sabato 25 ottobre 2014


L’OPINIONE. AL CINEMA CON “ANIME NERE”

SCRITTO DVINCENZO STRANIERI IL . PUBBLICATO IN AGGIORNAMENTICOPERTINECULTURA

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Un mio amico calabrese che vive al Nord è rimasto sorpreso quando, tempo addietro, gli dissi per telefono che presto sarei andato al cinema a vedere Anime nere del regista Francesco Munzi, film liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) e che, al recente Festival del cinema di Venezia, aveva riscosso un buon successo. «Perché vai a vedere un film che tratta di cose che ben conosci. Vivi nel cuore geografico che ha partorito la ‘ndrangheta ed i suoi famuli. Sarà di certo un film che ricalcherà i soliti stereotipi», così ebbe a rimproverarmi benevolmente il mio amico. É persona intelligente, nonostante abbia lasciato la nostra terra da circa trent’anni, conosce bene il suo/nostro mondo d’origine. Qui aveva lottato con impegno contro i soprusi, i suoi comizi erano vibranti e ricchi di passione giovanile. Ma il suo consiglio non poteva trovare il mio consenso.
ANDAVO AL CINEMA soprattutto perché un buon film è sempre un’opera d’arte ed anche perché io sono socratico per convinzione (so di non sapere), certo che c’è sempre qualcosa d’apprendere. Inoltre, fatto non secondario, avevo quattro anni or sono recensito positivamente il libro di Gioacchino Criaco. Il film ha inizio, una strana ansia mi assale, respiro profondamente alla ricerca di una concentrazione che mi consenta di seguire una storia che narra dal di dentro un mondo incastonato nell’alveo antropologico della ‘ndrangheta. È un’opera volutamente lenta, il regista fa lievitare le singole vicende evitando la presenza d’intrepidi eroi. Il sangue non scorre a fiumi ed è pure assente l’eco assordante di fucili ultramoderni in grado di lacerare il silenzio notturno dell’Aspromonte. Guardo le immagini volutamente velate da un buio trasparente, ascolto le locuzioni dialettali dei protagonisti. Non ho bisogno di leggere i sottotitoli. É una lingua che conosco bene. Il pensiero corre veloce, la mente s’arrovella, cerca un filo conduttore al quale aggrapparsi per non cadere in errore. Mi soccorre la pausa tra un tempo e l’altro.
PRENDO APPUNTI. Mia moglie li sbircia incuriosita. Mi chiede perché le scene, specie i primi piani, non sono nitide. Le dico che è una scelta del regista. Di anime nere come la notte si tratta, infatti. «É vero – mi risponde – ma devi ammettere che in una terra arsa dal sole ci si aspetterebbe squarci di luce abbagliante. Ed invece anche le parole dei protagonisti sembrano prigioniere del buio che incombe su uomini e cose». Comincia il secondo tempo, la mia attenzione è al massimo, ascolto e guardo tutto quello che Munzi ha costruito con fatica greve, stante che i fondi erogati dalle nostre istituzioni locali sono stati esigui se non del tutto assenti. Siamo al finale, drammatico quanto inaspettato. Anche i miei due amici, che hanno assistito al film nella fila di fianco alla mia, sono rimasti spiazzati, increduli per una chiusa così tragica, pregna di profonda intensità emotiva. Luciano, infatti, uccide suo fratello Rocco (che fino ad allora s’era goduto lo status sociale raggiunto nel regno del malaffare milanese) colpevole di non avere saputo proteggere Leo (figlio ventenne di Luciano) eliminato da un gruppo rivale per avere progettato all’insaputa di tutti l’uccisione di un potente boss locale.
LEO VIENE consegnato ai suoi aguzzini dal suo migliore amico (vai a fidarti!). Prima di lui era stato ucciso Luigi, il terzo dei fratelli Carbone, dedito al traffico internazionale di droga. Solo Luciano vive stabilmente in Calabria in compagnia del suo gregge di capre. Egli è lontano da traffici e violenze varie. Prima di ritornare all’epilogo, mi preme sottolineare come Munzi abbia saputo mettere in evidenza (tutto il film stimola questa riflessione) lo scontro generazionale all’interno delle ‘ndrine: la vecchia ‘ndrangheta (composta da quanti negli anni ‘70 avevano eliminato i capi-bastoni del reggino), e quella dei nostri giorni sempre più smaniosa di guadagnare in fretta denaro e prestigio all’interno della criminalità organizzata che, come si sa, è divenuta un’holding internazionale. Il film presenta delle peculiarità che lo rendono fortemente originale. Munzi, infatti, compie un viaggio all’interno delle forme culturali di una famiglia calabrese che si rivela disomogenea e non sempre ligia alle regole del mondo ‘ndranghetistico.
TRE FRATELLI, segnati dall’uccisione del padre per via di una faida che per lungo tempo aveva insanguinato il territorio alimentando sgomento e terrore nelle popolazioni del basso Aspromonte orientale. Lo Stato (rappresentato dalle forze dell’ordine) è presente solo quando vengono uccisi Luigi e Leo. Lo è per prassi, idem la chiesa, rappresentata da un giovane sacerdote che, durante il funerale del giovane Leo, proferisce un’omelia incapace, specie in quel frangente, di produrre alcuna consolazione. I cuori sono in piena accelerazione, pronti a scoppiare per la rabbia ed il dolore, nonché per il desiderio di una pronta vendetta. Non ci sono magistrati, organi inquirenti impegnati a contrastare le ‘ndrine, cosicché non ci sono tribunali, testimoni, avvocati alle prese con alibi, prove e/o possibili codicilli in grado di aiutare gli imputati di turno. Non è un giudizio negativo contro la Giustizia e/o la Chiesa, a Munzi interessa che sia la famiglia Carbone a denudarsi, e questo senza filtri o intromissioni che ne modificherebbero la vera natura. Trattasi, quindi, dell’affresco amaro di un mondo ancora legato ad un passato/presente capace di partorire anime nere pronte ad immolarsi in nome d’insani valori.
IL FILM DIFFERISCE alquanto dal romanzo di Criaco, ma non per questo ne violenta la morfologia. É una libera interpretazione del regista, infatti. Andrebbe visto almeno due volte un film. Di certo qualcosa mi è sfuggito, ma la tarantella no (ballo secolare musicato in modo semplice ma in grado di creare ritmi vorticosi nella mente dei partecipanti). Luigi guarda gli altri ballare appoggiato ad un palo della vecchia baracca che ospita alcune famiglie legate alla criminalità organizzata. Balla da fermo, mima estasiato i suoi ritmi, sembra posseduto, ne vuole gustare ogni attimo, sente la frescura della montagna amica dove ha vissuto da piccolo. Quell’antico ballo gli comunica visioni paradisiache, un’inimitabile pace interiore. E questo a poche ore della sua tragica esecuzione da parte di un gruppo rivale. E le donne? Quale il loro ruolo? Sono donne senza sorriso (mogli, figlie e nipoti), sottomesse a figure maschili che inseguono facili guadagni a costo della vita. Ogni giorno le sfiora la morte ed i loro cuori si gonfiano d’eterno dolore. Hanno anche l’ingrato compito di riproporre la ritualità (ereditata dal mondo greco-romano) dei funerali di un tempo, quelli dove si recitano litanie (con atteggiamenti da prèfiche) inneggianti le qualità positive del defunto. Ed anche interminabili pianti capaci di esaurire le poche lacrime custodite con parsimonia, stante che, purtroppo, un morto tira l’altro. Ed è bene tenere sempre pronto l’abito scuro. E ciò in contrasto con l’eleganza della bionda moglie di Rocco, donna del Nord che non riesce a capire il mondo del marito e che desidera tornare al più presto nella sua Milano dove fino ad allora aveva goduto di rispetto e privilegi (si era mai domandata il motivo di tanto benessere?).
DICEVO DEL tragico epilogo. Le interpretazioni sono molteplici. È certo, però, che senza quel tipo di finale lo scenario avrebbe avuto come protagonista un mondo senza scampo, privo di qualsiasi prospettiva. È vero, ciò costa sangue, dolore atroce; il tutto, infatti, rimbalza pesantemente all’interno della famiglia Carbone, dei suoi pochi sopravvissuti. Ho letto su facebook diversi post che invitano il regista a realizzare al più presto la continuazione del film, una sorta di Anime nere 2, 3, 4 etc. Mi auguro che ciò non accada, spero tanto che questo film sia considerato un’opera cult (un classico) in grado di sfidare il tempo.

martedì 23 settembre 2014




 Francesco Stilo, il pastore africotu

Scritto da Vincenzo Stranieri il . Pubblicato in Aggiornamenti, Copertine, Cultura, Ritratti
Francesco Stilo. Un’intera esistenza trascorsa ad allevare capre e a far laureare i suoi sette figli
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Nella foto in alto da sinistra: Santoro Criaco, Francesco Stilo e sua moglia Domenica Criaco, Andrea Stilo, figlio di Francesco. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia

Francesco Stilo, classe 1926, è uno dei pochi pastori di Africo vecchio ad essere tornato a vivere nel luogo d’origine dopo la disastrosa alluvione dell’ottobre 1951. Alluvione che ha comportato la fondazione di Africo nuovo, nei pressi di Capo Bruzzano.
É un vero resistente, il nostro pastore di lattare, fiero della sua scelta, affezionato alle sue bestie forse ancor più che agli uomini. Ma non è un uomo isolato, un eremita che intende sfuggire al cosiddetto mutare dei tempi. Egli conosce quanto avviene fuori dal suo raggio d’azione lavorativo, lo sanno i suoi sette figli (tre maschi e quattro femmine, tutti laureati), che ha voluto mandare a scuola a tutti i costi, sacrificandosi assieme alla moglie perché potessero realizzarsi.
E dunque, oltre che pastore, il nostro è stato/è un ottimo educatore, una guida sicura, soprattutto sul piano etico, della propria famiglia. Conosco alcuni dei suoi sette figli, che vivono l’essere professionisti con dedizione ed umiltà. Nessuno di loro ha dimenticato il mondo dell’infanzia e, di tanto in tanto, ritornano nei luoghi d’origine, per rivivere, quasi in un processo catartico, il tempo dell’infanzia trascorso sul dorso di una montagna sì aspra ma capace d’infondere valori profondi e sicurezza interiore.
Francesco Stilo è stato un ottimo educatore, ma senza il peso della vendetta sociale, perché egli non maledice il proprio destino, non lo considera ingrato. È una saggezza antica, la sua, che lo posiziona nell’alveo di un equilibrio socio-culturale in grado di proteggerlo dall’invettiva gratuita e dalle facili lamentele. Occhi e carnagione chiari, lineamenti scolpiti dalla fatica e dal sole, corporatura media ed atletica, quasi una leggerezza dell’essere, oltre che del fisico. Desta meraviglia ed anche un po’ d’invidia quest’uomo che non teme la solitudine ed i rumori della notte che avvolgono le montagne di Africo vecchio e di Casalinuovo, ormai preda di sterpi e rovi. Non è difficile immaginare lo sgomento delle due popolazioni montane, in quell’ottobre del 1951, quando la devastante alluvione procurò gravi danni ad uomini e cose.
la TOSATURA
 Nella foto in alto la tosatura delle pecore. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia
Un diluvio universale in cui la chiesa divenne il solo rifugio per combattere la malasorte, nel mentre la preghiera si trasformava in disperata implorazione, riconoscimento del limite umano. In quell’ottobre del 1951 successe mezzo finimondo, piovve incessantemente per alcuni giorni, la montagna franò in più punti portando con sé uomini, animali e case a fondo valle.
Questo è il modo più drammatico per ritrovarsi senza alcun bene materiale, senza un tetto dove ripararsi e soprattutto senza un’attività lavorativa né riconoscimento del limite umano. E alla violenza della natura s’aggiunse quella politica, e le due comunità, da secoli abbarbicate sui crinali della montagna, si trovarono, loro malgrado, a vivere prima in baracche di legno e poi in piccole e mal costruite case popolari poste a poche centinaia di metri dal mare Ionio (Capo Bruzzano), detto u Capu. Facile immaginare lo sgomento, intuire la paura per un futuro che appariva lontano ed incerto, ma la violenza era stata perpetrata e bisognava cominciare daccapo.
E il passato? Bisognava negarne l’esistenza? Allontanarlo dai pensieri? Violenza su violenza, dunque, e assieme alla cultura di un popolo s’era persa la vasta gamma di mestieri che ne sorreggeva l’economia, pur se povera e fragile. Ed è proprio a questo che Francesco Stilo ha voluto opporsi: alla perdita della sua identità umana e lavorativa, facendo di tutto per rimanere pastore.
Alcuni figli di Francesco Stilo vivono con le rispettive famiglie a Reggio Calabria, mentre Costantino, farmacista per circa vent’anni a Caraffa del Bianco, si è da poco trasferito in Puglia. La moglie del nostro pastore, Domenica Criaco, si è stabilita da circa 20 anni a Caraffa del Bianco dove la figlia Annunziata è stata per alcuni anni medico di base. In realtà, il nostro pastore si considera un africotu, e non ha per niente legato col posto di neo-residenza.
Egli è altro da questo luogo, si sente un uomo libero solo a contatto con la sua mandria che bruca per i crinali dell’antica montagna amica. Il suo scopo attuale non è quello economico, la sua ricchezza è il mantenimento della libertà personale, quella di vivere a diretto contatto con la natura, in un continuo dialogo con le bestie e le cose, dialogo, di tanto in tanto, interrotto da qualche altro resistente pastore o da qualche temerario cacciatore. Torna a casa poche volte al mese, giusto il tempo di rifornirsi di provviste, per poi ritornare a vivere in libertà le sue lunghe giornate trascorse tra le montagne amiche*.
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Nella foto Francesco Stilo, foto di Enzo Penna
Pastori di Africo Vecchio che fino alla fine degli anni ‘80 pascolavano le loro greggi nei territori d’origine:
Andrea Stilo, fratello di Francesco, Pietro Stilo, Giovanni Stilo, Pietro Maviglia, Domenico Maviglia, Costa Stilo, Bruno Criaco (quest’ultimi hanno abbandonato la pastorizia da circa vent’anni o scomparsi).
L’elenco mi è stato fornito dal medesimo Francesco Stilo.
*La storia di Francesco Stilo è stata scritta alcuni anni addietro. Attualmente il nostro pastore, a malincuore e su insistenza della famiglia, ha smesso di fare il pastore a tempo pieno e vive con la moglie a Caraffa del Bianco. Ma il richiamo ancestrale della pastorizia è rimasto vivo come un tempo. In un appezzamento di terreno di suo figlio Costantino (contrada “Musco” in S. Agata del Bianco), oltre a curare l’uliveto e l’orto, ha realizzato un piccolo Jazzo per pochi ovini. Gli ricordano il suo mondo, la sua infanzia… la sua vita.

martedì 15 aprile 2014

Il sole e il sangue”, volume di racconti di Domenico Talia (InAspromonte, aprile 2017, p.23).


                              Vincenzo Stranieri


Il sole e il sangue di Domenico Talia  (Ed. Ensembel, Roma, 2014), volume composto da 17 brevi racconti per un totale di 153 pagine, è una gradita sorpresa.  L’autore, nativo di S.Agata del Bianco, è ordinario di Ingegneria informatica all’Università della Calabria,  ha pubblicato nel 2004 una raccolta dedicata al viaggio (Itinerari stranieri).
Il bello dei racconti è che puoi cominciare da dove desideri.
Leggo per primo Treno Ionico,  che inizia con un “Finalmente il treno arrivò.  Lui salì”.  Credo che il  vero filo conduttore del libro di Domenico Talia  stia proprio in questa breve locuzione. 
Quando il protagonista di Treno Ionico sale sul treno  non ha ancora maturato la consapevolezza che il corso dell’esistenza è un andirivieni tra il prima e il dopo. Tra quelli che siamo stati e quelli che siamo diventati. 
E’ forse il più bello, intenso racconto di Talia. 
Anche perché l’autore si denuda in profondità, non nasconde  le sue emozioni, il suo stupore. "Era partito da una stazione che aveva ormai quasi dimenticato, come se avesse fatto parte di un’altra storia, di un’altra vita. Aveva dimenticato il mare, i monti, il treno, quei rumori, quegli odori, quei paesaggi. Aveva dimenticato quel diverso modo di sentire il tempo, quella sensazione di essere parte, noi stessi, di un qualcosa di più grande e di ignoto", p.32. 
 L’umanità, infatti, vive  di stanzialità, di movimento perenne. E’ il frutto di questa insita necessità antropologica. Viaggi veri, dettati da motivi diversi, viaggi mentali che scaturiscono dalla necessità di sfuggire a collocazioni statiche in grado di renderci miopi e ripetitivi.
Ma avviene che anche quando pensiamo di essere fermi nel luogo  in cui viviamo, continuiamo a muoverci verso qualcosa o qualcuno. 
In letteratura,  la fantasia si chiama creatività,  rielaborazione delle speranze vissute, cercate,  annotate nel corso di questi viaggi che - è bene dirlo- non sono né semplici né facili. Anzi.  Si può rimanere fortemente disorientati,  travolti. Talia apprende che il ritorno è doloroso, ma anche costruttivo, ricco di sollecitazioni positive. 
In altri racconti (Granelli di sabbia rosso sangue, In tre ore in un altro mondo, a esempio) viene espressa profonda amarezza per la difficile situazione socio-economica vissuta/subita   dalla nostra terra (la Calabria),  un mondo  preda del  malaffare politico-mafioso, ed anche di tanta indifferenza.
In Due suore e due ragazze viene narrata la storia di quattro donne che intendono migliorare le condizioni sociali di un piccolo paese del Sud. Il loro impegno fa paura a quanti sono impegnati a mantenere lo status quo. La conseguente reazione è quella di sminuzzare le gomme della vecchia Panda delle suore. 
Ma il racconto, oltre alla presa d’atto di quanto accaduto, mette in rilievo che laicità e religiosità debbono, lasciando da parte le convinzioni di fondo che pure le animano, allearsi contro il male.   
Sono questi i racconti in cui maggiormente si rivela l’assunzione di responsabilità etica dell’autore, che non può e non vuole rifugiarsi nel racconto/reportage.
Il testo, infatti, è  collocato su due piani diversi ma non contrapposti: lo sguardo dell’autore su quanto ha davanti agli occhi, le amare riflessioni  sul tempo che passa, le cose mutate, il degrado, ma anche la speranza, il profondo desiderio di vivere pienamente. 
 E’ un linguaggio leggero, volutamente asciutto ed essenziale. Le vicende vengono enunciate  con periodi  brevi, secchi,  e ciò anche quando vengono descritti avvenimenti tragici (omicidi, vessazioni di stampo malavitoso, etc.). 
I 17 racconti in questione, pur prendendo spunto da vicende vissute o apprese da fonti diverse  (orali,  soprattutto), hanno il pregio di ampliare lo sguardo anche sulle contraddizioni  del cosiddetto mondo globalizzato (Nella campagna assolata). 
Penso, però, che il meglio l’autore lo dia soprattutto nelle numerose pagine in cui rivela il suo modo di essere, quando getta lo sguardo sulle azioni di uomini e cose che ben conosce, quando ne diviene un credibile  portavoce.
Come dicevamo, al sole caldo  e ristoratore della nostra bella Calabria si contrappone il sangue,  l’assurdo desiderio di autodistruzione che anima  quanti inneggiano alla violenza.
L’invito di Domenico Talia, fermo quanto accorato,   è quello di  scegliere  la luce del sole al posto dell’orrido sangue.     




sabato 12 aprile 2014

Vincenzo Stranieri (Addio a Saverio Strati….. “l’Ora della Calabria”, sabato 12 aprile 2013, pp. 1, 35)



Saverio Strati è  senza alcun dubbio tra i più grandi scrittori italiani del Novecento. Essere nati in Calabria, serbarla nel cuore, amarla, tradurla in letteratura non vuol dire necessariamente essere solo calabresi. E’ vero che l’humus antropologico è quello in cui si nasce, ma è pure vero che quando uno scrittore è tradotto in diverse lingue, appassiona lettori di mezza Europa, allora vuol dire che ci si trova di fronte a valori universali. Strati, assieme a pochi altri grandi scrittori italiani (Calvino, Sciascia e qualcun’altro che mi sfugge) è presente anche nelle antologie americane. La provincia è una forma mentale e non un ambito geografico.
Strati nel narrare il nostro meridione narra il mondo.  Bisogna non cadere nei regionalismi tantomeno nei provincialismi. O si è scrittori universali o non si è niente. Nato in Calabria va bene, è la definizione, statica quanto auto lesiva, di scrittore calabrese che genera ambiguità e confusione. Questo, naturalmente, vale per qualsiasi artista che opera sul pianeta terra. Scrittore vero è chi ha un mondo da raccontare. E Strati  lo ha, eccome. Nel momento in cui  i suoi libri incontrano il lettore  la sua scrittura si spoglia dei connotati originari e dona ai suoi interlocutori le forme di un’umanità ricca di storia e di valori. Il  problema è il modulo stilistico, la struttura linguistica che ogni scrittore utilizza per non cadere nella trappola del già  detto e del già scritto. Strati è unico nel suo genere. Inventa (meglio costruisce) un linguaggio nuovo, tutto suo, e lo dà in prestito alla sua gente, ne diviene   voce narrante. Difatti, da semplice apprendista-muratore  diviene “glossa” della sua gente, cantore del bene e del male del Meridione, non facendo sconti a nessuno, soprattutto  a se stesso. Siamo tutti debitori di questo grande artista, mai domo, perennemente impegnato a  narrare la storia antropologica del nostro “maledetto sud”.“ Io l’amo profondamente la mia Calabria, ho dentro di me il suo silenzio, la sua solitudine tragica e solenne. Sento che pure qualcosa dovrà venire fuori di lì: un giorno o l’altro dovrà ritrovare dentro d sé ancora quelle tracce che conserva dell’antica civiltà della Magna Grecia”. Narrava dal di dentro, dicevano, il suo stile cesellava come pochi le forme della civiltà contadina, ne delineava le fattezze più remote, ne sollecitava la  vera conoscenza. Grande e appassionato era il suo amore per i poveri, i diseredati al punto da estremizzare al massimo il suo linguaggio, il suo stile iper-realista. La sua mente conservava una sterminata galassia  di personaggi: le vicende familiari, gli esiti di una semina, i tomoli di grano prodotti, le cattive annate dovute alla siccità o a  qualche improvvida alluvione.  Un amore viscerale profondo, quasi una ossessione implacabile. In quasi tutti i suoi romanzi, però, egli non poteva non denunciare il nostro cattivo modo di essere, la nostra cattiva voglia di migliorare le sorti socio-economiche della nostra terra. Sono “arrabbiature” sincere, non volevano accusare nessuno, intendevano spronare chi era immerso nel fatalismo, quanti non volevano/vogliono lottare contro lo status quo. Mentre il mondo cambia, si evolve, il meridione appare pietrificato. Mentre in altri lidi è giunta la primavera, nel Sud regna un inverno fitto, un modello sociale che intende perpetrare le antiche regole. Non è stato uno scrittore sfortunato, però. In quegli anni (anni’50-’60) il cinema era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a quella cineasta. Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e in numero notevole. Poi, però, Mondadori, la casa editrice che  aveva pubblicato la maggior parte delle sue opere, gli chiuse la porta.  Strati, conseguentemente,  va in crisi, comprende che il mondo di cui è stato testimone non riesce a trovare una collazione ottimale presso il vasto pubblico, nemmeno in quello calabrese. Si sente solo, abbandonato. Egli merita gratitudine e rispetto, perché- tra l’altro-  ha saputo dare dignità e fisionomia ad un mondo che, altrimenti, la cultura ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore delle ipotesi, trasformato  in mero folclore.­­­­­ La speranza è che il suo impegno non venga dimenticato, che le sue opere trovino giusta collocazione nelle scuole e nelle università. Me lo auguro tanto. Ma il  pessimismo, specie in una regione come la nostra, è più che mai d’obbligo.


sabato 22 marzo 2014

LA DONNE D'ASPROMONTE



Nel mondo rurale del secolo scorso la donna calabrese  lavora nei campi, cucina,bada agli animali domestici, cresce in figli. Così è stato per secoli, le donne d’Aspromonte  lavorano senza sosta, sudano copiosamente nel mentre trasportano pietre  e calce da utilizzare per la costruzione delle loro piccole case, sfidano le fiumare alle cui rive lavano e fanno asciugare panni, mettono a bagno le ginestra da cui ricaveranno grezzi vestiti e larghi  mantelli da offrire ai propri sposi .

giovedì 27 febbraio 2014

IL NEO-BULLISMO ("L'Ora della Calabria", martedì 25 febbraio 2014, pag.30).



E’ chiaro che il neo-bullisno è alimentato anche dalle forti sollecitazioni del web, della rete, insomma. L’importante (vedi- a esempio- la violenza subìta da una giovane studentessa di Bollate ad opera di una sua coetanea  tra l’indifferenza dei compagni presenti impegnati a  filmare  passivamente la grave aggressione) è che tutto corra sul filo invisibile del web, dove le informazioni  prendono strade multiformi.

giovedì 13 febbraio 2014

LA SOLITUDINE DELLO SCRITTORE SAVERIO STRATI ("inAspromonte", n. 6, Febbraio 201, pag.23 ).


Saverio Strati versa in condizioni di salute pessime. Non si fa trovare da nessuno, ha staccato il telefono, non comunica più con l’esterno. Probabilmente la caduta dalle scale (abita  in Toscana, precisamente a Scandicci, al IV piano di un palazzo privo di ascensore), avvenuta tempo addietro, l’ha debilitato  nel fisico e nel morale.
Spiace sapere di questo suo isolamento. Anche se ha quasi novant’anni,  è ancora lucido, ma forse non è più curioso, è depresso. 
Da circa quattro  anni usufruisce della Legge Bacchelli, un sussidio che gli consente di  continuare a vivere dignitosamente. Ma quando arriva la cattiva salute, quando non  si trova più la forza per scrivere, narrare il proprio mondo interiore tutto sembra immerso nell’oblio, non si ha voglia di andare avanti, di sperare nel futuro. Certi stati d’animo non tengono conto di quello che si è fatto in tanti anni di proficuo lavoro intellettuale,  alimentano l’amarezza, allontanano dalla creatività.
Non lo incontro da molto tempo, ormai. Ho avuto la fortuna e il privilegio di confrontarmi con lui quando ancora faceva ritorno a S.Agata del Bianco, suo amato paese natìo, precisamente in contrada Cola.

giovedì 6 febbraio 2014

NO AI GENITORI SINDACALISTI NELLA SCUOLA ( Il Quotidiano della Calabria, giovedì 6 febbraio 2014)


Povera scuola! Oltre ai tanti sindacalisti del settore stanno crescendo schiere di genitori che fiancheggiano i loro figli in dispute pseudo-pedagogiche sterili quanto pericolose.Gli insegnanti devono - oltre alle “intemperanze” degli alunni (schiavi di telefonini e similari, che tendono a portare anche in classe) sono  costretti ad interagire con genitori  che danno a priori ragione in tutto e per tutto ai loro figli, non capendo che la scuola è roba seria e che non la  si può  barattare concedendo ai loro amati figliuoli tutto e subito.
 Si, è vero, non tutti sono cosi, ma il loro numero sta crescendo a dismisura.

martedì 7 gennaio 2014

AMORE E INDIGNAZIONE NELL'ANTROPOLOGIA NARRATA DI VITO TETI ( L'Ora della Calabria, 7 gennaio 2014, pag.31).



Vito Teti è un uomo da sempre impegnato ad affinare -  con non poca tribolazione- la difficile arte della “restanza”, suggestivo neologismo da lui coniato nel suo recente saggio-racconto Pietre di pane (Un’ antropologia del restare), Quodlibet, Macerata 2011, dove appunto ci spiega che rimanere in paese ”… non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza , forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche dell’identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa  esperienza del tempo”. 

venerdì 15 novembre 2013

CARTOLINE POSTALI E LETTERE ALLA FAMIGLIA DEL SOLDATO GIUSEPPE STRANIERI (CARAFFA 1921- FRONTE GRECO 1943)



 [… ] solo vi dico che non ci trova accua la dobbiamo comprare a due soldi il bicchiere e patiamo un po qua […].

Fammi sapere se hai ricevuto il vaglia di lire tre cento.
[…] fatemi sapere se vi siete messi a seminare. Sta  maledetta terra dove sono io non si vede niente […].

Caro Padre fatemi assapere se avete ricevuto qualche pacco che viò spedito un pacco contenente 41 pezzi di saponi cose che non mi sono messo addosso e che mi sono messo io forsi non li avete ricevuto mi dispiace molto, perché mi sono sacrificato 5 mesi di crudele cosa che desiderava il mio cuore se per caso lo ricevete mi lo fate assapere se no pazienza basta che ce la saluti altro tutto passa viò spedito un vaglia di Lire 186 non lavete ricevuto ò puro no[…]

O’ ricevuto una lettera dal vostro fratello Francesco di maglia che mi parlava che stati arando la terra considero come  vi  trovati  afflitto di lavoro ma io non posso fare nienti pemmia cosi à voluto la fortuna e cosi sia.