado, a vivere prima in baracche di legno e poi in
piccole e mal costruite case popolari poste a poche centinaia di metri dal mare
Ionio (Capo Bruzzano), detto u Capu. Facile immaginare lo
sgomento, intuire la paura per un futuro che appariva lontano ed incerto, ma la
violenza era stata perpetrata e bisognava cominciare daccapo.
E il passato? Bisognava negarne l’esistenza? Allontanarlo dai
pensieri? Violenza su violenza, dunque, e assieme alla cultura di un
popolo s’era persa la vasta gamma di mestieri che ne sorreggeva l’economia, pur
se povera e fragile. Ed è proprio a questo che Francesco Stilo ha voluto
opporsi: alla perdita della sua identità umana e lavorativa, facendo di tutto
per rimanere pastore.
Alcuni figli di Francesco Stilo vivono con le rispettive famiglie a Reggio
Calabria, mentre Costantino, farmacista per circa vent’anni a Caraffa del
Bianco, si è da poco trasferito in Puglia. La moglie del nostro pastore,
Domenica Criaco, si è stabilita da circa 20 anni a Caraffa del Bianco dove la
figlia Annunziata è stata per alcuni anni medico di base. In realtà, il
nostro pastore si considera un africotu, e non ha per niente legato col posto
di neo-residenza.
Egli è altro da questo luogo, si sente un uomo libero solo a contatto con la
sua mandria che bruca per i crinali dell’antica montagna amica. Il suo scopo
attuale non è quello economico, la sua ricchezza è il mantenimento della
libertà personale, quella di vivere a diretto contatto con la natura, in un
continuo dialogo con le bestie e le cose, dialogo, di tanto in tanto,
interrotto da qualche altro resistente pastore o da qualche temerario
cacciatore. Torna a casa poche volte al mese, giusto il tempo di rifornirsi di
provviste, per poi ritornare a vivere in libertà le sue lunghe giornate
trascorse tra le montagne amiche*.
Nella foto Francesco Stilo, foto di Enzo Penna
Pastori di Africo Vecchio che fino alla fine degli anni ‘80 pascolavano le
loro greggi nei territori d’origine:
Andrea Stilo, fratello di Francesco, Pietro Stilo, Giovanni Stilo, Pietro
Maviglia, Domenico Maviglia, Costa Stilo, Bruno Criaco (quest’ultimi hanno
abbandonato la pastorizia da circa vent’anni o scomparsi).
L’elenco mi è stato fornito dal medesimo Francesco Stilo.
*La storia di Francesco Stilo è stata scritta alcuni anni addietro.
Attualmente il nostro pastore, a malincuore e su insistenza della famiglia, ha
smesso di fare il pastore a tempo pieno e vive con la moglie a Caraffa del
Bianco. Ma il richiamo ancestrale della pastorizia è rimasto vivo come un
tempo. In un appezzamento di terreno di suo figlio Costantino (contrada “Musco”
in S. Agata del Bianco), oltre a curare l’uliveto e l’orto, ha realizzato un
piccolo Jazzo per pochi ovini. Gli ricordano il suo mondo, la sua infanzia… la
sua vita.
martedì 25 agosto
2015
IL RICORDO. LETTERA NON RECAPITATA A
GIANNI CARTERI
SCRITTO DA VINCENZO STRANIERI - 11 AGOSTO 2015.
-PUBBLICATO INASPROMONTE"IN AGGIORNAMENTI, COPERTINE, CULTURA, LIBRI
E SCRITTORI, RITRATTI
«Se vi viene il sospetto che state per morire
mettetevi una scatola di fiammiferi in
tasca.
Che la notte sarà lunga, lunga…»
Tonino Guerra-
Carissimo Gianni, *
non so di preciso perché oggi sono venuto a
casa tua; ho dubbi sul fatto che il mio sia stato solo un gesto di generosità,
il desiderio di stare accanto ad un amico in procinto di lasciare per sempre
l’avventura terrena cui tutti noi siamo destinati.
Forse è stato un involontario gesto
d’egoismo, non soltanto l’intima esigenza di salutarti prima dell’estremo
viaggio verso l’eterno.
E di ciò ti chiedo umilmente scusa.
Mai, però, avrei voluto vederti annientato
dal male incurabile che il destino (chi altro?) ti ha imposto senza alcun
ritegno, sconvolgendo il tuo corpo, lasciando che le ossa prevalessero sulla
carne.
Il male, almeno questo, niente ha potuto
contro la tua mente vigile, ma non so se questo sia stato un vantaggio oppure
un altro modo per farti sentire ancora più forte la sofferenza tua e di quanti
ti vogliono bene.
Il tuo respiro, pesante e annegato
nell’affanno, mi ha sconvolto; avrei voluto fare qualcosa, ma niente ho potuto.
Il tuo/nostro Dio ancora una volta non ha
fatto sconti, a modo suo ha voluto indicarti la strada del dolore più irto.
Non hai mai preteso di essere un neo-Giobbe,
dicevi di non averne la statura. Come darti torto!
So di certo che nella preghiera, tu cristiano
impenitente- stai cercando forza e conforto, che i tuoi genitori li senti
vicini in quel cielo celeste che ogni credente agogna. Ti aspetta tua
madre, Peppina Sideri, che ti ha indicato la strada della fede ad anche
quella della scrittura.
Da trent’anni convivi con una grave
patologia che, nel tempo, ti ha indebolito e reso fragile, ma non per
questo domo.
Hai lottato contro la malattia attraverso la
scrittura, scrivendo articoli e saggi sui più importanti scrittori calabresi e
non.
Nonostante la sofferenza, hai sempre
partecipato con generosità e competenza ai numerosi convegni letterari, e di
certo ha ragione Vito Teti quando scrive che “Gianni Carteri è un
intellettuale raffinato, scrittore originale, uomo religioso garbato, buono e
generoso. Un amico vero della migliore Calabria”.
Un abbraccio forte, tuo Enzo Stranieri
S.Agata del Bianco, 9 agosto 2015
*Gianni Carteri, nato a Brancaleone, ha vissuto, dopo il
matrimonio, a Bovalino, Ha collaborato al mensile “Studi Cattolici” e al
settimanale cattolico “Il nostro tempo”. Ha scritto numerosi saggi su Cesare
Pavese e Corrado Alvaro. Nel 1994 gli è stato assegnato il premio “Pavese” per
la critica letteraria ed il premio “Amantea” per la saggistica.
martedì
15 aprile 2014
Il sole e il sangue”, volume di racconti di Domenico Talia (InAspromonte,
aprile 2017, p.23).
Vincenzo Stranieri
Il
sole e il sangue di Domenico Talia (Ed. Ensembel,
Roma, 2014), volume composto da 17 brevi racconti per un totale di 153 pagine,
è una gradita sorpresa. L’autore, nativo di S.Agata del Bianco, è
ordinario di Ingegneria informatica all’Università della
Calabria, ha pubblicato nel 2004 una raccolta dedicata al viaggio (Itinerari
stranieri).
Il bello dei racconti
è che puoi cominciare da dove desideri.
Leggo per primo Treno
Ionico, che inizia con un “Finalmente il treno
arrivò. Lui salì”. Credo che il vero filo
conduttore del libro di Domenico Talia stia proprio in questa breve
locuzione.
Quando il protagonista di Treno Ionico sale sul
treno non ha ancora maturato la consapevolezza che il corso
dell’esistenza è un andirivieni tra il prima e il dopo. Tra quelli che siamo
stati e quelli che siamo diventati.
E’ forse il più bello, intenso racconto di Talia.
Anche perché l’autore si denuda in profondità, non nasconde le sue
emozioni, il suo stupore. "Era partito da una stazione
che aveva ormai quasi dimenticato, come se avesse fatto parte di un’altra
storia, di un’altra vita. Aveva dimenticato il mare, i monti, il treno, quei
rumori, quegli odori, quei paesaggi. Aveva dimenticato quel diverso modo di
sentire il tempo, quella sensazione di essere parte, noi stessi, di un qualcosa
di più grande e di ignoto", p.32.
L’umanità, infatti, vive di stanzialità, di movimento perenne.
E’ il frutto di questa insita necessità antropologica. Viaggi veri, dettati da
motivi diversi, viaggi mentali che scaturiscono dalla necessità di sfuggire a
collocazioni statiche in grado di renderci miopi e ripetitivi.
Ma avviene che anche
quando pensiamo di essere fermi nel luogo in cui viviamo,
continuiamo a muoverci verso qualcosa o qualcuno.
In letteratura, la fantasia si chiama
creatività, rielaborazione delle speranze vissute,
cercate, annotate nel corso di questi viaggi che - è bene dirlo- non
sono né semplici né facili. Anzi. Si può rimanere fortemente
disorientati, travolti. Talia apprende che il ritorno è doloroso, ma
anche costruttivo, ricco di sollecitazioni positive.
In altri racconti (Granelli di sabbia rosso sangue, In tre ore
in un altro mondo, a esempio) viene espressa profonda amarezza per la
difficile situazione socio-economica vissuta/subita dalla nostra
terra (la Calabria), un mondo preda
del malaffare politico-mafioso, ed anche di tanta indifferenza.
In Due suore e due
ragazze viene narrata la storia di quattro donne che intendono
migliorare le condizioni sociali di un piccolo paese del Sud. Il loro impegno
fa paura a quanti sono impegnati a mantenere lo status quo. La conseguente
reazione è quella di sminuzzare le gomme della vecchia Panda delle suore.
Ma il racconto, oltre alla presa d’atto di quanto accaduto, mette in rilievo
che laicità e religiosità debbono, lasciando da parte le convinzioni di fondo
che pure le animano, allearsi contro il male.
Sono questi i racconti in cui maggiormente si rivela l’assunzione di
responsabilità etica dell’autore, che non può e non vuole rifugiarsi nel racconto/reportage.
Il testo, infatti,
è collocato su due piani diversi ma non contrapposti: lo sguardo
dell’autore su quanto ha davanti agli occhi, le amare
riflessioni sul tempo che passa, le cose mutate, il degrado, ma
anche la speranza, il profondo desiderio di vivere pienamente.
E’ un linguaggio leggero, volutamente asciutto ed essenziale. Le vicende
vengono enunciate con periodi brevi, secchi, e
ciò anche quando vengono descritti avvenimenti tragici (omicidi, vessazioni di
stampo malavitoso, etc.).
I 17 racconti in questione, pur prendendo spunto da vicende vissute o apprese
da fonti diverse (orali, soprattutto), hanno il pregio di
ampliare lo sguardo anche sulle contraddizioni del cosiddetto mondo
globalizzato (Nella campagna assolata).
Penso, però, che il meglio l’autore lo dia soprattutto nelle numerose pagine in
cui rivela il suo modo di essere, quando getta lo sguardo sulle azioni di
uomini e cose che ben conosce, quando ne diviene un
credibile portavoce.
Come dicevamo, al
sole caldo e ristoratore della nostra bella Calabria si contrappone
il sangue, l’assurdo desiderio di autodistruzione che
anima quanti inneggiano alla violenza.
L’invito di Domenico
Talia, fermo quanto accorato, è quello
di scegliere la luce del sole al posto dell’orrido
sangue.
sabato
12 aprile 2014
Vincenzo Stranieri (Addio a Saverio Strati….. “l’Ora della Calabria”,
sabato 12 aprile 2013, pp. 1, 35)
Saverio Strati è senza alcun dubbio tra i più
grandi scrittori italiani del Novecento. Essere nati in Calabria, serbarla nel
cuore, amarla, tradurla in letteratura non vuol dire necessariamente essere
solo calabresi. E’ vero che l’humus antropologico è quello in cui si nasce, ma
è pure vero che quando uno scrittore è tradotto in diverse lingue, appassiona
lettori di mezza Europa, allora vuol dire che ci si trova di fronte a valori
universali. Strati, assieme a pochi altri grandi scrittori italiani (Calvino,
Sciascia e qualcun’altro che mi sfugge) è presente anche nelle antologie
americane. La provincia è una forma mentale e non un ambito geografico.
Strati nel narrare il
nostro meridione narra il mondo. Bisogna non cadere nei regionalismi
tantomeno nei provincialismi. O si è scrittori universali o non si è niente.
Nato in Calabria va bene, è la definizione, statica quanto auto lesiva, di
scrittore calabrese che genera ambiguità e confusione. Questo, naturalmente,
vale per qualsiasi artista che opera sul pianeta terra. Scrittore vero è chi ha
un mondo da raccontare. E Strati lo ha, eccome. Nel momento in cui
i suoi libri incontrano il lettore la sua scrittura si spoglia dei
connotati originari e dona ai suoi interlocutori le forme di un’umanità ricca
di storia e di valori. Il problema è il modulo stilistico, la struttura
linguistica che ogni scrittore utilizza per non cadere nella trappola del
già detto e del già scritto. Strati è unico nel suo genere. Inventa
(meglio costruisce) un linguaggio nuovo, tutto suo, e lo dà in prestito alla
sua gente, ne diviene voce narrante. Difatti, da semplice
apprendista-muratore diviene “glossa” della sua gente, cantore del bene e
del male del Meridione, non facendo sconti a nessuno, soprattutto a se
stesso. Siamo tutti debitori di questo grande artista, mai domo, perennemente
impegnato a narrare la storia antropologica del nostro “maledetto sud”.“
Io l’amo profondamente la mia Calabria, ho dentro di me il suo silenzio, la sua
solitudine tragica e solenne. Sento che pure qualcosa dovrà venire fuori di lì:
un giorno o l’altro dovrà ritrovare dentro d sé ancora quelle tracce che
conserva dell’antica civiltà della Magna Grecia”. Narrava dal di dentro,
dicevano, il suo stile cesellava come pochi le forme della civiltà contadina,
ne delineava le fattezze più remote, ne sollecitava la vera conoscenza.
Grande e appassionato era il suo amore per i poveri, i diseredati al punto da
estremizzare al massimo il suo linguaggio, il suo stile iper-realista. La sua
mente conservava una sterminata galassia di personaggi: le vicende
familiari, gli esiti di una semina, i tomoli di grano prodotti, le cattive
annate dovute alla siccità o a qualche improvvida alluvione. Un
amore viscerale profondo, quasi una ossessione implacabile. In quasi tutti i
suoi romanzi, però, egli non poteva non denunciare il nostro cattivo modo di
essere, la nostra cattiva voglia di migliorare le sorti socio-economiche della
nostra terra. Sono “arrabbiature” sincere, non volevano accusare nessuno,
intendevano spronare chi era immerso nel fatalismo, quanti non
volevano/vogliono lottare contro lo status quo. Mentre il mondo cambia, si
evolve, il meridione appare pietrificato. Mentre in altri lidi è giunta la
primavera, nel Sud regna un inverno fitto, un modello sociale che intende
perpetrare le antiche regole. Non è stato uno scrittore sfortunato, però. In
quegli anni (anni’50-’60) il cinema era nel pieno della sua espressione
neo-realista, i ceti popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le
cosiddette classi subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura
italiana. Cosicché anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a
quella cineasta. Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era
recensita con favore e in numero notevole. Poi, però, Mondadori, la casa
editrice che aveva pubblicato la maggior parte delle sue opere, gli
chiuse la porta. Strati, conseguentemente, va in crisi, comprende
che il mondo di cui è stato testimone non riesce a trovare una collazione
ottimale presso il vasto pubblico, nemmeno in quello calabrese. Si sente solo,
abbandonato. Egli merita gratitudine e rispetto, perché- tra l’altro- ha
saputo dare dignità e fisionomia ad un mondo che, altrimenti, la cultura
ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore delle ipotesi,
trasformato in mero folclore. La speranza è che il suo impegno non
venga dimenticato, che le sue opere trovino giusta collocazione nelle scuole e
nelle università. Me lo auguro tanto. Ma il pessimismo, specie in una
regione come la nostra, è più che mai d’obbligo.
Pubblicato da Vincenzo
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LA DONNE D'ASPROMONTE
Nel mondo rurale del
secolo scorso la donna calabrese lavora nei campi, cucina,bada agli
animali domestici, cresce in figli. Così è stato per secoli, le donne
d’Aspromonte lavorano senza sosta, sudano copiosamente nel mentre
trasportano pietre e calce da utilizzare per la costruzione delle
loro piccole case, sfidano le fiumare alle cui rive lavano e fanno asciugare
panni, mettono a bagno le ginestra da cui ricaveranno grezzi vestiti e
larghi mantelli da offrire ai propri sposi .
Mentre
il massaro/pastore, specie quello di lattare (pecore e capre), pascola per
un’intera annata il suo gregge, la donna massara lo sostituisce nella
cura e custodia dei prodotti (lana, formaggi, cereali etc). Un po’ meno
disagiata era la vita della massare, mogli di contadini
benestanti, chiamati massari perché possedevano
terreni che venivano lavorati con l’aratro tirato da una paricchia di
buoi. La minore povertà consentiva loro di condurre una vita meno
insicura. Molti dei lavori domestici, però, richiedevano l’aiuto di più
donne della ruga, con le quali, nel tempo libero,
collaboravano alle faccende domestiche. Al nome proprio della moglie
del massaro, si andava ad aggiungere l’appellativo di donna,
indicante per la gente del luogo, il ceto sociale di appartenenza della donna e
quindi della famiglia. Come ci ricorda Emanuela Chiarantano, l’abitazione
della massara era sempre aperta a tutti e le donne andavano a farle
visita volentieri, in quanto donna saggia e di cuore. Infatti le famiglie bisognose
del paese si rivolgevano a lei per avere un lavoro. In determinate
periodi dell’anno una delle mansioni svolte dalle massaie era di preparare e
poi recapitare u marzegliu, la prima colazione e u mangiari,
il pranzo al marito e ai suoi uomini che si trovavano a lavorare nei campi.
Il marzegliu, indicava la colazione delle otto durante il mese di
marzo, in quanto le giornate erano più lunghe. La massaia raggiungeva con
a cofina n’testa, cesto in castagno, il marito che si trovava
nei campi con un gruppo di altri uomini che lavoravano per lui nel suo podere,
in questa cesta portava pani, livi (vvrivi) e fica
sicchi. Alle volte il marzegliu lo portava la
figlia maggiore, poiché la moglie rimaneva a casa a preparare il pranzo che
successivamente sarebbe andata lei a consegnare. Era tradizione che gli
uomini al servizio del massaru mangiassero tre
volte a sue spese, così la moglie doveva preparare anche la cena,
attendendo e poi servendo i lavoratori. Tutta la ricchezza della famiglia
si basava sui frutti che dava la terra, molto spesso gli uomini al
servizio del massaru ricevevano in cambio del lavoro prestato
parte del raccolto. Vi era una sorta di economia del baratto tra il
lavoro svolto sia dagli uomini che dalle donne, ed i beni che si producevano.
Durante i momenti vuoti della giornata, la donna si sedeva sul mignanu, davanti
la porta di casa insieme con le altre vicine di ruga, a ripezzari
trusci i rrobbi, rammendare mucchi di indumenti della
famiglia, o ricamare le tele precedentemente tessute. La
giornata lavorativa delle massare come quella delle contadine
iniziava prima di quella degli uomini e terminava sempre dopo. Anche alla sera
seppur stanca, con la luce debole della lumera, filava col
suo fusu.
Ora la lumera si
è spenta da un pezzo, a noi il compito di non disperdere la sua preziosa luce.
martedì 7 gennaio
2014
AMORE E INDIGNAZIONE
NELL'ANTROPOLOGIA NARRATA DI VITO TETI ( L'Ora della Calabria, 7 gennaio 2014,
pag.31).
Vito
Teti è un uomo da sempre impegnato ad affinare - con non poca
tribolazione- la difficile arte della “restanza”, suggestivo neologismo da lui
coniato nel suo recente saggio-racconto Pietre di pane (Un’
antropologia del restare), Quodlibet, Macerata 2011, dove
appunto ci spiega che rimanere in paese ”… non è stata, per
tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è
stata un’avventura, un atto di incoscienza , forse, di prodezza, una fatica e
un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è
un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche
dell’identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una
diversa esperienza del tempo”.
Mi piace
l’antropologia narrata - se cosi è permesso dire- da tempo messa in
atto, con passione e competenza, dal Prof. Teti e dai
suoi collaboratori presso l’Unical, particolarmente nell’ambito
delle pregevoli iniziative del Centro di Antropologie e Letterature del
Mediterraneo diretto dal medesimo Teti.
Un linguaggio che si
oppone a qualsiasi manierismo linguistico, in particolar modo a quello
accademico tout court, volutamente tronfio a dismisura.
Un linguaggio che
narra dal di dentro la materia viva delle proprie indagini
demo-etno-antropologiche.
Ricerche
effettuate sul campo, tra la gente, incontrando il territorio, la
sua storia passata e quella recente.
Ma, in questa sede,
intendo ribadire un’altra mia convinzione, ovvero che Vito Teti, antropologo di
professione, si commuove e scrive come un poeta, scandaglia i
luoghi della memoria con la stessa ansietà di chi crede nella forza dei versi.
La sua scrittura,
infatti, cede alla commozione, diventa lirica all’occorrenza, si trasforma in
melanconia creativa quando sorvola paesaggi lunari, deserti dell’anima, paesi
abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio dei poveri, degli
emigranti, di chi ha dovuto lasciare per sempre un mondo conchiuso, con le sue
storie, le sue radici, i suoi sogni, per reinventare altrove quanto lasciato in
paese.
Non mi aspettavo la
comparsa, almeno per ora, di un’opera come Maledetto Sud.
Ciò perché
, specialmente negli ultimi tempi, Teti non si è per nulla risparmiato,
lavorando alacremente sia in ambito accademico che scientifico. E dunque
quest’ultima sua fatica risulta un’ inaspettata quanto gradita sorpresa, nonché
un ulteriore atto d’amore verso la nostra terra.
Spesso si scrive
nella mente, qui si elaborano idee, si appuntano annotazioni ritenute
importanti, per poi, all’occorrenza, trasformare il tutto in scrittura.
Così è stato
per Teti -specialmente nell’ultimo decennio- che
ha accantonato forme e contenuti di quanto ora invece ci propone con
questa sua ultima fatica oggetto di numerose e belle recensioni su giornali
nazionali e non.
Ma torniamo al
linguaggio di Maledetto Sud che – se ben
analizzato- rivela lo sforzo dell’autore nell’edificare un
particolare modulo stilistico; ora discorsivo, quasi colloquiale, per poi
ritornare ad una semantica necessariamente saggistica, stante, appunto, che non
parliamo né di un romanzo né di un racconto.
E’ il linguaggio di
chi parla dal di dentro, di chi ben conosce la materia di cui scrive.
Dal di dentro vuol
dire non sfuggire né ai meriti né ai demeriti appartenenti al nostro meridione,
significa produrre, esprimere non mere analisi
assolutorie ma anche e soprattutto coraggiose assunzioni
di responsabilità .
Amore e indignazione
(odio non è un vocabolo che si addice a Teti) sono sentimenti necessariamente
insiti in chi conosce pregi e difetti del proprio mondo d’origine.
Vi è pure la gelosia
che altri maltrattino, spesso con cinismo e insipienza, la storia
antropologica del nostro Sud, che lo maledicano in eterno, in
assenza di una buona difesa che ne ostacoli pregiudizi ed ataviche
avversioni.
In alcune
pagine, Teti sembra ridare voce particolarmente a scrittori del
calibro di Corrado Alvaro, Saverio Strati , Francesco Perri, Mario
la Cava dai lui amati e studiati con passione quasi viscerale.
E’ bello, pur nella
sua amarezza di fondo, ricordare a mo’ di esempio le parole del
protagonista di Noi Lazzaroni, romanzo di Saverio Strati(
Mondadori, 1972) che, passeggiando per le linde calabrese, si diceva : “Vai
o non vai al Sud, il Sud ti è dentro come una maledizione “.
In altre pagine,
invece, sembra riecheggiare un’annotazione- amara quanto veritiera- di Corrado
Alvaro sul nostro mondo :” Dei Greci, i meridionali hanno preso il loro
carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è
disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l'accusa
di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così
bello!”.
Pertanto, è
bene non accostarsi a Maledetto Sud con propensioni
consolatorie, ricercando soluzioni facili agli eterni bisogni del meridione
d’Italia.
A Teti, infatti, non
poteva sfuggire il fatto che con le antiche retoriche non si
progredisce, che ormai non bastano più le solite argomentazioni
storiche (La proverbiale “Magna Grecia”, la “Malaunità” e conseguente
”Questione Meridionale, la” ndrangheta” e tutto il resto), per giustificare la
nostra inerzia, il nostro atavico fatalismo.
Oggi,
purtroppo, dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di
valorizzare le ricchezze e la bellezza del Sud non sempre trovano
risposte/proposte convinte e concrete presso i nuovi ceti sociali e politici,
incapaci di diventare classe dirigente desiderosa di liberare, davvero e per
sempre, questo luogo.
Servono buona volontà
e soprattutto onestà intellettuale, perché l’oggetto del contendere ha una sua
storia particolare che, però, non ne deve compromettere a mo’ di alibi tutte le
possibilità di riscatto scartate o rifiutate a priori sia dalla classe politica
meridionale (ne abbiamo mai avuto una?) che dalla maggioranza del
popolo meridionale ostinatamente soggiogato dalle solite false promesse
che hanno compromesso la nostra storia passata e recente.
Dobbiamo fare severa
autocritica, invece, spazzare per sempre la nostra attuale (non che in passato
le cose stessero meglio) classe politica che, più dei pregiudizi del Nord,
contribuisce al nostro attuale degrado socio-economico.
Bisogna smetterla di
frignare, di delegare alla malasorte i nostri problemi (veri, reali,
concreti, per carità!). Non siamo stati predestinati a vivere nell’arretratezza
e nell’indigenza.
Fissiamocelo bene
in testa una volta per tutte, questo intende trasmetterci con il suo
prezioso lavoro l’amico Vito Teti, amico non solo mio, naturalmente, ma anche e
soprattutto del suo/nostro Maledetto Sud.
giovedì 27 febbraio
2014
IL NEO-BULLISMO
("L'Ora della Calabria", martedì 25 febbraio 2014, pag.30).
E’ chiaro che il neo-bullisno è alimentato
anche dalle forti sollecitazioni del web, della rete, insomma. L’importante
(vedi- a esempio- la violenza subìta da una giovane studentessa di Bollate ad
opera di una sua coetanea tra l’indifferenza dei compagni presenti
impegnati a filmare passivamente la grave aggressione) è
che tutto corra sul filo invisibile del web, dove le informazioni
prendono strade multiformi.
Una gigantesca mole
di notizie tambureggia la mente degli utenti, una moltitudine senza fine
vittima di un presente connesso a un mondo sempre più virtuale e molto meno
vivo e concreto. Fa pena e anche tanta paura questo imperante modus vivendi
improntato su una vita pensata ma non vissuta.
Le neo-emozioni non
hanno dietro un tempo normale. Si è immersi nel solo presente, non si ha
memoria del passato, tutto è stato sempre cosi, il mondo non è il
risultato di un processo storico lento quanto faticoso, la vita sembra
essere stata cosi, le sue fattezze non sono mai state immerse nella
storia, cosicché il linguaggio dei padri non produce alcuna eco in
questo perenne presente-assente.
Il cuore subisce
accelerazioni improvvise quando il telefonino rimane muto, non squilla in una
qualsiasi ora del giorno e della notte, non scandisce il trascorrere del
tempo.
La vita è dettata
dall’esterno, il nostro mondo interiore è stato formattato e la nostra
mente-hard disk è governata da moderni software che aggiornano in tempo reale
le nostre coscienze di quanto avviene nel mondo globalizzato.
Sappiamo di
alluvioni, incendi, colpi di stato, scontri sanguinosi per una partita di
calcio.
Cosicché tutto si
trasforma in un film la cui visione diviene pericolosamente perpetua.
Per questo motivo ho
pensato alla trama di un mio possibile racconto: una sorta di viaggio
dentro il mondo dei computer.
La storia è questa.
Stefano, anni trenta, con una spiccata vocazione letteraria, spinto dalla
necessità morbosa di apprendere i sistemi che stanno alla base del mondo
dell’informatica, smette di scrivere.
Passano gli anni,
Stefano ha acquisito molte conoscenze su tale mondo, ne comprende la natura e
le sofisticatissime tecniche.
E’ uno scavo, il suo,
dentro le pieghe meno di un neo-linguaggio che, alla fine, s’impossessa della
sua mente: ormai profondamente svuotata, incapace di sollecitargli il dono
della scrittura.
Il computer (la
rete, in particolare) si è trasformato in interlocutore umano, una sorta di
compagno segreto.
Il giovane ha
sacrificato tutti i suoi risparmi per l’acquisto di prodotti tecnologici di
ultima generazione in grado di farlo entrare nei meandri fascinosi della
“realtà virtuale, una realtà quasi perfetta, anche se simulata.
Ha smesso di amare la
sua ragazza. Ama morbosamente Open, il programma che simula orgasmi proibiti,
le forme di ragazze dai corpi giunonici che, all’occorrenza, inscenano strane
danze tribali, riti sessuali che richiamano motivi esotici. Ha pure smesso di
sognare.
E’ il computer a
sognare per lui, trasmettendo alla sua lacerata coscienza immagini sempre più
ipnotiche.
Specie nei giorni di
crisi, s’accanisce a modificare i FILE dell’HARD DISK, brandello dopo
brandello, come se si trattasse di carne lacerata, di materia viva.
No, l’idea non mi
piace, mi lascia una grande amarezza dentro. E’ un essere disumano,
Stefano.
Mi viene difficile
pensare che il suo futuro possa essere deciso da una tecnologia così
devastante. Non si tratta di proporre modelli umani di tipo elegiaco, le forme
di una civiltà, quella contadina, ormai inghiottita dal cosiddetto progresso.
E’ che l’uomo non è
più al centro delle vicende, non è più il punto d’arrivo degli attuali
progetti di sviluppo scientifico. Nella fase dell’Umanesimo, invece, l’uomo
celebra se stesso per mezzo dell’arte.
Non è difficile
immaginare le botteghe fiorentine di quel periodo, comprendere l’ansia
intellettuale che dominava uomini protesi a costruire modelli di inimitabile
bellezza creativa.
Si tratta di capire,
però, che da una realtà vissuta e progettata dall’uomo per l’uomo, siamo
approdati ad una realtà simulata (la realtà della realtà), col rischio che
tutti noi si diventi ubriachi già di primo mattino, sorpresi (come il Gregor
Samsa kafkiano?) dal dubbio che immagini a più dimensioni si fisseranno nelle
nostre coscienze tradite, ormai incapaci di percepire ciò che un tempo era
“certo” e
“vero”.
Sarà mai possibile
riavvolgere il nastro, riprenderci un po’ di vita vera? Non lo so.
So di certo che cosi
facendo andremo a sbattere contro il muro dell’indifferenza, la stessa di cui
tanto parla Papa Francesco.
E non sarà facile
riconquistare i valori di un tempo quando il cuore umano e la fantasia
imperavano.
Non si tratta di
pessimismo fine a se stesso.
E’ che non si può
accettare che la solitudine divenga la sola certezza umana cui oggi è possibile
aspirare.
giovedì
13 febbraio 2014
LA
SOLITUDINE DELLO SCRITTORE SAVERIO STRATI ("inAspromonte", n. 6,
Febbraio 201, pag.23 ).
Saverio Strati versa in condizioni di salute pessime. Non si fa trovare da
nessuno, ha staccato il telefono, non comunica più con l’esterno. Probabilmente
la caduta dalle scale (abita in Toscana, precisamente a Scandicci, al IV
piano di un palazzo privo di ascensore), avvenuta tempo addietro, l’ha
debilitato nel fisico e nel morale.
Spiace sapere di questo suo isolamento. Anche se ha quasi novant’anni, è
ancora lucido, ma forse non è più curioso, è depresso.
Da circa
quattro anni usufruisce della Legge Bacchelli, un sussidio che gli
consente di continuare a vivere dignitosamente. Ma quando arriva la
cattiva salute, quando non si trova più la forza per scrivere, narrare il
proprio mondo interiore tutto sembra immerso nell’oblio, non si ha voglia di
andare avanti, di sperare nel futuro. Certi stati d’animo non tengono conto di
quello che si è fatto in tanti anni di proficuo lavoro intellettuale,
alimentano l’amarezza, allontanano dalla creatività.
Non lo incontro da
molto tempo, ormai. Ho avuto la fortuna e il privilegio di confrontarmi con lui
quando ancora faceva ritorno a S.Agata del Bianco, suo amato paese natìo,
precisamente in contrada Cola.
Incontri che mi hanno
fatto capire tante cose, in particolar modo l’urgenza di adoperarsi in difesa
della nostra memoria storica, del nostro passato/presente.
Una lezione di vita
importante che rammento ancora con riconoscenza.
Ha lottato tanto,
Saverio Strati. Da semplice apprendista-muratore è divenuto “glossa” della sua
gente, si è trasformato in cantore del bene e del male del Meridione, non
facendo sconti a nessuno, nemmeno a se stesso. Narra dal di dentro, conosce
profondamente, infatti, la materia della sua scrittura, il suo stile cesella le
forme della civiltà contadina, ne delinea le fattezze più remote, ne sollecita
la vera conoscenza. E’ tanto grande e appassionato il suo amore per i
poveri, i diseredati al punto da estremizzare al massimo il suo linguaggio, il
suo stile iper-realista. E’ proprio tutto vero quello che narra Strati, spesso
anche i nomi, le contrade. La sua mente conserva una galassia sterminata di
personaggi, le vicende familiari, gli esiti di una semina, i tomoli di grano
prodotti, le cattive annate dovute alla siccità o qualche improvvida
alluvione. Un amore viscerale profondo, quasi una ossessione implacabile.
In quasi tutti i suoi romanzi, però, Strati denuncia il nostro cattivo modo di
essere, la nostra cattiva voglia di migliorare le sorti socio-economiche della
nostra terra. Prima di fermarsi a Scandicci, egli ha conosciuto altre nazioni
(Germania, Svizzera), altre usanze. Ha fotografato realtà in crescita,
rispettose delle regole, attaccate alle loro identità. per questo, specie in
“Noi Lazzaroni( Mondadori, 1972), “Il diavolaro” ( Mondadori, 1980), “Il
selvaggio di Santa Venere”, Mondadori, Premio Campiello, 1977), egli esprime
rabbia per il lassismo della sua gente, per la imperante rassegnazione
che anima il popolo calabrese. Sono pagine di profonda denuncia sociale,
costringono alla riflessione, fanno arrossire anche le menti più recalcitranti,
specie quando lo scrittore indica le soluzioni per un riscatto non impossibile.
“Quando mi trovo a S.Agata e guardo dall’alto verso il mare sento l’animo che
mi si apre; se invece osservo ciò che mi circonda, se entro nelle case del paese,
la sensazione è terribile. Mi prende un’angoscia davvero infernale. Non è
sufficiente guardare le cose dall’esterno, come ha fatto Carlo levi per la
Lucania: il vero dramma è guardarle quelle cose, quelle situazioni dal di
dentro[…] Altro che Calabria pittoresca, altro che odori, colori, silenzi
poetici!…”.
Sono “arrabbiature” sincere, non vogliono accusare
nessuno, tendono a spronare chi è immerso nel fatalismo, quanti non vogliono
lottare contro lo status quo. Mentre il mondo cambia, si evolve, il meridione
appare pietrificato. Mentre in altri lidi è giunta la primavera, nel Sud regna
un inverno fitto, un modello sociale che intende perpetrare le antiche regole.
“C’è sempre stato in Calabria uno spirito feroce di autodistruzione; la storia
stessa della nostra regione ha questa terribile impronta [… ] il calabrese è
terribilmente geloso: guai se un altro fa un passo più avanti di lui[....]
anche il paesaggio risente di questa indifferenza […]”. Strati (è
possibile immaginare la sua profonda amarezza) di certo si sarà molte volte
sentito sconfitto, avrà pensato che le sue opere non siano servite ad aiutare
il suo popolo. Così non è stato, per fortuna. Ma l’amarezza (quella che
angustia l’animo ed il cuore) di certo l’ha debilitato nel fisico e nel morale.
La speranza è che Strati torni a parlare alla sua gente e al mondo, che
continui a battere, con forza creativa, sui tasti della sua vecchia macchina
per scrivere.
giovedì 6 febbraio
2014
NO AI GENITORI
SINDACALISTI NELLA SCUOLA ( Il Quotidiano della Calabria, giovedì 6 febbraio
2014)
Povera scuola! Oltre ai tanti sindacalisti del
settore stanno crescendo schiere di genitori che fiancheggiano i loro figli in
dispute pseudo-pedagogiche sterili quanto pericolose.Gli insegnanti devono -
oltre alle “intemperanze” degli alunni (schiavi di telefonini e similari, che
tendono a portare anche in classe) sono costretti ad interagire con
genitori che danno a priori ragione in tutto e per tutto ai loro
figli, non capendo che la scuola è roba seria e che non la si
può barattare concedendo ai loro amati figliuoli tutto e subito.
Si, è vero, non
tutti sono cosi, ma il loro numero sta crescendo a dismisura.
E’
pure vero che la scuola si sta burocratizzando, che un bel po’ di
tempo viene utilizzato per capire/applicare programmi infarciti di sterili
quanto inopportuni psicologismi.
Che la scuola debba
camminare di pari passo con la società è un fatto scontato, ma modi
e tempi non sono automatici.
Essa è un’ agenzia
educativa importante, ma non può e non deve sostituirsi ai genitori che,
invece, vorrebbero darle piena delega, smarcandosi cosi dal loro ruolo
primario.
In famiglia si
applica quella che un tempo veniva definita educazione diretta.
La scuola e il resto
(relazioni sociali e/o amicali) sono forme di educazione indiretta,
importantissime ma non sostitutive.
E invece le famiglie
tendono a invertire i ruoli, non capendo che il mestiere
dell’insegnante è delicato quanto faticoso.
Non è possibile
pensare che il corpo docente debba giornalmente imbastire una lotta
educativa con quegli alunni (il loro numero è divenuto esponenziale) con alle
spalle genitori che, per motivi diversi, (che andrebbero capiti e analizzati,
naturalmente) scaricano sugli insegnanti il compito/dovere di
formare in toto i loro figli .
Un po’ ciascuno non
fa male a nessuno, dice il proverbio.
Il diritto implica il
dovere e viceversa.
Dovere della scuola è
offrire un corpo docente preparato ad assumere il ruolo conferitogli, dovere di
un genitore è quello di interagire costruttivamente con gli
insegnanti.
L’interazione (non è
questa la sede idonea per parlarne opportunamente) è vitale per la
buona riuscita dell’azione educativa.
E’ evidente che anche
nel corpo insegnante si annidino gli incompetenti; la speranza è che il loro
numero sia – come si suole dire- meramente fisiologico.
Qui si vuole più
semplicemente rimarcare l’azione sbagliata di quei genitori che
difendono ad oltranza i loro figli, che confrontano i voti, che pensano di
poter liberamente interferire, che identificano i loro figli come
vittime dell’azione educativa, che non accettano in alcun modo che gli
insegnanti ne rimarchino le manchevolezze (specie quelle comportamentali).
Servono dialogo e confronto. Non chiusure e
pregiudizi.
CARTOLINE POSTALI E LETTERE ALLA FAMIGLIA DEL SOLDATO
GIUSEPPE STRANIERI (CARAFFA 1921- FRONTE GRECO 1943)
[… ] solo
vi dico che non ci trova accua la dobbiamo comprare a due soldi il bicchiere e
patiamo un po qua […].
Fammi sapere se hai
ricevuto il vaglia di lire tre cento.
[…] fatemi sapere se
vi siete messi a seminare. Sta maledetta terra dove sono io non si
vede niente […].
Caro Padre fatemi
assapere se avete ricevuto qualche pacco che viò spedito un pacco contenente 41
pezzi di saponi cose che non mi sono messo addosso e che mi sono messo io forsi
non li avete ricevuto mi dispiace molto, perché mi sono sacrificato 5 mesi di
crudele cosa che desiderava il mio cuore se per caso lo ricevete mi lo fate
assapere se no pazienza basta che ce la saluti altro tutto passa viò spedito un
vaglia di Lire 186 non lavete ricevuto ò puro no[…]
O’ ricevuto una
lettera dal vostro fratello Francesco di maglia che mi parlava che stati arando
la terra considero come vi trovati afflitto di
lavoro ma io non posso fare nienti pemmia cosi à voluto la fortuna e cosi sia.
Mio zio
Giuseppe (Caraffa, 1921- Fronte greco 1943) era piccolo di statura.
Mio padre lo ricorda come un tipo forte e sicuro di sé. Uno spirito indomito
capace di fare a botte anche con quelli più grandi di lui, perché non
accettava i soprusi, le ingiustizie. Era un bravo
contadino, sempre pronto ad aiutare la famiglia nel duro
lavoro dei campi. Ma Mussolini e i suoi famuli volevano sedersi in tutta fretta
al tavolo dei “vincitori”, cosicché diedero in
pasto le carni inermi dei giovani soldati d’Italia. Mia
nonna, Maria Ardino, originaria di Pardesca, piccola frazione di Bianco, pianse
lacrime amare, il suo cuore presagiva che suo figlio, quasi ventenne, non
sarebbe tornato nel piccolo/grande mondo che l’aveva partorito per
vivere in mezzo ai prati e ai boschi di Stoli. A fare il contadino, a seminare
la terra arata dai buoi forti di suo padre. Aveva ragione mia nonna, purtroppo.
Zio Peppe non tornò a casa, disperso sul fronte greco dopo l’8 settembre 1943
(data dell’Armistizio). In questa sede mi sembra doveroso omaggiarlo
rendendo pubbliche alcune delle numerose missive (lettere e cartoline postali)
che il piccolo/grande soldato di Caraffa del Bianco ebbe a scrivere ai suoi
familiari. Il tutto senza alcuno intervento sulla sua semplice quanto
commovente struttura sintattica.
Da destra: Giuseppe
Stranieri e un suo amico commilitone - Fronte greco 1943.
51° Compagnia
Cannoni- 47/32 - Cartolina Postale- Divisione - Posta Militare 121,
- Ischia- lì 18,10,41.
“Carissimo Padre vi
scrivo questa cartolina per dare notizia della mia buona salute che
sto bene e cossi meglio spero sentire di voi tutti di famiglia. Caro padre vi
faccio sapere che mi trovo in una piccola isola (leggi Ischia, N.d.r.)
circondata di mare e siamo tutti gli amici insieme (…) come fummo prima solo vi
dico che non ci trova accua la dobbiamo comprare a due soldi il bicchiere e
patiamo un po qua per altro stiamo bene. Saluti per tutti. Vostro figlio
Giuseppe”.
51° Compagnia
Cannoni- 47/32 Divisione - posta Cartolina Postale- Militare 121, - Siena- lì
17,8,42.
“Sorella
Carissima (leggi Rosina, sorella maggiore, N.d.r.) Ti scrivo
questa mia presente per darti notizie nello stesso tempo auguro di
te. Sorella Carissima ti invio i sinceri auguri del tuo
nome che il trenta agosto. Fammi sapere se hai ricevuto il vaglia di lire tre
cento. Chiudo saluta la famiglia. Tuo fratello Giuseppe”.
51° Compagnia
Cannoni- 47/32 Divisione - Cartolina Postale- Posta Militare 121, Siena - lì
15,11,42.
“Cari genitori (leggi
Domenico e Maria, N.d.r.) sono molto dispiaciuto del vostro
lungo ritardo di posta e non so più cosa pensare adesso fatemi
sapere se vi siete messi a seminare. Sta maledetta terra dove sono
io non si vede niente. Saluti. Vostro figlio Giuseppe. Buone feste”.
51°
Compagnia Cannoni- 47/32 Divisione - Lettera - Posta Militare
121, ? - lì 25.08.1943.
“Carissimo
Padre con molto piacere vi scrivo questa mia presente lettera tanto
per darvi nota della mia buona salute e cosi meglio auguro di voi tutti in
famiglia. Caro padre vi comunico che sono circa due mesi che mi trovo privo di
notizie non so che cosa di pensare fatemi assapere come vi trovate
voi tutti, vi fò sapere che 2 giorni fa mi hanno fatto un permesso di andare a
trovare il figlio di compare Natale (…) e cosi siamo stati assieme
una giornata. Lui sta molto bene mi ha raccontato tanti e tanti
belli fatti che mi sono messo a ridere- uno che si sposa l’altro che fa l’amore
e allora solo io sono che faccio il soldato l’altri stanno alle loro
case, di più vi fò sapere che ho trovato puro il cuggino Focà (originario
di Ferruzzano, N.d.r.) al momento che io mi trovavo presente lui
ha ricevuto una vostra lettera e cosi ho saputo che stati tutti bene, e ho
saputo puro che tutti i bianchi sani (leggi parenti residenti nel
comune di Bianco, N.dr.) si trovano al nostro paese fatemi assapere se ne
andarono o puro no a mia premi di sapere tutto questo per il motivo che ciò
anche io la fidanzata. Caro Padre fatemi assapere se avete ricevuto qualche
pacco che viò spedito un pacco contenente 41 pezzi di saponi cose che non mi
sono messo addosso e che mi sono messo io forsi non li avete ricevuto mi
dispiace molto, perché mi sono sacrificato 5 mesi di crudele cosa che
desiderava il mio cuore se per caso lo ricevete mi lo fate assapere se no
pazienza basta che ce la saluti altro tutto passa viò spedito un vaglia di Lire
186 non lavete ricevuto ò puro no. Se lavete ricevuto mi lo fate assaperi
perché non so nienti, adesso voglio fare ridere un poco como mia fatto ridere
ammia il sposo (trattasi di Natale Catanzariti, residente nella
frazione Pardesca, marito di Paola Tedesco, originaria di Caraffa del Bianco ,
N.dr.) di commare Pavoluzza Todisco adesso noi due vi facciamo
ridere in una foto che cosi classica ma una cosa che non vi lavevamo mandare ma
noi ve la mandiamo, altro niente resto con la penna mai col cuore gli date
tanti saluti alla sposa di compare Natale e gli dite che lui sta bene di non
pensare male che questo devi finire io saluto sorella e fratelli. Padre e madre
sono per sempre il vostro figlio Stranieri Giuseppe”.
51° Compagnia
Cannoni- 47/32 Divisione - Lettera - Posta Militare
121, ? - lì 14,12,42.
“Carissimo Padre con
molto piacere vi do nota della mia buona salute al meglio auguro di voi bene
tutti che stati in buona salute. Oggi mi rrivata una lettera del 10 ottobre
dove mi parlava che mia sorella Teresa si trova a mali condizioni considerati
che dispiacere a avuto il mio cuore spero che con la presente mi date buone
notizie. Io sono circa due mesi che non ricevo vostre notizie solo due
cartoline che mi scrisse mio fratello Giovanni Altro nienti considerate como mi
trovo e che dice il mio cuore nel momento in cui vi scrivo mi trovo con amici
che non vi potete immaginare. Io aspetto ogni otto giorni che vieni una vostra
lettera ma non sarà possibile di ricevere ma non so se dipendi da voi o puro
fanno ritardo non vi la prendete con mia sorella che non sarà colpa sua che
l’indirizzo sarà bene dopo un mese. O’ ricevuto una lettera dal vostro fratello
Francesco di maglia che mi parlava che stati arando la terra considero
come vi trovati afflitto di lavoro ma io non
posso fare nienti pemmia cosi à voluto la fortuna e cosi sia. Vi prego se mi
potete accontentare che mi spedite unpo di carta se no[…] per momento altro
niente saluto caramenti sorelli e fratelli particicolari Teresina. Baci padre e
ma dre e vi auguro un Buon natale. Vostro figlio Giuseppe”.
domenica 22 settembre
2013
GIOACCHINO CRIACO E
IL POPOLO DEI BOSCHI-
da “La Riviera”, domenica 30
giugno 2010
di
Vincenzo Stranieri
Con Gioacchino
Criaco, scrittore nato ad Africo (RC), la letteratura italiana ha inserito nel
suo grembo un artista pregevole quanto inaspettato. “Anime nere”, romanzo
d’esordio pubblicato da Rubbettino nel 2008, è divenuto, grazie al passaparola
dei lettori, un caso letterario, facendo conoscere al grosso pubblico il popolo
dei boschi, così Criaco ama definire i suoi pastori d’Aspromonte, che, con
le loro gesta efferate, hanno, paradossalmente, contribuito alla conoscenza di
un popolo ancora in fuga (Africo, paese aspromontano, a seguito dell’alluvione
dell’ottobre 1951, è stato trasferito coattamente nelle lande desolate di un
arido terreno adiacente capo Bruzzano, poco distante dal mare Ionio). Una
diaspora che, per lo scrittore, sta alla base del demone delinquenziale che si
è impadronito di un popolo per millenni abbarbicato sui crinali d’impervi
costoni e che, per questo ed altro, stenta di darsi un’identità concreta.
Criaco appartiene
alla schiera di scrittori-testimoni che si sono accollati l’arduo compito
d’essere voce narrante della comunità natia. Nel suo caso, il luogo d’origine è
antropologicamente sospeso tra un recente passato (la montagna amica, i boschi
ricchi di ghianda, il pane nero, le foto scattate ad Africo da Tino Petrelli
nel 1948, la preziosa testimonianza di Umberto Zanotti Bianco etc.) ed un
presente preda dei flutti del mar Ionio.
Quello di Criaco può
essere definito un diario di bordo, la testimonianza diretta di chi conosce le
imprese omicide, le rapine e tanti altri misfatti commessi dalle anime
nere che, deliberatamente, hanno scelto la via del male, la stessa che
si respira in Zefìra, secondo romanzo noir di Criaco.
Ho faticato non poco a leggere Anime
nere. Alcune pagine le ho rilette più volte. Il linguaggio dell’autore
osserva una scala musicale, se cosi è permesso dire, alquanto desueta. Abbassa
i toni allorquando ci si aspetta degli acuti, emette quest’ultimi senza
preavviso, disorientando, ma solo agli inizi, il lettore, che sbanda, si guarda
attorno, annaspa alla ricerca di un appiglio certo. La bellezza del libro sta
proprio nel linguaggio: sequenze brevi ma efficaci con dietro l’intento di
delineare l’esegesi del demone che si è impadronito dei protagonisti (Luciano,
Luigi e la voce narrante). Forse l’autore si è ispirato alla pastorizia (si
vanta, giustamente, d'essere figlio di servi di pastori ed agogna di tornare a
fare il pastore in Aspromonte) ad un mondo che scandiva i suoi tempi senza
fretta, con meticolosità, la stessa che ha armato i giovani ‘ndranghetisti
narrati nel romanzo. Criaco tiene a precisare che “ Anime nere non è un
semplice romanzo, è l’urlo di dolore di un popolo. Di una generazione che ha
fatto il male. Ma di quel male è la prima vittima (…). Una schiera di
superstiti, che si mostra nuda confessando peccati ed errori. Che implora i
ragazzi a non percorrere il loro nauseante viaggio infernale. Che ha preso
coscienza del male fatto, e non ricerca alibi o facili vie di fuga. Una schiera
di supersiti che però non è ipocrita.
Che non vede un mondo splendido intorno a se. Che riconosce i propri errori, ma
é conscia delle colpe altrui. Che vuol cambiare per se stessa e non perché
moralmente inferiore alla realtà circostante. Che è cattiva ma non mafiosa,
anzi nella ‘ndrangheta ha sempre individuato il suo nemico peggiore, il
responsabile principale della propria autodistruzione.
Le anime nere hanno combattuto una guerra sbagliata, trasformandosi man mano in
esseri simili ai loro carnefici. Hanno subito piccole e grandi ingiustizie,
alle quali hanno reagito con l’unico mezzo che conoscevano, la violenza. Oggi
hanno rimosso definitivamente e unilateralmente la violenza dalle loro vite, e
a lei non torneranno più. Ma continuano a subire piccoli soprusi da chi si
ritiene migliore di loro”. (“La Riviera”, 31 gennaio 2010 pag.15).
E’ vero, non è un messaggio facile da digerire quello di Criaco. Non mi è
ancora chiaro- tanto per cominciare- se Luciano e Luigi sono figli della
vecchia ‘ndrangheta (l’Onorata Società) o dei semplici cani sciolti che, pur
applicando i comportamenti e i codici dei vecchi malavitosi un tempo operanti
tra i vasti boschi dell’ Aspromonte, sono altro da quest’ultimi perché capaci
di pagare per intero il male commesso e, soprattutto, perché consapevoli dei
gravi errori commessi. Se è questo l’intimo desiderio di Criaco, quello di
differenziare le colpe di alcuni giovani scellerati dal resto di
un'organizzazione criminale i cui traffici sono ormai divenuti planetari,
allora ci troviamo dinanzi ad un’opera sì noir ma con una decisa
impronta sociologica dove l’artista è la voce narrante di un’esigua minoranza
di africoti che, sbagliando, ha pensato di edificarsi
seminando inopinatamente lutti e rovine. Nondimeno, utilizzare il paravento
dell’esodo forzato dalla montagna alla marina come motivo scatenante della
realtà delinquenziale di una comunità, mi sembra alquanto fuorviante. Il seme
‘ndranghetistico era già presente ancor prima della tragica alluvione del 1951
e non solo ad Africo ma in quasi tutti i paesi del reggino. E’ vero, invece,
che la realtà rivierasca ha consentito alla ‘ndrangheta di promuovere con
maggiore rapidità la sua azione criminale. Su “Famiglia Cristiana” (n.44/2009,
p.105) Luciano Scalettari ha scritto di Zèfira utilizzando
una tecnica efficace: il critico recensisce facendo parlare quasi in simultanea
l’autore pervenendo così ad un breve ma interessante saggio a due voci. Nel
romanzo, annuncia Scalettari, “l’intrigo comincia subito. Due pagine, non di
più, e avviene il primo omicidio. Niente preamboli. Zefìra, il
secondo romanzo noir di Gioacchino Criaco, parte a ritmo serrato e non lascia
tregua (… ) Criaco sembra raccontare di delitti e di indagini, ma in Zefìra com’era
anche in Anime Nere, la scena conta tanto quanto i protagonisti che
vi si muovono.
Perché pagina dopo pagina emerge un pezzo di Calabria, e vi si narra una realtà
misconosciuta, quella dei “ragazzi della Locride”, come li chiama l’autore ( …)
Così, in Zèfira, nel ruolo di protagonista Criaco mette un
commissario di polizia milanese, giunto da pochi mesi dalla metropoli del nord.
Un commissario sveglio che, analizzata la situazione, ritiene presto di essersi
fatto un’idea chiara della realtà in cui si trova. Uno stratagemma efficace,
dal punto di vista narrativo, perché l’investigatore si trova a vivere un
progressivo strania mento, dove ciò che sembrava chiaro diventa confuso e
l’evidenza delle cose sbiadirà fino a perdere contorni e distinzioni”.
Specie in tale frangente, il romanzo risente della presenza ingombrante
di Leonardo Sciascia, particolarmente delle atmosfere sociologiche de “Il
giorno della civetta”. Ma ciò non è un male. Sciascia è un maestro di cui non
si può fare a meno, infatti. A Criaco, comunque, , va riconosciuto il
merito di opporsi con caparbietà agli stereotipi che vigono su Africo:
‘ndrangheta, solo ‘ndrangheta, egli, con passione e senso dell’appartenenza,
cerca di spiegare che ad Africo c’è una bella gioventù che aspetta una sua
legittimazione storico-culturale. E in ciò fa bene a insistere.
Tuttavia Criaco sostiene che “Oltre il noir c’è un altro piano di lettura, che
cerca di far vedere l’immobilismo millenario che caratterizza questa società.
E’ un mondo dove si ereditano le professioni, il ruolo sociale, la propria
“casella”. Quel sistema ha interesse ad autoconservarsi, e dice ai ragazzi
della Locride che il loro destino è puzzare di capra facendo i pastori. O sulla
strada”. Non è semplice capire dove, specie in questo frangente storico, andrà
a posizionarsi il popolo dei boschi. Tornare in montagna è ormai
impossibile, lì non ci sono più capre, esiste solo il silenzio dei boschi, i
giovani dovranno sbrigarsela diversamente, facendo tesoro proprio da quanto
narrato dal loro compaesano dovranno sforzarsi, con o senza la presenza dello
Stato, di non divenire le nuove “Anime nere”. Eviterebbero così di farsi del
male, un male fatto di sangue e delitti, aiutando Criaco e tutta la società
civile dell’ex popolo dei boschi a sfuggire in modo definitivo allo
stereotipo che raffigura Africo con l’effige del male. Tuttavia, chi intende
essere la voce narrante di un microcosmo criminale rischia di limitare la
propria azione culturale in nome e per conto di un mondo conchiuso, salvaguardando
atmosfere e vicende ormai preda della cronaca giornalistica. La realtà
umano-culturale di Criaco- e con ciò spero di non addentrarmi in valutazioni
affrettate -, non credo sia rapportabile con le vicende vissute dalle anime
nere delle sue prime due opere letterarie. Sarebbe un suicidio culturale,
un’incomprensibile immolazione sull’altare di una solidarietà cieca. Il suo
linguaggio- come anticipato- può senz’altro aspirare a mete più vaste,
universali. Chi scrive- ma il discorso vale per qualunque forma artistica- è
impegnato a rivelare agli altri il proprio mondo intellettuale. E lo compie
mettendo in azione uno scavo interiore pregno di fatica. Non è facile denudare
il proprio essere. Non è semplice smascherare i propri sentimenti. Una fatica
senza la quale, però, l’impegno artistico diviene sterile pantomima. E questo,
a Criaco, non deve accadere.
domenica
22 settembre 2013
“Caro
Sisinio”, la lettera a Zito del 17 luglio 1994
di Enzo
Stranieri
Non ho letto Eroi
silenziosi di Angelo Jannone, Datanew, 2012, che narra i più
importanti avvenimenti di cronaca italiana degli ultimi trent'anni. “La
Riviera” di domenica 26 agosto u.s., p. 4, riferisce che Carlo Vulpio (vedi
Corriere della Sera del 22 agosto 2012, pag.37) considera il volume in
questione “un libro onesto”. Di certo è così. Ma spiace molto sapere che
Jannone, nell’esercizio delle sue funzioni ( Ufficiale dell’Arma), per paura
d’essere accusato di complicità geografica (è possibile dire così per chi vive
e opera in Calabria?), pur convinto dell’innocenza del senatore socialista
Sisinio Zito e di suo fratello Antonio, non seppe dire no, come lui stesso
scrive, alla richiesta di sorveglianza speciale avanzata dalla Procura di Palmi
per il fratello del senatore, pur certo che i due fossero estranei a ogni
accusa. Il caso fa molto riflettere: un dolore incontenibile che ha
radicalmente alterato la vita di due onesti cittadini. Ricordo che noi
socialisti della Locride rimanemmo affranti, sconfortati, ma anche certi della
completa innocenza dei nostri carissimi amici, nonché autorevoli compagni di
partito. Ero affranto e arrabbiato, e ritenni giusto comunicare la mia
vicinanza e il mio affetto a Sisinio e ad Antonio, scrivendo al primo, in data
17 luglio 1994, la lettera che segue:
Caro Sisinio,
il caso “giudiziario”
che ha investito come un uragano te e Totò rivela aspetti più che kafkiani. Ne
“Il processo” J.K. non conosce le ragioni del suo arresto. La forza coercitiva
del Potere, alla fine, lo porterà a incolparsi di delitti mai commessi, a
“morire come un cane”.
È un’accettazione di responsabilità quella di J.K. che testimonia la
“necessaria” debolezza umana contrapposta, guarda caso, al dominio egemonico
del grande vecchio orwelliano (ghignante e cinico all’eccesso). Tu e Totò avete
conosciuto preliminarmente tutti i dettagli dei vostri misfatti (sic!) che, pur
se ridicoli e inconsistenti, hanno avuto (continuano ad avere) la forza
dell’infamia al pari dell’accusa non rivelata a J.K.. In entrambi i casi,
infatti, vige la stessa impossibilità di difendersi. Ma andiamo per ordine.
Teorema:
enunciato sommario d’una proposizione contenente una verità che si intende
dimostrare e che costituisce la conclusione (tesi) cui si giunge, attraverso un
procedimento logico deduttivo in cui ci si avvale di postulati o verità
dimostrate, dalla premessa iniziale (ipotesi); Dizionario Italiano – Ed.
Sandron, Firenze. Ipotesi magistratura: politico =
malaffare. Verità dell’enunciato: chi è un politico (con o
senza storia personale eticamente irreprensibile) ha comunque un legame di
interesse con la mafia, che, essendo lo “Stato” che governa nel sud non può non
avere rapporti perversi con la classe politica di turno cui è delegato il
Potere ufficiale. Tesi: i fratelli Zito, con o senza prove, con o
senza testimonianze certe, al di là della loro storia personale (che parla e
canta, come si suole dire), sono ugualmente da considerarsi mafiosi. Tempo
prima che venisse approvata la riforma del nostro sistema processuale, Giorgio
Saviane ha scritto “L’inquisito”, breve romanzo che narra le traversie di un
uomo accusato ingiustamente e che, per l’angoscia vissuta nel corso del
processo, vorrebbe “essere colpevole per respirare”. Il libro, recentemente
ristampato nei tascabili economici Newton, a detta di qualcuno è servito come
pungolo per la riforma stessa, in particolare per l’affermazione (solo
teorica?) del rito accusatorio (rito anglosassone) da quell’inquisitorio
(ancora, nonostante le riforma, vigente in Italia). Il processo Zito è di tipo
inquisitorio, infatti, volendo fare una digressione (gratuita fino a un certo
punto), si può parafrasare Camus, “Lo straniero”, allorquando il magistrato
chiamato a giudicare il protagonista del romanzo, a seguito dell’atteggiamento
di quest’ultimo (“indifferente” a tutto), lo apostrofa dicendo: “Il vuoto umano
dell’animo quale si ritrova in quest’uomo diventa un abisso dove la società può
perire”. Lasciando da parte la rivolta metafisica che Camus intende trattare,
resta da chiedersi se anche i fratelli Zito, alla luce dell’impeto inquisitorio
operato nei loro confronti, debbano ritenersi vuoti nell’animo, fautori dell’
“abisso dove la società può perire”. Siamo alla fantascienza, al ripristino,
anzi, della “cultura dell’ombelico”, per dirla con la felice locuzione di G.
Melina, scrittore. Manca poco che Sisinio e Totò Zito ringrazino la
magistratura per l’opera di “bonifica” operata all’interno delle loro “anime
perse” (corrotte). Viene alla mente Barbara, protagonista de “L’uomo è forte”
di Corrado Alvaro, che, esasperata dalla presenza assillante dell’Inquisitore,
denuncia alle autorità Dale, il suo compagno, al fine di espiare la “colpa”
commessa contro il Potere (il totalitarismo) e quindi contro la
società. Anche i fratelli Zito cospiravano contro lo Stato?
Se diamo retta al
teorema, certamente si. Se, invece, usiamo un minimo di razionalità, è evidente
che essi sono agnelli sacrificali sull’altare del più bieco cinismo culturale.
Si, perché di cultura si tratta. È certo che per fare il magistrato occorrono studi
giuridici. Accanto a questi, però, è indispensabile una cultura umanistica
necessaria a costruire l’uomo ancora prima che il magistrato. Diffiderei molto,
a esempio, di un uomo di legge (in senso lato) che non abbia letto, tanto per
fare alcuni nomi, la lista è molto lunga, “Il compagno segreto”, “Linea
d’ombra” di J. Conrad, “Delitto e castigo”, “Memorie del sottosuolo” di F.
Dostoevskij, “Uomini e topi”, “La luna è tramontata” di Steinbeck, “Il richiamo
della foresta” di J. London, “Un caso di coscienza” di L. Tolstoj, “Piccolo
campo” di E. Caldewell, “L’uomo senza qualità” di Musil, “Ulisse” di J. Joyce,
“Padri e figli” di I. Turgenev, “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov… Non si
tratta di “sentenziare”, dunque, ma, oltre alle norme, di tutelare la dignità
dell’individuo. E ciò, prendendo a prestito le parole di A. Zanzotto, poeta,
perché qualsiasi individuo possa essere “degno di quel concetto ideale di
personalità che ogni uomo formula nel suo intimo”.Caro Sisinio, se non ci fosse
la sofferenza morale di tutti voi, la vicenda assumerebbe contorni più
grotteschi che drammatici; ma l’amarezza, oltre che lo sconforto, è troppo
grande per potere abbozzare anche un piccolo quanto breve sorriso ironico. È
realtà, questa, dura quanto tragicamente attuale. Vorrei che tu e Totò (fatti
latore del messaggio) mi sentiste vicino, che, pur nella condizione di rabbia
che necessariamente vi avviluppa, sappiate che i compagni non hanno mutato di
un millimetro la stima e l’amicizia nutrite nei vostri riguardi.
Un forte abbraccio
anche da mio fratello Peppe.
S. Agata del Bianco,
17 luglio 1994
(Enzo
Stranieri)
enerdì 20 settembre
2013
“La memoria
antropologica” di Antonino Mazza, poeta, traduttore, editore, che emigra in
Canada dalla Calabria nel 1961, e che ha studiato letteratura inglese,
letteratura comparata e filologia romanza presso la Carleton University,
l’Università di Toronto e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Attualmente vive
a Ottawa. La nostra casa è in un orecchio cosmico, primo impegno poetico di
Antonino Mazza, è una testimonianza della crescente realtà intellettuale della
comunità italo-canadese.
di Vincenzo Stranieri
La realtà dell’infanzia
insegue l’emigrante storico in modo ossessivo; egli vive una doppia condizione
psicologica: il passato, che per il fatto di trovarsi in una posizione non
secondaria della mente, può essere definito tempo presente, è la realtà d’ogni
giorno, che richiede fatica, sforzi d’integrazione non indifferenti.
I figli dei nostri
emigranti rappresentano invece una generazione presente/assente rispetto
alle problematiche socio-culturali del luogo d’origine. Il “vantaggio” di tale
generazione é dovuto, tra l’altro, alla fruibilità dei nuovi mezzi di
comunicazione.
Ma la caratteristica
più marcata degli appartenenti a tale fase storica é quella di una
nostalgia attiva, non necessariamente dolorosa, che consente loro di vivere da
protagonisti nel luogo d’adozione.
E’ una generazione
che prende e dà, non sopravvive all’interno del tessuto sociale in cui opera.
E’ parte
integrante e propositiva. Ha peso e voce nell’ambito della realtà che ha
scelto come osservatorio privilegiato della propria vocazione creativa.
E’ il caso degli
scrittori italo-canadesi, che il grande pubblico ignora, ma di cui
si comincia a parlare con un certo interesse.
Partiamo da Antonino
Mazza, poeta, traduttore, editore, che emigra in Canada dalla Calabria nel
1961, e che ha studiato letteratura inglese, letteratura comparata e filologia
romanza presso la Carleton University, l’Università di Toronto e la Scuola
Normale Superiore di Pisa. Attualmente vive a Ottawa.
Cominciano col dire
che in La nostra casa è in un orecchio cosmico , ed.
Monteleone, 1998, con la traduzione di Rosamaria Plevano, Mazza ha bisogno di
dare una forma alla fisicità del mondo che lo ha partorito, perché uomini e
cose si dibattono nella sua mente alla ricerca di una collocazione definitiva,
e non solo come mera presenza ma come realtà di cultura dalla quale partire per
il lungo viaggio verso una conoscenza cosmopolita, non rinnegando- ma
filtrando- il cosiddetto mondo moderno, gli spazi vasti della realtà in
cui si vive, sempre memore che
In un orecchio
cosmico di aspri picchi e colline terrazzate
dove la ginestra e
ciclamino fioriscono
a fianco e i limoni
e la casa dove sono
nato
In tal senso, Mazza,
nella sua introduzione al testo poetico (tradotto in disco dal fratello del
poeta, Aldo, che ne ha curato le musiche) ci ricorda le parole di
Jean Cocteau: “ Più il poeta canta dall’interno del suo albero genealogico, più
è intonato”.
Mazza vuole avere una
memoria antropologica, non nostalgica, del suo passato, perché la
nostalgia distrugge la tensione creativa, logora i ricordi, sollecita amaro
fiele nell’animo turbato. La memoria è invece conoscenza, cultura di un popolo,
perché senza memoria ogni individuo è perso, privo d’identità.
La memoria è realtà
viva, per dirla con Borges, un inno contro la morte.
Mazza è fortemente
impegnato nella ricerca del suo pianeta d’origine, infatti.
Per recuperare questo
pianeta, spalanco le braccia
e, come scia di nave,
il mio alfabeto sgorga
per baciare le
fiamme, il mio cuore, per ridargli il battito,
la luce che sorride nella
stanza dentro cui tutte le stanze irrompono,
per fare più spazio.
Le 12 poesie che
compongono il testo poetico sono state scritte in inglese ma - e ciò non
è un paradosso- pensate in italiano. La traduzione evidenzia questa peculiarità
intellettuale, nel senso che la resa poetica non viene intaccata dal gusto
personale della traduttrice. La purezza lirica di fondo rimane intatta, a
conferma che vi può essere una “doppiezza” intellettuale priva di qualsiasi
ambiguità.
E ciò perché
Il sole è arrivato, e
le barche gialle e azzurre.
E la poesia che segue
le stagioni mi balza
in grembo, come luce
del giorno vien fuori da un armadio,
come scoiattolo, all’alba.
venerdì 20 settembre
2013
POETI CONTADINI/
PASTORI DELLA VALLATA LA VERDE NEL PRIMO CINQUANTENNIO DEL NOVECENTO
di Vincenzo
Stranieri
Nel numero scorso abbiamo affrontato il tema
della poesia popolare alla luce di un’interessante inchiesta giornalistica di “Vie
Nuove” (anno IX, n, 1, 4 gennaio 1953, p. 12) a proposito di alcuni
poeti contadini/pastori della vallata “La Verde”.
I temi della vocazione poetica comprendono
rivendicazioni di tipo economico, “U zappaturi” (Michele
Strati, u Ddia) vuole che il padrone gli paghi le sue afflitte
giornate trascorse a sudare nelle sue terre, zappando dall’alba al tramonto,
l’unica donna (Carmela Barletta) analfabeta, rimasta vedova
giovanissima, maledice il suo destino, la sua solitudine che pare non avere mai
fine tanto é il dramma esistenziale che l’avviluppa; uno dei pastori, (Francesco
Pulitanò) ha idee politiche ben precise, sa di Gramsci e
dell’importanza storica del l° maggio; e poi (Pulitanò
Rocco Domenico, pastore analfabeta che ha saputo scrivere nella mente
e tramandato a futura memoria poesie in vernacolo dense di pulsioni
erotiche verso la donna amata, che, causa la tradizione, non poteva
corrispondere palesemente i suoi sentimenti, facendo ancor più
soffrire il suo spasimante, che, all’occorrenza, si proponeva a suoi
occhi (dell’amata) con serenate pregne di invocazioni amorose
e speranze per il domani. Le serenate un tempo
venivano accompagnate dal suono delle ciaramelle, poi, negli anni 50-60, furono
sostituite dalla chitarra.
Rocco Domenico Pulitanò (pastore/poeta) Casignana 1866- Caraffa 1955.
Per la sua carnagione bianchissima era detto
“U jancu”. Nacque a Casignana ma visse a Caraffa, dove si sposò giovanissimo,
facendo il pastore e componendo versi. Aveva una voce magnifica e cantava lui
stesso le sue canzoni, accompagnato dal suono delle ciaramelle; era, come si
dice oggi, un cantautore.
Era conosciuto semplicemente come “u poeta”.
Abitava in una capanna ricavata nella pietra della montagna, assai distante dal
paese. Il suo letto era un giaciglio per terra, accantto alla mangiatoia
dell’asino. La sua unica ricchezza erano due capre. Massaru Rocco era
analfabeta, nondimeno riusciva a custodire nella sua memoria migliaia di versi,
che sgorgavano improvvise dal suo cuore e in qualsiasi momento era pronto a
recitarle. Gli argomenti della sua poesia sono quelli della tradizione
popolare, l’amore vario e contrastante per la bella, lo sdegno per il rivale,
la gelosia, il lamento. Egli era dell’idea che ogni canto non doveva essere pià
lungo di due “piedi” per complessivi otto versi. Pare che fosse sconveniente
superare tale misura, quasi che si macasse di sirpetto verso chi stava ad
ascoltarlo. E’ incalcolabile il numero di versi che questo grande poeta senza
scuola ha composto e quindi trascritto nella sua mente in tanti anni di vita (è
morto all’età di 90 anni),
Non pensu morti Giojùzza, lu mê cori si dispera, volìa pammi ti vìju ‘n tutti l’uri. Non pensu morti e non pensu galera, pensu sulu di tia mi sû patroni. Pensu stâ vita, ca se a vostra leva, lu pozzu diri ca levu lu hjùri, cà di li belli siti la bandiera, cû vcui nô ppatta nô ssuli a nô lluna. Mi jevi preparando li vistati Donna chjna di inganni e tra- dimenti, a mmia jevi
parando li viscati? Cercavi ntâ ‘na caggia mî mi menti E mî mi privi di la libertati! Non sugnu i chigli rcegli chi tu pensi, chi pê lu civu
rèstanu mbiglàti! Eu sugnu ‘nu rcegliuzzu assai valenti, tiru lu civu e
li dassu parati. Ci bella leggi (scritta in occasione del
referendum popolare del 1948, quando l’Italia passò dalla monarchia alla
Repubblica). Guarda chi bella leggi chi vinn’ora: l’omu mî si fa re, senza curuna; Ed è propostu pammi vaj a Roma, mî si mpossessa dâ sèggia putruna! Pagai nu sonaturi Pagai nu sonaturi pemmi sona, caminandu mi canta na canzuna; l’arju si trovava lampi e trona ed eu mi cuturnava a la fortuna. Lu ventu mi portau la bona nova, ca la forti timpesta pocu dura: ma si pe sorta càrmanu li trona mi consu all’orto e parru cu la luna. Mentri ti viju Mentri ti viju a ssa finestra stari, ti pregu, anima mia, non ti ndi jiri: dassami st’affritti o cchi sazijairi, mentri a li brazza non ti pozzu aviri. Magu nun sugnu, no, non stagnari Ca non guarandu a mia tu po’ moriri; se pe lo beni non mi voi amari non ti jiri ammucciandu e non ridiri. Maru cu’ di li donni beni spera Maru cu’ di li donni beni spera epacciu cu’ li servi e cu’ l’adura. Sa’ sinu a quando ti mostranu cera? Sinu a chi novu amanti si procura. E po’ t’inganna, ti tradi e ti nega. E po’ ti teni pe cchiù menu cura. Cistu mi custa a mia pe cosa vera: ca non c’è donna nomm’è traditura. |
Non penso morte Gioia mia grande, il cuore si dispera, chè vorrebbe
vederti in tutte l’ore. Non penso morte e non penso galera, ma di
venire in possesso di te. Penso che se ci uniamo, gioia vera, potrò ben dire che ho sposato un fiore, chè delle belle
siete la bandiera, con voi non patta né sole, né luna. Mi stavi preparado la pània Donna piena d’inganni e tradimenti, la pània mi tenevi
preparata? Tu mi volevi in gabbia immantinente, Per poi privarmi
della libertà? Non sono di quegli uccelli che tu pensi, che per cibo restano incollati; Io sono un uccelletto assai valente, mi prendo il cibo
ed evito imboscate. Che bella legge Che bella legge hanno tirato fuori! L’uomo diventa re, senza corona; e gli è permesso di portarsi a Roma, per stabilirsi sulla sua poltrona. Pagai nu sonaturi Pagai, perché suonasse, un suonatore,-camminando
cantasse una canzone:- l’aria era scossa da lampi e da tuoni- ed io chiedevo
aiuto alla fortuna.- Il vento mi portò la buona nuova- che la forte tempesta
poco dura:- se, per fortuna, ritorna il sereno- vado nell’orto e parlo con la
luna. Mentri ti viju Se tivedo affacciata alla finestra- ti prego, anima
mia, non te ne andate:- lasciami questi afflitti occhi saziare- se nelle
braccia non ti posso avere,- Ma go non sono, non aver paura,- chè semi
guardi, no, non puoi morire,- se per lo meno non mi vuoi amare-
non andare a nasconderti e non ridere. Maru cu’ di li donni beni spera Misero chi da donne bene spera- e pazzo chi lerve e chi
le adora.- Sai fino a quando ti fanno buon viso?Fino a che un nuovo amante si
procurano.-E poi t’inganna, ti tradisce e nega- e poi ti tiene in pochissima
cura.- Questo mi costa a me per cosa vera:- non c’è donna che non sia
“traditora”. |
FRANCESCO PULITANO’ (Pastore) Caraffa del Bianco 1889…
E’ il poeta politico della contrada e le sue
poesie riflettono le necessità del popolo in mezzo al quale vive. Neanche il
Pulitanò è andato a scuola perché c’erano le pecore da
guardare, e certi lussi solo i signori se li potevano permettere.
Pulitanò, al contrario di Massaro Rocco, ha però girato il mondo; è stato nelle
Americhe a cavare carbone per tanti anni, trovandosi alla fine più povero di
prima. In Calabria ha pascolato le pecore di molti padroni, con lunghi
intervelli del viaggio in America e i sette anni della prima guerra mondiale. Nella
sua vita ha raccolto solo fatica e disillusioni, ma ha imparato a lottare anche
con la sua ispirazione ed i suoi versi. Nella sua poesia le necessità e le
sofferenze del popolo sono espresse come un lungo grido di rivolta. Egli ha una
visione politica piuttosto chiara e completa. In molte delle sue poesie è
riflesso il sentimento d’angoscia e di ribellione del popolo contro la guerra,
e ha dedicato versi commossi ad Antonio Gramsci. Era dotato di uno
spirito giovanile e combattivo. Per questa posizione insita nelle sue poesie,
il parroco del paese gli faceva la guerra.
Primu Maju
Primu maju ben venutu,
durci simbulu amatu.
Da tant’anni ti si perdutu :
dì un po’: undi si statu?
Chi t’avi trattenutu?
Certu fu lu rinnegatu
di Benitu l’omu astutu:
ma cu sangu l’ha pagatu
Fu la guerra d’u fascismu
ch’i catini ha spezzatu,
primu maju liberatu
porta a nui la libertà.
Cuntr’a barbari e tiranni
lotteremu sin’a morti,
hannu uccisu a Matteotti,
chista grandi nobiltà
Si consacri nella storia
stu martiri socialista,
Matteotti alla memoria
pe la nostra libertà.
U Savoja già scumparsu
mai cchiù ritornerà;
non misura lu cumpassu
ma d’arretu tornerà.
Ndi detti guerra e distruzioni
di ricchezzi e viti umani,
ma in Italia li suprani
non regneranno cchjù.
E se no sempri luttamu
nta fami e nto disaggiu,
viva sempri u primu maggio
porta a nui la libertà.
Michele Strati (u DDia), S.Agata 1889-1967( bracciante)
Bracciante analfabeta, ha sofferto difficoltà
che avrebbero annientato chiunque (ha avuto una famiglia numerosa). Si è
difeso con la lotta politica e la poesia. La guerra (1915-18) lo
aveva reso quasi sordo, e, per tale motivo, era solito ricordare che
la belligeranza porta solo lutti e disgrazie, che
bisognava adoperarsi perché simili tragedie non avvenissero più. Con
suoi versi, pregni di sdegno e tensione rivendicativa, egli è riuscito a
portare su di un piano alto di scansione drammatica la dura e
squallida esperienza del bracciantato meridionale.
A vita d’u jornataru
Non fannu attru sti cani assassini,
ogni jornu nta chiazza a passijari.
Pe primu discursu si mèntunu a diri:
“U bassu populu ndavimu a scacciari”.
Ndannu i so’ vigni ch’i loro giardini
e tutti quanti li vonnu zzappari,
e si votanu cu inganni e cu rrisi:
“U bassu populu ndavimu a ‘vvisari”.
U garzoni u sentimu chiamari:
“Eu vi salutu, compari Micheli;
u patroni v’aspetta domani”.
Eu si domandu pe paga e pe spisa.
“Non sacciu nenti, veniti a zzappari”.
Partu a matina c’ò zappa ntè mani
E li me figghi ciangendu li dassu:
morti di fami su’ nudi e sciancati:
vegnu a la sira ciangendu li
trovu:
considerati chi cori e chi pensu”.
Eu partu e vaju nta chisti signori,
si vonnu pagari i me’ ffritti jornati.
Ffaccia la serva, rispundi e mi dici:
“Ha fattu viaggiu, tornati domani”.
Tornu a matina cu randi premura,
pemmu mi paga i me ‘ffrirri jornati.
“Ffaccia la serva, rispundi e mi
dici:
“Tornati stasira ca l’avi a scangiari”.
Vaju la sira c’u cori ntè mani.
Ffaccia la servasi e di novu mi
dici:
“Fermàti nu pocu ca ndavi a mangiari”.
Non fanno altro questi cani
assassini- che passeggiano ogni giorno in piazza,- per prima cosa incomincino a
dire “-“il basso popolo dobbiamo schiacciare”.-Hanno le loro vigne, i loro
giardini- e li vogliono coltivare tutti;- ammiccando tra di loro con risa di
scherno:-il basso popolo dobbiamo avvisare.-Il garzone lo sentiamo chiamare:- “
Io vi saluto,compare Michele:- il padrone vi attende domani”.- Io gli domando
per la paga e per la spesa.- “Ma non so niente, venire a zappare”.- Il giorno
dopo parto con la zappa in mano-e lascio a casa i bimbi che piangono:- Sono
morti di fame, nudi, laceri:- ritorno la sera e li trovo che piangono:-
considerate il mio cuore, i miei pensieri.- Parto e vado da questi signori:- se
voglio pagare le mie afflitte giornate.- Affaccia la serva, risponde e mi
dice:” il padrone è in viaggio, tornate domani”:- Torno la mattina
dopo con grande premura- perché mi paghi le afflitte
giornate.—Affaccia la serva, risponde e mi dice”—“Tornate stasera, che deve
cambiare”.—Vado la sera con il cuore un mano, -affaccia la serva con il cuore
in mano, affaccia la serva e di nuovo mi dice:--“Fermate un poco che deve
mangiare”.-serva
CARMELA BARLETTA (massara-poeta)
E’ nata a S. Agata del Bianco il 1910 e morta
nel 1984. E’ vissuta in un dignitoso silenzio, aperta solo a poche amiche. Ha
scritte molte poesie in dialetto, e forse qualche “serenata”, come Rocco Russo
suo marito, morto giovane, e provvisto di un’ironia arguta e tagliente.
Anch’egli era analfabeta, e delle sue “serenate” non è rimasta
alcuna traccia.
Su com’ò hjuri che nasci ntè valli
Su com’ò hjuri che nasci ntè valli
nta voschi e spini e nta li virdi fogghi:
chigliu ingiallisci e nugliu lo cogghi,
lu caru hjuricegliu è già ppassitu:
così sarà pe mia, tutto è finitu.
Di chistu mundu non vogghiu sperari,
a fortuna di mia si pigghia jocu
e mi jietta nte prufundi d’ù mari,
cercu i sbrazziju, ma sempri è assai pocu.
Non c’è cu’ pe mia poti lavurari
ca eu non ndaju patri e mancu frati;
non mi restava ca la sula matri
e puru d’iglia Diu mi vo’ privari.
E sula o mundu comu ndajiu a fari?
Ntà vita fici sempri boni azioni,
pecchì nullu ndavi u mi voli beni?
M’odia puru lu me sangu carnali
chi non mi poti e non voli vidiri.
vorria i ndaju a forza di suffriri
mi sprezzu u mundu e l’affetti
terreni
mi amu Diu cu la cchiù pura fidi.
Mbiati chigli chi sannu lottari
nta chista tristi e burrascosa vita
nta chista valli i lacrimi e duluri!
di genti farzi, velenosi e amari!
Accetta, cara e bona amica mia
chistu pocu d’à me’ tristi storia,
conserva beni chista poesia,
speru c’à teni pa’ memoria mia.
Come il fior che germoglia nella valli- tra
boschi e
spine e tra le verdi foglie:- quello
ingiallisce e nessuno
lo coglie,- il caro fiorellino è già
appassito;- così
sarà per me, tutto è finito.- Da
questo mondo
non voglio sperare,- la fortuna di me si
piglia gioco-
e mi sprofonda negli abissi del mare,- cerco
di uscirne
ma sempre è assai poco.- Non c’è chi per me
possa
lavorare- chè non ho padre e nemmeno
fratelli;- non
mi restava che la sola madre- e pure d’essa
Dio mi
vuol privare.-E sola al mondo come debbo
fare?-In
vita ho fatto sempre buone azioni,- perché
nessun mi
vuole ricambiare?- Mi odia pure il mio sangue
carnale-
che non vorrebbe nemmeno vedermi.- Vorrei
avere
la forza di soffrire- sprezzare il mondo e
gli affetti
terreni- amare Dio con la più vera fede.-
Beati
quelli che sanno lottare- in questa triste e
burrascosa
vita- questa valle di lacrime e dolori- di
gente falsa,
velenosa e amara!-
Accetta, cara e buona amica mia- questo brano
della
mia triste storia,- conserva bene questa
poesia,- spero
che tu la tenga a mia memoria.
martedì
11 dicembre 2012
LA
ZINGARELLA CHE VOLEVA LEGGERE LA MANO ALLA MADONNA
Elisabetta Pulitanò (Caraffa del Bianco (RC), 20
ottobre 1925) è una contadina piena di amore per la vita e
conserva lunga memoria sugli avvenimenti di cui è stata protagonista. E’ una
vera miniera di canti religiosi, di poesie in vernacolo, racconti popolari.
Mi accoglie contenta, ama parlare, trasmettere le sue conoscenze perché i
“giovani d’oggi nulla sanno di noi, del nostro passato, del nostro antico
sudore”. La sua voce, nonostante la raucedine, è intonata a pregna
di antiche fonìe. Il suo entusiasmo è contagioso, la sua serenità “sputa in
faccia” al vivere moderno, ai suoi ritmi frenetici, disumani, massificanti.
“Vengo dall’orto, ho dato da mangiare alle galline e, poi, ho bevuto un po’ di
latte”, mi dice nel mentre mi fa accomodare. Una casa piccola ma pulita,
ordinata e, quel che conta, piena di luce. “Fici ventu assai stanotti”,
mi dice con tono un po’ preoccupato, perché il luogo dove è ubicata la sua casa
è molto esposto ai venti, poggia proprio ai bordi estremi di Rione Pizzo da
dove è possibile ammirare un panorama marino di circa 50 km. E’ un po’ sorda e
devo “alzare la voce” per farmi capire. Il canto qui proposto è intitolato la
“Zingarella”, una giovanissima nomade cammina per dodici anni alla
ricerca di Maria che nel suo grembo (per intervento divino) porta
Gesù di Nazareth. Intende leggere la mano della Madonna, per
predirle il futuro.
mercoledì
27 giugno 2012
Intervista
di Francesco Ardino a Vincenzo Stranieri, a proposito della laurea ad honorem
in filologia moderna conferita dall'Unical al grande scrittore nativo di
S.Agata del Bianco (RC)
DI FRANCESCO ARDINO
D: Lei ha scritto
alcuni interessanti saggi su Saverio Strati dai quali si evince una
frequentazione culturale con l’autore de La Marchesina (1956), se pur
limitatamente ai periodi in cui l’artista faceva ritorno nella sua casa di
contrada “Cola” in S. Agata del Bianco, suo paese natio.
R:
E’ vero, ho avuto la fortuna e il piacere di incontrare diverse volte Saverio
Strati. Era sua abitudine ritornare con una certa regolarità a S. Agata del
Bianco, ciò per riposarsi, ma anche per lavorare ad alcune sue opere. Le bozze
de Il selvaggio di Santa Venere (Premio Campiello 1977) sono state, se mal non
ricordo, riviste e corrette nella casa di contrada “Cola” posta su di un poggio
con lo sguardo sul mare Ionio (una vista che abbraccia circa 50 Km di costa-
capo Bruzzano- Punta Stilo). Era sempre gentile, misurato nei giudizi, ed anche
un po’ geloso delle sue cose. Ma ero troppo giovane per capire la grandezza
della sua arte, mi accontentavo di dialogare sulle bellezze della nostra Magna
Grecia, sul fatto che questa era stata tradita dalle nuove mode e dalla
violenza della malavita. Ricordo le sue esortazioni a lavorare in difesa della
civiltà contadina. “E’ il nostro humus, non tradiamolo”, soleva ripetermi. Le
sue parole facevano trasparire l’angoscia per un mondo ormai preda del
cosiddetto vivere moderno. Una lezione che non ho dimenticato e che, tra
l’altro, sta alla base delle mie recenti ricerche etnografiche. Gli ho fatto
avere “La Koinè agro-pastorale nella Locride (Massari e pastori tra medioevo e
modernità) Age, Ardore Marina 2010, mia ultima fatica antropologica. Per
telefono si è detto commosso, ricorda molti dei protagonisti citati nel mio
saggio, le numerose foto lo hanno aiutato a ricordare alcuni eventi del
suo/nostro passato. Per non disturbarlo, mi limito a qualche sporadica
telefonata.
D: In un recente
saggio, lei ha scritto che Saverio Strati si è fatto da solo, ha edificato la
propria scrittura lontano dagli odierni “ascensori sociali”. Vuole spiegarci
meglio tale concetto?
R:
Fino a vent’anni, Strati ha fatto il muratore, non si è mosso dal paese, ha
conosciuto la fatica, quella che emana sudore, che rende gli uomini carne
bruciata dal sole o, diversamente, scalfita dal vento e dal freddo che non
manca nelle montagne calabresi. Ha lavorato ad Africo Vecchio, prima che
l’alluvione dell’ottobre 1951 lo rendesse un paese fantasma. Qui, poi, ha
ambientato il suo primo romanzo (La teda, 1957). Ha narrato dal di dentro
l’amara realtà di Terrarossa, il suo isolamento, la sua particolare condizione
antropologica. La scrittura stava, pur se lentamente, lievitando nel suo animo
e, spinto da un bisogno vero quanto incontenibile, intraprese la via degli
studi. A Messina, assieme a Walter Pedullà e Carmelo Filocamo, fu allievo del
grande critico Giacomo de Benedetti, che, letti i suoi primi racconti, lo
incoraggiò ad andare avanti “segnalandolo” alla Casa Mondadori e ad alcune
importanti riviste del tempo (“Il Ponte” etc). Era un “ascensore sociale”
lecito, di quelli che, appunto, segnalano un valore vero, non un fesso
qualunque privo di talento. Certo, dalla sua ebbe anche la fortuna. In quegli
anni il cinema era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti
popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi
subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché
anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a quella cineasta.
Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e
in numero notevole. A mio modesto avviso, le pagine più belle su Strati sono
state scritte da Pasquino Crupi, che gli ha dedicato un’intera monografia,
Walter Pedullà, Giuliano Manacorda e Geno Pampaloni. Strati abita da circa
quarant’anni a Scandicci, alle porte di Firenze, al quarto piano di un fabbricato
privo di ascensore (sic!); egli ha dedicato la sua esistenza all’arte, al punto
da non pensare ad altro, ai soldi, ad esempio. E ha dovuto, a malincuore,
chiedere per sé la Bacchelli, un sussidio per continuare a vivere. Altro che
ascensore sociale! Strati ha sempre pensato alla sua Calabria, se la è cucita
addosso per sempre, come delle stimmate.
D: Saverio Strati, il
primo dicembre prossimo, sarà insignito della “laurea ad honorem” in Scienze
letterarie (Filologia Moderna) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università della Calabria. Cosa ci dice?
R:
L’Unical ha voluto con forza che a Saverio Strati fosse conferito tale titolo.
A tal fine, il ministro Gelmini è stato “incalzato” a più riprese perché
firmasse l’autorizzazione di sua competenza. Tra i principali sostenitori di
tal evento vi sono i Proff. Vito Teti, Nicola Merola, Margherita Graneri e
Raffaele Perrelli, Preside della Facoltà di Lettere. Vito Teti (ordinario di
Etnologia e Direttore del Dipartimento di Filologia e del Centro di Antropologie
e Letterature del Mediterraneo) è amico dell’artista calabrese, si stimano da
qualche tempo; l’etnologo di S. Nicola da Crissa ha pubblicato parecchi saggi
sullo scrittore di S. Agata del Bianco, dove, oltre alla valenza letteraria, ha
tratteggiato con maestria il valore antropologico della sua opera. A Saverio
Strati, negli anni cinquanta, mancava solo la discussione della tesi per
conseguire la laurea in Lettere. Subito venne la letteratura, il tempo doveva
essere impiegato per edificarsi scrittore, e il titolo fu messo da parte, con
grande dispiacere per i suoi genitori-contadini, che speravano tanto in un
figlio laureato. Peccato che la salute cagionevole non consenta al nostro amato
artista di partecipare all’importante cerimonia (a ricevere per lui la preziosa
pergamena sarà sua nipote Palma Comandé, scrittrice); sarebbe bello assistere
alla sua emozione, nel mentre – di certo- dedica la preziosa onorificenza anche
ai suoi cari genitori.
D: Se le affidassero
l’incarico di scrivere la motivazione della laurea ad honorem a Saverio Strati,
cosa scriverebbe?
R: “
A Saverio Strati, nato a S. Agata del Bianco il 16 agosto 1924, è conferita la
laurea ad honorem in Scienze Letterarie perché per mezzo dei suoi numerosi
romanzi sulla civiltà contadina e l'emigrazione del popolo meridionale, ha
saputo dare dignità e fisionomia a un mondo che, altrimenti, la cultura
ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore delle ipotesi,
trasformato in mero folclore".
Pubblicato da Vincenzo
Stranieri a 00:33
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mercoledì
21 dicembre 2011
A
proposito accise e di lacrime e sangue. Lettera a un amico lontano
DI VINCENZO STRANIERI *
Caro amico, rispetto profondamente la tua rabbia, il
tuo disappunto. Ma se dovessimo disquisire sull'argomento per mezzo della
parola scritta, allora il discorso pretenderebbe una piega diversa, meno
“semplicista” per come l'ho voluta intavolare.
Tutti diciamo cose giuste, tutti sappiano come vanno le cose di questo il mondo
(dell'altro speriamo di venirne a conoscenza il più tardi possibile). Accise,
nepotismi, liberalismo sfrenato, ruberie all'infinito, etc., credi che ci sia
qualcuno sano di comprendonio che accetti tutto questo senza un minimo di
sussulto interiore? Tuttavia, per quanto mi riguarda, le urla di Grillo sono
frutto di una sua specifica patologia (logorroico, ghignante etc.) che in
psichiatria si chiama "sindrome bipolare cronica", e con tutto il
rispetto umano verso quanti ne sono afflitti, non è possibile affidare le sorti
dell'Italia a un personaggio che, se non sbaglio, da buon ligure si è fatto i
soldini, vive in una villa non certo da quattro soldi e, non pago del successo
artistico, si è convertito alla politica urlante. Insomma, non ha le carte in
regola per fare il profeta, non somiglia in niente al piccolo Buddha, e se ha
letto Siddharta, è
chiaro che l’ha fatto da una prospettiva sbagliata. Bossi era/è un elettro
medico, così si è autodefinito nel corso di un'intervista quando ancora era
agli esordi con il marchio della lega lombarda. E lasciando ai piccoli
acquitrini del varesotto le trote di famiglia, il suo populismo è ormai carne
putrefatta.
Celentano è un altro populista (con e/o senza la via Gluck) che ha poggiato il
sedere su un bel sacco di miliardi, vive in villa principesca, per poi,
all'occorrenza, sputare sentenze, rimanendo attento, però, ai cachet RAI
quando, con i nostri soldi, decise di romperci i timpani con lunghi quanto
“loquaci” silenzi. Di Pietro è anch'esso un populista: contadino furbo, una
sorte di Bertoldo alla corte del Principe. Ha tutto il partito nelle sue mani,
palazzi a destra e manca, suo figlio maggiore è stato eletto consigliere
regionale in Molise, per non parlare dei suoi trascorsi di magistrato arrogante
a dismisura, accecato dall'odio verso tutta la politica, per poi finire
anch'esso nel tritacarne dei prestiti facili per l’acquisto di un'auto usata
che, a distanza di vent'anni, non si capisce bene con quali soldi l’abbia
pagata. Diceva Corrado Alvaro (in Quasi una vita, mi pare) che, spesso,
ci illudiamo che anche il male contenga un po' di bene. Quando vedo demagoghi,
pseudo imbonitori che aizzano folle gaudenti, mi viene una paura-panico, perché
la storia ci ha insegnato che tutti i capi-popolo, acquisito il potere. sono
divenuti dei meri carnefici. Vuoi che io non sappia quello di cui parla Grillo?
Vuoi che io non sappia tutto il resto ? Ma, per quanto mi attiene, non è dando
linfa a questi mitomani che costruiremo un'Italia nuova e diversa. Intanto
basterebbe essere: uomini umili ma accorti, propositivi e privi di alterigia;
genitori autorevoli ma non autoritari (conta l’esempio più che il sermone
volutamente istrionico di Fiorello), professionisti/o pensionati pregni di
dignità e rispetto delle regole democratiche. Tutto ciò sarebbe già un
miracolo. E poi, visto che abbiamo già dato molto, pagando di persona prezzi
elevatissimi (tu ed io ne sappiamo qualcosa) sperperando preziose energie, non
dobbiamo per forza indignarci inseguendo il vendi/pentole di turno. La storia,
come ben sai, è cosa seria, ha tentacoli lunghi, ci insegue ad ogni passo, è
accorta più del diavolo, ci costringe a virate coraggiose quando il mare è in
burrasca. Per questo temo i bucanieri alla Grillo, perché sono spinti non da
vera sete di giustizia ma da istinti faraonici capaci di intorpidire oltremodo
le già acque già putrefatte della politica italiana e non . Riprendersi
la Polis non è facile, nemmeno reiventarsi realtà di cultura in poco tempo;
tuttavia bisogna insistere dentro l’alveo delle regole democratiche nel
tentativo di realizzare un’alternativa moralmente decorosa da contrapporre al
marciume odierno, recuperando il senso dello Stato e quindi dell’appartenenza.
Belle parole, lo so anch’io, ma è pure umano voler tirare il fiato, guardarsi
attorno con maggiore attenzione, non farsi fregare da valutazione affrettate.
Questo non vuol dire che la sinistra non possa - se aiutata a crescere e a
migliorarsi- proporsi alternativa valida alla demagogia cui ho accennato.
Non era vera sinistra nemmeno il partito di Bertinotti, l’ex sindacalista
borghese vestito all’inglese, con due filippine al suo servizio e un reddito
annuo dichiarato di circa 600. 000 euro. Per questo e altro preferisco il buon
Bersani (io che sono e rimango un socialista che non ha vergogna di dichiararsi
tale) e non un Renzi pseudo-rottamatore che, appena insediatoti quale
Sindaco di Firenze, ha pensato bene di arredarsi l’ufficio spendendo un
sacco di soldi. Ha rottamato il vecchio ufficio con mobilio nuovo, insomma.
Questi parolai-sbruffoni, questi maestri della metafora/sibilante alla Vendola,
questi neo-giullari che usano un linguaggio enfatico al mero scopo di
spaventare le “vecchie zie”, mi fanno specie più degli impaludati
dinosauri. Aveva ragione Gaber, dunque? Monti, stasera, ci parlerà di
lacrime e sangue, e i primi a pagare saremo tu ed io, e vuoi che non sia
indignato, stante, pure, che dopo trentaquattro anni di servizio percepisco 1280
euro il mese? Vuoi che stia tranquillo avendo tre figli che, come i tuoi,
e altri milioni di giovani, sono alla disperata ricerca di una legittimazione
socio-economica, oltre che culturale? Nondimeno, come anticipatoti, Grillo e
company sono dei pericolosi dittatori in pectore.
* (pubblicata su “il Quotidiano di Calabria”
l’8.12.2011, p-23.)
domenica 25 dicembre
2011
Angoli d’infanzia,
(Don Carlo Rossi) S.Agata, 12 novembre 2008
di Vincenzo
Stranieri)
Carlo Rossi
Ci ha fatto sognare,
regalandoci angoli d’infanzia pieni di vera luce. Il suo
cinema all’aperto, un ‘arena ricca di voci spensierate e tanta voglia di
vita, ha rappresentato, nel corso degli anni ’60, un riferimento sociale per
l’intera Vallata la Verde.
Carlo Rossi (don),
morto all’età di 70 anni lontano dalla sua S.Agata del Bianco, ha coltivato
fino all’ultimo la sua passione per il cinema.
Caratterialmente
istrionico, amava scherzare, scambiare battute sagaci con gli amici del
paese.
Un’ ironia, la sua,
portata volutamente all’eccesso, che, però, nascondeva non poca malinconia.
Ha fatto conoscere
anche ai nostri piccoli paesi la cultura cinematografica che in quegli
anni si respirava in Italia e nel mondo, le stesse atmosfere poetiche
magistralmente rappresentate nel film-capolavoro di Giuseppe
Tornatore, Nuovo Cinema Paradiso.
Amava S.Agata in modo
viscerale, avrebbe di certo voluto rimanerci per sempre. Ora vi riposa lontano.
Sarebbe bello, una di
queste estati, nella sua piccola/grande arena, poterlo ricordare, organizzando
con la sua famiglia una retrospettiva sulle centinaia di cartelloni
pubblicitari dei suoi/nostri “vecchi” film, facendo conoscere ai
giovani anche i numerosi scorci di vita paesana ripresi con la sua immancabile cinepresa,
e, successivamente, curare una retrospettiva sul mondo contadino della
vallata, che, grazie al nutrito album fotografico del nostro amico Carlo
Rossi, potrebbe trovare maggiore spazio nella memoria della nostra
disattenta comunità.
Amava le macchine
d’epoca, amava il bello. Amava la vita.
Grazie di cuore per averci consegnato
(custodito) un pezzo importante della nostra storia antropologica, per averci
regalato non pochi sorrisi nel mentre a passi veloci, di spalle, venivamo
“aggrediti” dal mondo adulto.
venerdì 9 dicembre
2011
"LA PROVINCIA
UMANA” NE I “RITRATTI” DI GIUSEPPE ITALIANO
RIVISITAZIONI
di
Vincenzo Stranieri
Nel suo primo lavoro
diaristico-narrativo, Ritratti, (Editoriale Progetto Parallelo
2000, Cosenza, 1995), la cosiddetta realtà esterna risulta agli occhi di
Giuseppe Italiano un patrimonio che, se non appuntato a mo' di ritratto,
scompare per sempre, non appartiene al vissuto.
L'autore è impegnato nella denuncia di
ciò che appare eticamente non giusto, di chi -a esempio- " spacciava
per opere di bene gli atti dovuti".
E nel fare ciò non giustifica alcuna umana
debolezza, non ammette la più minuta ipocrisia, tantomeno sopporta che "Ai
funerali del grande scrittore, il funzionario Ilario si muove, ammicca,
sorride, tra i massimi esponenti della politica...".
Italiano si sforza nella costruzione di un
palcoscenico dominato da personaggi la cui azione teatrale non supera quasi mai
la mediocrità. Un mondo di inetti convinti di essere al centro della storia.
Pertanto, in presenza di tanto umano
squallore, le pagine parlano il linguaggio della delusione, evidenziano un
disagio esistenziale notevole.
L'elenco dei disonesti tracciato dal Nostro è
lungo. Vi è il ritratto di chi ottiene favori, di chi approfitta del malgoverno
per arricchirsi a piene mani, di chi utilizza la propria posizione sociale per
produrre angherie a scapito degli onesti.
"Usciti dal carcere, dove avevano
dimorato per mesi, gli amministratori, si presentano all'Ente e vengono accolti
con fragoroso applauso dai colleghi".
Un mondo dove risulta indispensabile essere
furbi, ipocriti, servili fino al grottesco.
"Parla male del Sindaco. Quando lo
incontra, lo saluta amichevolmente e si dichiara a sua disposizione".
Un mondo dove gli occhi dell'infanzia non
hanno ancora la forza di cogliere le forme di inganni mimetizzati dietro
sorrisi ingannevoli. "Mi sorrideva con affetto, mi usava delicato
rispetto, quantunque fossi un bambino. Seppi dopo anni che era la donna di
tutti". E' una provincia lontana dal mondo, quella narrata
da Italiano, che egli, nonostante i numerosi lati negativi, ama
passionalmente.
Sullo sfondo dei ritratti di Italiano, si
intravede, quasi come un'ombra velata, la figura di Mario La Cava,
autore, tra l'altro, del famoso "Caratteri" pubblicato da Einaudi.
Italiano, si sa, è stato in stretto rapporto
umano-culturale con La Cava, e ha dovuto lottare non poco per
pervenire a quella unità stilistica necessaria per camminare in piena
autonomia. Ciò è confermato dai suoi successivi lavori (La forza della
semplicità-Francesco la Cava tra scienza e fede- AGE, 2002, e i
numerosi saggi, recensioni su quotidiani e riviste di una certa levatura,
dove si è mostrato in grado di reggere all’urto della solitudine di
provincia, per narrare forme più vaste di umanità sofferente.
lunedì 28 febbraio
2011
LE VIE DEL CANTO Nel
recentissimo saggio-racconto Pietre di pane (Un’ antropologia del restare),
Quodlibet, Macerata 2011, Vito Teti, antropologo, narra l’avventura del
restare- la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della “restanza”.
Pubblicato su "il Quotidiano della Calabria", giovedi 24 febbraio
2011, pag.46
di Vincenzo Stranieri
I
poeti non hanno bisogno di viaggiare, conoscono spazi infiniti, volgono il loro
sguardo su distese dove non giunge nemmeno l’occhio insolente dei nuovi sistemi
satellitari, perché la visione d’insieme di un poeta, il suo radar
intellettuale è in grado di opporsi a chi crede- e sono in molti,
purtroppo- di poter trasformare l’esistenza vera in realtà virtuale,
costruita sulla totale finzione.
Certo- per dirla con Pessoa- anche i poeti sono dei fingitori, non perché
falsi o ipocriti, ma perché necessariamente avversi alla cosiddetta realtà. Un
poeta vero, infatti, non può che opporsi all’esistente, allo status quo.
La Poesia dà un valore alla vita, la scandaglia a suo modo, rappresentando una
delle cime più alte del pensiero umano. Sfugge al concretismo dei più, e,
all’occorrenza, crea turbamento in chi non crede nella forza della parola scritta,
giudicata vana, innocua, ridicola perfino. Un poeta non vive in un preciso
luogo spirituale: scruta, s’immerge negli abissi marini alla ricerca di luce,
riemerge per dare conto delle sue visioni, del suo sguardo sul mondo. E
tuttavia - ciò non è una contraddizione- ha bisogno di ancorarsi a un luogo
fisico, trasformarlo in finestra sul mondo. Il luogo può essere quello natio
dove egli sarà testimone di mutamenti radicali e dal quale -a un prezzo
altissimo-, potrà intraprendere la sua azione intellettuale, oppure porsi su
altri lidi alla ricerca di un’altra dimensione, considerata- a torto o a
ragione, cosmopolita. Vito Teti, antropologo di professione, è – secondo
chi scrive-, prima di tutto poeta, perché ragiona come un poeta, si commuove
come un poeta, scandaglia i luoghi della memoria con la stessa ansietà di chi
crede nella forza dei versi.
La sua scrittura, infatti, cede alla commozione, diventa lirica all’occorrenza,
si trasforma in melanconia creativa quando sorvola paesaggi lunari, deserti
dell’anima, paesi abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio
dei poveri, degli emigranti, di chi ha dovuto lasciare per sempre un mondo
conchiuso, con le sue storie, le sue radici, i suoi sogni, per reinventare
altrove quanto lasciato in paese. Un conflitto, più intellettuale che
psicologico, affiora in molti suoi lavori e prende ancor più forma e
dimensione nel suo recentissimo saggio-racconto Pietre di pane (Un’
antropologia del restare), Quodlibet, Macerata 2011, dove- dopo anni di
dubbi e lacerazioni -, afferma che restare in paese ”… non è stata, per
tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è
stata un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e
un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è
un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche
dell’identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una
diversa esperienza del tempo”. Teti compie un viaggio quasi
espiatorio nei luoghi dell’emigrazione di suo padre Nicola in Canada,
partito quando lui era appena un bambino, e dove ha modo di incontrare
numerosi compaesani stabilitisi in quella nazione lontana ormai da qualche
tempo. E’ un andirivieni di viaggi intellettuali e viaggi veri, una
sorta di psicoanalisi della stanzialità. Il “privilegio” (si fa per dire)
d’essere rimasto in paese, Teti lo sconta vivendo e narrando il dramma del
distacco, della recisione ombelicale con il luogo d’origine che non ha
potuto proteggere dal distacco tutti i suoi figli. I meridionali, infatti,
crescono con il marchio di una maledizione storica: occupazioni,
alluvioni, terremoti, e, infine, l’emigrazione, una violenza che affonda
il suo coltello luccicante nella carne della civiltà contadina, i suoi figli
migliori, stranieri dentro e fuori le proprie mura, e la consapevolezza del
tradimento, dell’impossibilità di ritornare in patria, con nel cuore le forme
incancellabili dell’infanzia . Nel racconto Il cammino di Vallelonga Teti
registra il tempo perduto, “…le prestidigitazioni della memoria che non
di rado inventa, riorganizza il passato, lo fa affiorare diversamente da
come lo abbiamo realmente vissuto”. Egli rivive, ricostruisce “Le vie del
canto”, l’amarezza per la “perdita di forma”, direbbe Calvino. “Le vie
del canto,” narrano dell’amata infanzia, quando tutto sembrava immenso,
anche le strette rughe (vie) di Villalonga , clonate in un luogo (il
doppio” oltreoceano), dove gli emigranti cercano disperatamente di
reinventare il paese d’origine nel rispetto delle antiche forme, dei riti,
delle tradizioni, abitudini etc. Qui la scrittura di Teti s’impregna d’angustie
che gli rimbalzano dentro come lame sottili in grado d’incidere la carne,
di farlo soffrire più del dovuto. Il Teti dei primi racconti
è ancora un emigrante, e con un senso di colpa che gli scava l’anima. E’ ancora
alla ricerca culturale che giustifichi la sua stanzialità, il suo essere
rimasto in Calabria, nel suo paese d’origine, San Nicola da Crissa. E sì perché
bisogna pure giustificarsi d’essere rimasti a combattere da soli in una
terra bella e piena di luce, ma ancora ferma alle leggi del sopruso e del
malaffare, anche se, questo va detto, vi è una bella società civile che tenta
in ogni modo di arginare i danni, di combattere la neo barbarie. Va
riconosciuto a Teti, sul piano del linguaggio, di non essere caduto nella
trappola del già detto e/o del già scritto, in quel surrogato di
neorealismo che ancora imperversa per le nostre stanche provincie. Chi scrive,
chi fa letteratura non può, non deve rappresentare alcuna genia o glossa.
L’artista deve coltivare il suo essere individuo/universo consapevole di
appartenere al mondo. Il linguaggio di Teti, che sfugge ai limiti
del neorealismo storico, è cristallino, i segni incisi sulla carta
provengono da memorie che affondano le loro radici nella dimensione
spazio-temporale della civiltà contadina, ma non certo per mera nostalgia, non
agogna di certo alcun asino con in groppa contadini stanchi dopo la mietitura e
le lunghe giornate ad arare i campi arsi dal sole. Si tratta, invece,
dell’arduo tentativo di donare memoria, elementi utili alla conoscenza
del mosaico umano appena trascorso cui Teti regala non poche tessere per una
sua- si spera- non lontana ricomposizione. Ciò non è una colpa, un
difetto, ma un modo di avversare l’idea di rimozione globale (la formattazione
dell’umano!) che oggigiorno tende a cancellare ogni traccia dei microcosmi
antropologici che compongono il mondo. “Chi lo sa? Forse la vita è piena di
reti, vere o inventate da noi stessi, che non possiamo evitare e più ci
affrettiamo e più ci avviciniamo alla nostra ultima rete”. La
crisi è planetaria, Teti lo sa bene, l’uomo si allontana a grandi passi
da un neo-umanesimo in grado di partorire un’etica per il futuro. S’incammina,
invece, verso una neo-barbarie che tutti dovremmo cercare di combattere o
perlomeno arginare. Il testo di Teti è composto da 14 racconti-saggi,
introdotti da un’emozionante quanto lucido “Prologo del restare” e chiusa da
una nota bibliografica anch’essa un racconto, stante che descrive le fonti
utilizzate, ma in modo non tecnico-burocratico, ma con un’enfasi linguistica
arguta quanto originale. Leggere per credere. Teti è innamorato dei grandi
scrittori nati nella Locride del Novecento (C. Alvaro, S.
Strati, M. La Cava, F. Perri ecc.), li conosce bene, li ha
scandagliati e dal lato letterario e da quello strettamente
antropologico. Li cita in diversi passi di questa sua fatica letteraria,
omaggiando Alvaro - a esempio- intitolando uno dei suoi racconti Madre
di paese, lo stesso titolo col quale Alvaro pubblicò un omonimo
racconto negli anni ’30. Alvaro è un maestro di levatura altissima, ma Teti,
con intelligenza e misurata umiltà, non ne scimmiotta la struttura formale, si
sottrae alla stretta pericolosa del registro stilistico alvariano,
proponendoci un ritratto di sua madre ora immerso nella vis tragica ora
in quella comico-grottesca. Mi piace chiudere queste mie modeste
considerazioni, citando il passo di Alvaro che ha sollecitato in Teti l’idea
d’intitolare il suo saggio Pietre di pane, riportato nella quarta di copertina.
Scrive Corrado Alvaro in “Pane e pietre” : “A volte i sassi hanno
forma di pane. Bisogna vederli, a una svolta di una strada biancheggiante,
umili di sassi che sembrano pani. Sono i sassi dei torrenti, arrotondati e
dorati. La prima idea è quella del pane. Poi della pietra. E la fantasia
oscilla tra questo due estremi. Sono i mucchi dei sassi trasportati dal greto
de torrenti e ammucchiati per fabbricare la casa”.
martedì
8 febbraio 2011
IL
RUOLO DEL CORPO NELLA SOCIETÀ ANTICA E CONTEMPORANEA
di Vincenzo Stranieri
Non conosco l’intimo motivo che mi ha fatto collegare il saggio di Carmelo
Carabetta Corpo forte e pensiero debole. Immagine, efficientismo, edonismo,
sessualità e corpo umano nel postmodernismo, Franco Angeli Editore, 2007, ad
“Immobilità”, poesia d’amore di E. Evatušenko.
Forse perché entrambi, almeno in questo caso, si occupano del ruolo rivestito
dal corpo umano nella cosiddetta società del postmodernismo, delineando, pur se
da postazioni culturali diverse, i motivi che hanno determinato un
“declassamento” della spiritualità.
Evatušenko prende atto che nella società odierna la forza dei muscoli prevale
sull’intelligenza, il mito dei bicipiti è divenuto unità di misura dell’essere,
e a nulla sembra servire la spiritualità di una coppia che, nel tempo, si è
costruita la propria dimensione spirituale.
Declama infatti Evatušenko in “Immobilità”:
…La vita non ci ha sottratto ancora
l’unica nostra proprietà:
i nostri corpi sovrani.
Ma atleti-super avanzano,
futilità e bicipiti combinati,
ci schizzano le schiene di mare,
gagliardi ci oltrepassano.
Scherzano con voce matura,
ma sento, e pare infantile ciangottio,
un “Colossale”, e ancora:
“Forte”,”Un maglio”…
L’analisi sociologica di Carabetta ben si coniuga con la tensione poetica di
Evatušenko. Entrambi, infatti, si scagliano contro ”il dogmatismo biologico
incentrato sulla ipervalutazione del corpo e sulla sessualità a dismisura,
[che] favorisce nuovi modi di vita, sollecitando la crisi di alcune istituzioni
e la neutralizzazione della tradizionale dimensione etica”.
Oggigiorno, specie agli anziani, non è consentita la sovranità del proprio
corpo, e non solo per l’avanzare del mito dell’atleta super: all’orizzonte
s’intravedono le forme di un corpo “destorificato”, per dirla con Featherstone,
volto a rappresentare un benessere fisico illimitato. Tale falsa credenza è
alimentata da un neonarcisismo che invade ogni spazio della vita umana.
Difatti, come ben evidenzia Carabetta, “la cultura affermata del postmodernismo
intende emarginare l’angoscia del corpo vecchio e cadente, con ogni sorta di
intervento considerato utile per ostentare il giovanilismo ed emarginare i
segni dell’usura del tempo”.
Ed in tal senso, il volume di Carabetta, ordinario di Sociologia della famiglia
presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Messina, analizza e
studia, con l’ausilio di una vasta quanto ricca bibliografia che include i
maggiori studiosi della materia assieme ad importanti filosofi e scrittori, il
ruolo del corpo sia nella società contemporanea sia presso le culture più
significative del tempo passato.
“Nella società contemporanea - sottolinea Carabetta- all’anima non si riconosce
più la centralità dei secoli passati… Il dogmatismo biologico incentrato sulla
ipervalutazione del corpo e sulla sessualità a dismisura, favorisce nuovi modi
di vita, sollecitando la crisi di alcune istituzioni e la neutralizzazione della
tradizionale dimensione etica…, [favorendo] una incessante lotta per acquisire
importanza, investendo il massimo dell’interesse nella cura del corpo, spesso a
detrimento del necessario impegno per la formazione culturale e professionale”.
Carmelo Carabetta, Corpo forte e pensiero debole. Immagine, efficientismo,
edonismo, sessualità e corpo umano nel postmodernismo, Franco Angeli Editore,
2007, pp.171, €16,00.
l senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi
abbandonati (Donzelli, Roma 2004, pag.597,euro 32, prefazione di Predrag
Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia presso l’Università della
Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo,
di Vincenzo
Stranieri *
Il senso dei luoghi.
Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, Roma 2004,
pag.597,euro 32, prefazione di Predrag Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia
presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e
Letterature del Mediterraneo, è un viaggio intellettuale dentro l’animo dei
numerosi paesi abbandonati di Calabria, i cui ruderi risultano sconosciuti e
privi di senso soprattutto ai calabresi, che, in quanto a volontà di
conoscenza, a valorizzazione della propria storia, peccano senza particolari
rimorsi.
Quello di Teti è
quindi un viaggio all’interno di paesi abbarbicati, come ci ricorda
Corrado Alvaro, “…sulla schiena di una montagna come quei nidi di creta che
fanno i calabroni intorno a uno spino indurito…”, e che, nonostante le alterne
vicende vissute (subite) ad opera dei conquistatori di turno,
riuscivano comunque a mantenere una propria identità, consegnando alle
generazioni future il seme antropologico d’appartenenza: i riti, le abitudini,
le tradizioni, l’idea della vita e della morte, le processioni dei santi
intrise di un “sano” paganesimo, che, in nome della tradizione,
appunto, vede/va numerosa anche la presenza laica, che, nella religiosità
popolare, ritrova/va le forme ancestrali della propria spiritualità.
Con questo suo
prezioso lavoro, l’antropologo nato a San Nicola da Crissa
(VV), dove continua a passare buona parte del suo tempo, ha
inteso recuperare (anche per mezzo di un’antologia fotografica ampia e ricca)
la dignità, il senso socio-antropologico delle molte comunità
calabresi vittime della litoralizzazione selvaggia, disfatte dall’emigrazione
forzata, frantumate da terremoti ed alluvioni (da ricordare quella che
distrusse completamente Africo vecchio e Casalnuovo nell’ottobre del 1951, procurandovi
morti e rovine).
Si avverte, nel
lavoro di Teti, un’ansia particolare, una sofferenza interiore inconsueta.
Difatti, il suo viaggio intellettuale si svolge all’interno di una realtà
geografica, quella dei paesi abbandonati di Calabria, apparentemente senza
vita; e da qui, forse, il timore di profanare, con la sua presenza tesa
allo scandaglio, luoghi divenuti, col trascorrere del tempo, sacri ed
inviolabili, immersi in un silenzio rotto solo dal fruscio del vento o da
qualche gheppio isolato.
Luoghi, questi, dove
in un tempo non troppo remoto v’erano paesi ansimanti di vita in cui era
possibile udire le voci dei bimbi intenti nei loro giochi, ascoltare, per le
rughe strette, i dialoghi tra vicini di casa che narravano degli scarsi
raccolti, della miseria che albergava nelle loro dimore, e del futuro,
denso d’incognite, privo di qualsiasi speranza, forse.
Vito Teti, con questo
pregevole quanto originale lavoro di ricerca antropologica, che di sicuro si è
confrontato positivamente con le suggestive atmosfere sul senso dei luoghi
suggerite dagli studi dell’antropologo francese Marc Augè, ha sentito il
bisogno, intimo quanto insopprimibile, di spezzare il processo di rimozione
cresciuto a dismisura attorno ai paesi abbandonati Calabria, trasformandoli
in preziosi laboratori a cielo aperto, che meritano d’essere conosciuti e
visitati per il loro valore storico- antropologico, per la
ricchezza simbolica dei loro antichi manufatti. Ne citiamo alcuni:
Pentadattilo, Roghudi, Chorio di Roghudi, Brancaleone, Africo e
Casalnuovo, Biancovecchio- Precacore-Samo, Ferruzzano (vi sono rimaste solo
poche decine di famiglie), Palizzi superiore, Badolato superiore, Nicastrello,
etc..
Densa di tensione
poetica risulta l’introduzione curata dallo stesso autore. Vibrano emozioni
decise, la consapevolezza (non consolatrice, purtroppo!) che vi è un tempo in
cui gli orizzonti della vita si dilatano fino all’inverosimile,
l’occhio si perde su spazi quasi infiniti, nuovi bisogni delineano la
loro presenza, introducendoci in uno spazio inesplorato della conoscenza.
Per Teti, infatti,
tutto conta nella vita di un uomo, tutto ha un senso, anche i luoghi
abbandonati hanno un loro sentimento, perché “ le rovine sono il segno di
qualcosa che è stato e non è più, con un passato che interpretato e con cui
bisogna fare i conti”. Ed i conti col passato Teti intende farli a suo
modo, con le armi della ricerca sul campo (ha visitato i paesi abbandonati
anche con l’occhio della macchina fotografica), ma, soprattutto, ha scandagliato
ogni vicolo, ogni ruga, ogni pietra, conscio che tutto poteva parlare il
linguaggio della storia, essere testimonianza del lungo cammino dell’uomo
verso la conoscenza. Così facendo, egli ci aiuta a fissare lo
sguardo su particolari prima insignificanti, a prendere atto di una realtà
(interna/esterna) apparentemente informe, ed invece provvista di un suo
particolare modo di essere, di un suo senso, appunto; “perché le
rovine alimentano il senso della storia dell’umanità, sia esse viste come
progresso o percepite come decadenza”. Ed è proprio con questa consapevolezza
(la stessa che lo aveva assalito nel corso dell’infanzia, quando, per dirla con
Alvaro, tutto è accaduto) che Teti si è accostato ai ruderi degli antichi
insediamenti urbani della nostra realtà territoriale abbandonata, nel
tentativo, riuscito, di dare forma e significato ad un mondo apparentemente
privo di voce, ma che possedeva/possiede una realtà ansimante e
pregna di storia dove non prevale il pittoresco tanto meno le forme asfittiche
e rassegnate di eventi distruttivi. La descrizione dei luoghi abbandonati, la
loro storia, le foto che ritraggono immagini di processioni, fiumare, ruderi,
chiese, paesaggi particolari ed altro, esprimono un solo linguaggio, non vi è
alcuna dicotomia tra linguaggio scritto e linguaggio fotografico, sono
strumenti, questi, che, tra le mani di Teti, operano in sintonia, in
simultanea, anzi, facendoci rivivere -ad esempio- fatti, accadimenti
ancora custoditi dai castelli-ruderi, che hanno visto nascere crescere
e scomparire nelle voragini della storia numerose famiglie nobiliari assieme ai
poveri di sempre. Come in un film in bianco e nero, l’autore, ci mostra con
pazienza ed arguzia, ruderi, pietre disseminate su scoscese voraginose, e
poi bastioni che rimandano a scontri bellicosi dagli esiti
incerti. Affreschi ormai cancellati dall’inclemenza del tempo e
dall’incuria dell’uomo, conservati a stento in chiese divenute informi,
rivelano secoli di profonda spiritualità, sommesse invocazioni divine, riflessioni
sull’eterno miste a lacrime di vera commozione. Ma anche i ruderi semplici, le
pietre costituenti le casupole dei poveri danno una spinta forte alle emozioni.
Facile immaginare le terribili condizioni di vita di un tempo non troppo
lontano: bimbi coperti di stracci, volti di uomini e donne scolpiti
dalla fatica, impegnati a fuggire la miseria in una società protesa a rendere
più reietti chi storicamente ha conosciuto solo l’inganno breve dei
Masaniello di turno. Aspra era infatti la lotta per la sopravvivenza ed
intuibili i soprusi dei potenti; storie dense di vessazioni quotidiane, un
quadro esemplare del rapporto di assoluta dipendenza del mondo contadino, privo
di qualsiasi guida, impotente di fronte alle ingiustizie. Difatti, come ci
ricorda in alcune pagine Teti, la vita di quegli anni era scandita dalla crisi
cicliche dovute ai quattro dell'Apocalisse (acqua, fuoco, carestie, epidemie),
pertanto, gli uomini erano costretti a considerare la natura come ad un
interlocutore dal quale si poteva sì attingere il necessario per
sopravvivere, ma che, senza alcun preavviso, procurava eventi
calamitosi in grado di scompaginare interi territori della nostra regione.
Un viaggio, ancora,
dentro le forme di una realtà densa di storia umana, dove bastava un cattivo
raccolto, un inverno gelido o un "morbo repentino", a decimare intere
famiglie (fuochi), a modificare negativamente i rapporti strutturali della
popolazione. Per non parlare poi dei terremoti, capaci di sfigurare il
volto dei territori calabresi scompaginandone il quadro demografico
(tragici gli eventi sismici del 1783, 1905 e 1908, come pure gli innumerevoli
che li hanno preceduti nei secoli). Ed infausti si rivelavano eventi come la
peste ed il colera, capaci anch’essi d’intaccare il delicato equilibrio
delle cosiddette classi d'età della popolazione, mentre non meno traumatiche
erano le frequenti carestie, in grado di provocare rachitismo,
alterazioni scheletriche, gozzo, malformazioni psico-fisiche gravi , ecc. Come
si può capire, doloroso e poco agevole è stato il viaggio di Vito Teti per i
paesi abbandonati di Calabria, perché proprio quando sancisce la presenza di un
luogo abbandonato, comincia e delinearne le fattezze antropologiche, è
costretto ad affondare il suo bisturi nella carne viva della storia umana della
sua/nostra terra; pertanto non è facile visitare (alcune volte lo ha fatto in
compagnia di cari amici e/o accompagnatori occasionali) paesi-cimitero, paesi
sterpaglia, paesi-rovi e ai quali bisogna dare un senso, ricostruirne, per
quanto possibile, la storia. Tutto questo Teti lo ha fatto con intelligenza e
ad amore, lasciando da parte, all’occorrenza, l’uso di un linguaggio gergale,
ma narrando poeticamente (perché in fondo questa è la sua vera natura) le
innumerevoli storie di comunità il cui senso era/è pregno di vita ancor più di
quello delle neo-comunità sorte quasi tutte in pianura come inutili doppioni, e
che, ancora oggi, stentano ad avere una loro precisa fisionomia socio-culturale
e architettonica .
Vito Teti non è un viaggiatore
straniero, è un prodotto della nostra terra, e, per ragioni ovvie (sia epocali
che culturali), non può narrare la Calabria col metro utilizzato da N.
Douglas (Vecchia Calabria) e da G. Gissing (Sulle rive dello
Jonio), due straordinari viaggiatori inglesi (prima di loro altri
viaggiatori stranieri non meno importanti hanno visitato la Calabria), ai quali
dobbiamo molto per quanto hanno e capito e scritto della nostra terra tra
la fine del XIX sec. e l’inizio del XX sec. Teti non intende, diciamo
così, salvare i paesi abbandonati di Calabria, tanto meno crede ad un loro
ritorno a nuova vita. Egli, narra dal di dentro, è parte integrante della
Calabria in stato d’abbandono; il suo viaggio non ha i connotati del
racconto-viaggio ad opera dei rampolli della borghesia europea, con lo scopo
precipuo di cogliere gli aspetti pittoreschi della nostra terra, scoprire
le fattezze di luoghi aspri e selvaggi decantati (in
negativo, naturalmente) presso le corti d’Europa tra Settecento ed
Ottocento. Lo stesso Teti è luogo, che, per questo, sa penetrare
nell’anima più recondita dei ruderi dei paesi abbandonati, che parlano il
linguaggio della storia, che narrano di eventi secolari, che non sempre
danno risposte certe alle mille domande di Teti, che, come preso da un
parossismo insopprimibile, si mette a scattare foto su foto, si sposta ora in
posto ora in un altro per cogliere il cuore pulsante dell’immagine (una chiesa,
una processione, dei volti, ruderi disseminati su impervi pendii, bimbi che
giocano, volti di giovani, e di anziani sul cui viso è immortalato il senso
della cultura millenaria della civiltà contadina. Tutta è storia, tutto è
senso, tutto è vivo, dunque, perché le pietre fotografate da Teti hanno mille
volti, e si nascondono al “forestiero” con lo stesso pudore della giovane
“Melusina” narrata da Corrado Alvaro. Questo straordinario viaggio nel
cuore antico della Calabria, si distingue per la sua venatura poetica, capace
di proporre un’impronta rievocativa volta alla commozione, suscitando nel
lettore strani ripensamenti, quasi un senso di colpa per quello che non è
stato fatto a favore dei nostri luoghi, della nostra storia. Molte sono le
pagine che sono i passaggi di tale introduzione che meriterebbero di
essere citati, perché Vito Teti è “un uomo vero che ormai sa che il
giunco e la rondine sono più eterni della guancia dura della statua” (P.
Neruda); come pure che, per dirla con le parole di Jorge Luis
Borges, “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo,
trascorrendo gli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di
montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di
astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente
labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
* Cultore d’Etnologia
presso l’Università della Calabria
Entroterra in agonia
PER SALVARE LE
NUMEROSE ZONE INTERNE CALABRESI ORMAI IN AGONIA, BISOGNA NON PERDERE ALTRO
TEMPO PREZIOSO
VI E’ IL RISCHIO
CONCRETO CHE INTERE COMUNITA’ DELL’ENTROTERRA ABBANDONINO PER SEMPRE I LUOGHI
D’ORIGINE
di Vincenzo Stranieri
Vivo da sempre in un
piccolo comune della vallata La Verde (Locride). Credo di avere scelto una vita
stanziale fin dall’infanzia, quando tutto appare vasto e privo d’incognite.
L’adolescente, come è giusto che sia, pensa alla vita utilizzando i riferimenti
più prossimi: la famiglia, gli amici, la scuola, i giochi, che rappresentano un
mondo conchiuso, un bozzolo che attende di aprirsi al giorno che nasce.
Si era figli di
contadini, negli anni ’60, pochi gli artigiani ed i professionisti. Le nostre
madri, come pure nonni e zie, si presentavano ai nostri occhi come un unico
blocco affettivo, simboleggiando le tradizioni e i riti della civiltà
contadina: abiti neri indossati per la perdita di qualche familiare, donne
davanti alle bocche dei forni comunali nell’atto di cuocere il pane prodotto
con grano proprio, i dolci tradizionali, i giochi di un tempo e, soprattutto,
la vita all’aria aperta, tra i vicoli stretti del paese, senza i pericoli
dell’odierno traffico automobilistico. E’ vero, il mondo cambia, prosegue nel
suo lungo cammino. Ma un adolescente non può capire che la vita è un viaggio,
spesso accidentato, verso il cosiddetto mondo adulto: famelico e privo di
scrupoli. E quindi anch’io non ero preparato a comprendere, crescendo, che la
mia terra, la mia regione erano/ sono ancora sottosviluppate e che bisogna/va
adoperarsi per mutare in meglio le cose.
A scuola, all’Università
mi hanno parlato della questione meridionale, del fatto che i nostri problemi
affondavano le loro radici nella “mancata” Unità d’Italia, stante che al Nord
stavano le fabbriche, e che l’agricoltura s’era modernizzata a spese della
nostra: priva di tecnologia, capace di un’economia chiusa di mero stampo
familiare.
Tutto era colpa dello
Stato (“Piove, governo ladro”!), eravamo delle vittime predestinate, perché la
nostra povertà era frutto d’una precisa strategia culturale da parte delle
classi politiche di turno che consideravano il Sud solo un utile bacino
elettorale.
Le mie lotte
(sindacali, politiche e culturali) le ho fatte carico di ideali, con l’orgoglio
di un giovane convinto d’essere sempre nel giusto, manicheo come è normale
esserlo a quella età.
Negli anni ‘70, ho
visto emigrare interi nuclei familiari. Al vuoto prodotto dalle precedenti
fughe, s’aggiungevano così le genti che potevano contribuire alla tanto
agognata rinascita delle nostre comunità.
Ma il paese non era
in grado d’offrire alcuna sicurezza economica, la forestale era/è il tentativo
sbagliato di tenere in loco gente demotivata, attratta, purtroppo, da un lavoro
privo di riscontri produttivi, deleterio per le poche abilità artigianali
rimaste: il muratore, il fabbro, il calzolaio, il carpentiere, il contadino, si
trasformano infatti in operai forestali (spesso precari), lasciandosi lusingare
da un impiego demotivante e privo di reali prospettive.
Contestualmente,
altri nuclei familiari scelgono di lasciare il luogo d’origine, si
trasferiscono nei paesi di marina, investendo i loro risparmi in terreni e
case. E la tentazione d’una nuova quanto definitiva diaspora ancor oggi si
prospetta all’orizzonte col suo volto maligno. Vi è il rischio concreto che i
paesi interni muoiano definitivamente, costituiti come sono da una popolazione
composta per la maggior parte da anziani e bimbi. Inoltre, la maggior parte
degli studenti che ha conseguito una laurea si è trasferita definitivamente nei
maggiori centri urbani del nord, impoverendo ancor più il tessuto sociale dei
luoghi d’origine.
Oggi i nostri anziani
vivono (subiscono) la solitudine dei loro omologhi urbanizzati. Le loro
pensioni danno sollievo alle numerose badanti venute dall’est che, in alcuni
casi, formano famiglia, cercando così di trasformare l’emigrazione in evento
positivo, e ciò nonostante le difficoltà economiche del luogo in cui hanno
deciso di mutare il loro destino. Povertà aggiunta ad altra povertà, dunque.
Il mondo cammina, si
muove più velocemente che in passato. Le etnie si mescolano alacremente,
stimolano interrogativi e paure, radicalizzano l’idea di appartenenza,
sollecitano interventi oppositivi a quelli dell’accoglienza e
dell’integrazione. E questo in tutto il mondo occidentale, che si sente
minacciato nella sua stabilità economica, scardinato nelle sue strutture di
fondo.
Da noi (in Calabria)
il problema è poco avvertito, i cosiddetti extracomunitari non tolgono il
lavoro a nessuno. E come potrebbero farlo, stante che questo non esiste? Gli
emigranti cercano d’inserirsi in modo disparato: giornalieri campagna (i neo
braccianti del terzo millennio), badanti (triste neologismo!), commessi,
operai, venditori ambulanti etc.
Tali mestieri fanno
parte di un‘economia chiusa, senza mercato, spesso di natura familiare. Un’
economia minima, se così può essere definita, che non garantisce a nessuno una
sussistenza tranquilla. Crea, questo sì, un aumento, se pur lieve, dei consumi,
ma sempre all’interno di una realtà priva di prospettive economiche di largo
respiro.
In Storia dei paesi
abbandonati di Calabria di Vito Teti (Donzelli, 2004), l’elenco delle comunità
interne preda di rovi e lucertole è abbastanza lungo. Lo sguardo
dell’antropologo di S. Nicola da Crissa (VV) coglie nelle vecchie mura uno
stimolo forte per la conoscenza della storia umana delle nostre genti, delle
antiche lotte per la sopravvivenza. Ci troviamo in presenza di “luoghi”
fortemente connotati sul piano storico- antropologico, infatti.
Periodicamente,
specie il giorno del Santo Patrono, alcuni di questi borghi sono visitati dagli
ex abitanti , ed Africo, Casalinuovo, Brancaleone, Nicastrello, Bruzzano
Vecchio, Bianco Vecchio, etc., tornano a popolarsi come un tempo.
Ma se è vero che la
storia è maestra di vita, allora dobbiamo imparare in fretta che vi é il
rischio concreto che anche noi si possa diventare ruderi abbandonati. Una
realtà vera, che bussa alle porte con insistenza (Staiti e Ferruzzano
Superiore- a esempio- rischiano di divenire paesi fantasma) . E dunque dobbiamo
adoperarci perché nessun’altro antropologo scriva ancora una pubblicazione
intitolata come quella di Vito Teti, che di certo si è poco divertito a
svolgere un compito così mesto.
Danaro pubblico
distribuito in mille rivoli: mani rapaci che dilaniano le nostre migliori
energie, le nostre ultime speranze di cambiamento. E’ vero, parlar male delle
istituzioni regionali e provinciali è un nostro difetto, ma è pure vero che non
vi è amore alcuno per la nostra tartassata Calabria. Siamo ultimi in tutto,
tranne che nel malaffare politico-mafioso, terreno florido di numerosi
mercenari dell’etica e dell’economia.
E gli amministratori
locali, con le dovute eccezioni, non vogliono comprendere che in assenza di una
progettazione comune di largo respiro, l’implosione socio-economica delle
nostre vallate è prossima. Si è perso tempo prezioso, non è più possibile
perderne dell’altro, inutile vagabondare negli spazi sterili del campanilismo,
perché sulla nave che sta affondando ci stiamo tutti noi, nessuno escluso.
Ma cosa fare perché i
paesi interni non muoiano?
So di un vecchio
elenco che contiene voci mai depennate.
1. Il turismo (non
quello senza infrastrutture adeguate e a prezzi salati, col mare gonfio di
scarichi fognari ecc., e con le nostre montagne prive d’arterie viarie, quasi
irraggiungibili):
2. gli itinerari
storico- culturali, che esistono davvero, ma che attendono d’essere valorizzati
e protetti in modo adeguato;
3. l’artigianato
(morto da tempo e che non può sperare in alcuna resurrezione?);
4. il cooperativismo
(mai decollato, sconosciuto ai più);
5. la zootecnia
(vedi “vacche sacre” e poi muori!)
6. la forestazione
(la difesa del territorio, il rimboschimento, la produttività…) può, se si
inverte in modo radicale la cultura clientelare che la pervade in tutti i suoi
settori, operai inclusi, un serio volano per lo sviluppo delle zone interne. Ma
deve essere sganciata dal controllo politico ed affidata ad un sistema
manageriale di tipo privatistico all’insegna di un positivo “do ut des”, ovvero
si torna a lavorare sul serio, e per farlo bisogna essere presenti sul posto di
lavoro, consapevoli che ogni cosa fatta è buona e utile anche e soprattutto per
le generazioni future.
7. La diffusione
della banda larga anche nei paesi interni non è un fatto secondario, rompe
l’isolamento e induce a sperare in qualche iniziativa economica positiva.
8. Varie ed eventuali
L’ironia non fa
decollare i nostri paesi, è vero, ma serve, pur se temporaneamente, a mitigare
l’amaro fiele custodito in corpo.
Intanto una prima
risposta.
I piccoli comuni
dell’entroterra devono al più presto applicare la politica delle unioni
(preludio dell’unificazione tout court), convenzionare tutti i servizi
essenziali, condividendo in tal modo le spese più rilevanti e, di conseguenza,
stabilizzare i propri bilanci, non più basati su ipotetiche entrate che, quasi
mai, trovano un effettivo riscontro finanziario. Potranno essere così garantiti
i servizi essenziali .
La gente, specie in
questo particolare momento storico, si sposta nei paesi di marina anche e
soprattutto perché i comuni interni sono quasi privi di una rete commerciale e
produttiva in grado di soddisfare i bisogni primari delle famiglia. In molte
realtà, inoltre, mancano le figure artigianali storicamente più vitali:
barbiere, fabbro, calzolaio etc..
Nei comuni che vedono
la presenza di queste figure, si nota un certo fermento economico, gli
artigiani riescono ad avere una loro autonomia economica, puntando a
valorizzare la loro professione nell’ambito geografico d’appartenenza. E dunque
non sempre è bene lasciare la collina per il mare.
Fermare l’emorragia
dell’emigrazione giovanile non è semplice. Viviamo nel mondo della
globalizzazione imperante, i modelli proposti sono molteplici (vi è pure la
globalizzazione delle cattive idee, per dirla con Francesca Viscone), ed appare
difficile poter chiedere ad un giovane di fermarsi a guardare i bei paesaggi
nel mentre il sole illumina le nostre coste.
Non so cosa dire a un
giovane. Anche i miei figli, potendo, tornerebbero a vivere al Sud, ma le competenze
che stanno acquisendo al Nord non trovano alcun riscontro positivo nel posto da
dove sono partiti. Ma senza giovani qualsiasi realtà è costretta a morire,
senza la presenza di una forza intellettuale i nostri luoghi ancor prima che
scomparire rischiano di divenire dei veri dormitori. E dunque bisogna
inventarsi una politica capace di richiamare l’attenzione di aziende che
operano nei settori emergenti dell’economia mondiale, ed anche piccole e medie
aziende di vario tipo in grado di penetrare il mercato nazionale e non,
valorizzando alcuni prodotti tipici che attendono d’essere conosciuti al di là
delle nostre aride fiumare.
Per fare ciò, è
chiaro, bisogna indirizzare gli investimenti nell’ammodernamento della rete
viaria (sia quella ferroviaria che gommata), nelle infrastrutture primarie
(vedi autostrada Salerno- Reggio Calabria, Statale 106 e altre importanti
bretelle di collegamento col porto di Gioia Tauro, nonché le numerose strade
pedemontane, alcune già avviate, perché la nostra regione non sia più
considerata una terra lontana e irraggiungibile.
Il tempo non più
quello di ieri. Un decennio odierno vale quanto due o tre secoli passati,
perché i mutamenti che vi avvengono sono vorticosi e spesso imprevedibili.
Siamo dunque ancora in tempo per unire le forze in un’azione dialettica comune
che ci aiuti preservare la nostra cultura, le nostre radici. E’ vero, non è
sempre bello e proficuo entrare negli immensi spazi del villaggio globale, vi è
il rischio di perdere per sempre la propria identità, le proprie forme, ma pure
l’inerzia è segnale di un declino che, inevitabilmente, conduce alla scomparsa
definitiva delle nostre comunità.
E questo non è cosa
buona e giusta.
mercoledì
12 dicembre 2012
I
canti di Caterina Minnici ripropongono l'umanesimo del mondo contadino.
CANTI DI CATERINA
Ieri è deceduta
Caterina Minnici (Caraffa del Bianco, 1926- 08.02. 2014), mia cara parente. Era
una contadina impenitente, che non ha ceduto in alcun modo alle lusinghe del
tempo che passa e che propone modelli umani antitetici a quelli della civiltà
contadina. Possedeva un appezzamento di terreno vicino a quello dei miei, la
ricordo infaticabile e operosa oltre misura. Da piccolo non capivo
il senso dei suoi canti nel mentre si provvedeva a pulire il grano dalle
sterpaglie che ne potevano compromettere la crescita. Cosicché, dopo mezzo
secolo, mi sono deciso a dare un senso ai miei ricordi; Caterina non si è
sottratta alle mie richieste, e si è messa cantare con dolcezza le canzoni del
mondo contadino. In suo ricordo, vi propongo la visione di un breve video.