giovedì 9 dicembre 2010
APPELLO GENERAZIONALE
Quello che chiedo a tutti, specialmente alla mia/nostra generazione, è di non tradire la nostra infanzia, di custodirla come un dono prezioso e di pensarci ancòra "cotraregli" con nel cuore la voglia di dare al prossimo il meglio di noi stessi. Io vi porto tutti nel cuore, e, quando la solitudine m'inquieta più del dovuto, percorro le nostre "rughe" silenziose dove neanche i cani latrano, le finestre sono sbarrate e ognuno é in attesa del giorno. In quei momenti ritorno bambino e assieme a tutti voi ripercorro festoso le vie popolate della nostra infanzia.Amo la mia/nostra terra perché mi protegge dall'urbanesimo forzato, mi offre serenamente tutta la sua storia antropologica.
martedì 30 novembre 2010
Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, Roma 2004, pag.597,euro 32, prefazione di Predrag Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo,
di Vincenzo Stranieri *
Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, Roma 2004, pag.597,euro 32, prefazione di Predrag Matvejevic) di Vito Teti, docente d’Etnologia presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è un viaggio intellettuale dentro l’animo dei numerosi paesi abbandonati di Calabria, i cui ruderi risultano sconosciuti e privi di senso soprattutto ai calabresi, che, in quanto a volontà di conoscenza, a valorizzazione della propria storia, peccano senza particolari rimorsi.
Quello di Teti è quindi un viaggio all’interno di paesi abbarbicati, come ci ricorda Corrado Alvaro, “…sulla schiena di una montagna come quei nidi di creta che fanno i calabroni intorno a uno spino indurito…”, e che, nonostante le alterne vicende vissute (subite) ad opera dei conquistatori di turno, riuscivano comunque a mantenere una propria identità, consegnando alle generazioni future il seme antropologico d’appartenenza: i riti, le abitudini, le tradizioni, l’idea della vita e della morte, le processioni dei santi intrise di un “sano” paganesimo, che, in nome della tradizione, appunto, vede/va numerosa anche la presenza laica, che, nella religiosità popolare, ritrova/va le forme ancestrali della propria spiritualità.
domenica 7 novembre 2010
INTERVISTA A VINCENZO STRANIERI
Lei ha
scritto alcuni interessanti saggi su Saverio Strati dai quali si evince una
frequentazione culturale con l’autore de La
Marchesina (1956), se pur limitatamente ai periodi in cui l’artista faceva
ritorno nella sua casa di contrada “Cola” in S. Agata del Bianco, suo paese natio.
E’ vero, ho avuto la fortuna e il piacere di
incontrare diverse volte Saverio Strati. Era sua abitudine ritornare con una
certa regolarità a S. Agata del Bianco, ciò per riposarsi, ma anche per
lavorare ad alcune sue opere. Le bozze de Il
selvaggio di Santa Venere (Premio Campiello 1977) sono state, se mal non
ricordo, riviste e corrette nella casa di contrada “Cola” posta su di un poggio con lo sguardo sul mare Ionio (una
vista che abbraccia circa 50 Km di costa- capo Bruzzano- Punta Stilo). Era sempre
gentile, misurato nei giudizi, ed anche un po’ geloso delle sue cose. Ma ero
troppo giovane per capire la grandezza della sua arte, mi accontentavo di
dialogare sulle bellezze della nostra Magna Grecia, sul fatto che questa era
stata tradita dalle nuove mode e dalla violenza della malavita. Ricordo le sue
esortazioni a lavorare in difesa della civiltà contadina. “E’ il nostro humus,
non tradiamolo”, soleva ripetermi. Le sue parole facevano trasparire l’angoscia
per un mondo ormai preda del cosiddetto vivere moderno. Una lezione che non ho
dimenticato e che, tra l’altro, sta alla base delle mie recenti ricerche etnografiche.
Gli ho fatto avere “La Koinè
agro-pastorale nella Locride (Massari e pastori tra medioevo e modernità) Age,
Ardore Marina 2010, mia ultima fatica antropologica. Per telefono si è detto
commosso, ricorda molti dei protagonisti citati nel mio saggio, le numerose
foto lo hanno aiutato a ricordare alcuni eventi del suo/nostro passato. Per non
disturbarlo, mi limito a qualche sporadica telefonata.
In un
recente saggio, lei ha scritto che Saverio Strati si è fatto da solo, ha
edificato la propria scrittura lontano dagli odierni “ascensori sociali”. Vuole
spiegarci meglio tale concetto?
Fino a vent’anni, Strati ha fatto il muratore, non si
è mosso dal paese, ha conosciuto la fatica, quella che emana sudore, che rende
gli uomini carne bruciata dal sole o, diversamente, scalfita dal vento e dal
freddo che non manca nelle montagne calabresi. Ha lavorato ad Africo Vecchio,
prima che l’alluvione dell’ottobre 1951 lo rendesse un paese fantasma. Qui,
poi, ha ambientato il suo primo romanzo (La teda, 1957). Ha narrato dal di
dentro l’amara realtà di Terrarossa, il suo isolamento, la sua particolare
condizione antropologica. La scrittura stava, pur se lentamente, lievitando nel
suo animo e, spinto da un bisogno vero quanto incontenibile, intraprese la via
degli studi. A Messina, assieme a Walter
Pedullà e Carmelo Filocamo, fu allievo del grande critico Giacomo de Benedetti,
che, letti i suoi primi racconti, lo incoraggiò ad andare avanti “segnalandolo”
alla Casa Mondadori e ad alcune importanti riviste del tempo (“Il Ponte” etc). Era un “ascensore sociale” lecito, di quelli che,
appunto, segnalano un valore vero, non
un fesso qualunque privo di talento. Certo, dalla sua ebbe anche la fortuna. In
quegli anni il cinema era nel pieno della sua espressione neo-realista, i ceti
popolari erano protagonisti di molte pellicole, e le cosiddette classi
subalterne trovavano spazio e forma nell’alveo della cultura italiana. Cosicché
anche la narrativa realista era acclamata di pari passo a quella cineasta.
Anche la critica fu dalla sua parte. Ogni sua opera era recensita con favore e
in numero notevole. A mio modesto avviso, le pagine più belle su Strati sono
state scritte da Pasquino Crupi, che gli ha dedicato un’intera monografia,
Walter Pedullà, Giuliano Manacorda e Geno Pampaloni. Strati abita da circa
quarant’anni a Scandicci, alle porte di Firenze, al quarto piano di un
fabbricato privo di ascensore (sic!); egli ha dedicato la sua esistenza
all’arte, al punto da non pensare ad altro, ai soldi, ad esempio. E ha dovuto,
a malincuore, chiedere per sé la Bacchelli, un sussidio per continuare a
vivere. Altro che ascensore sociale! Strati ha sempre pensato alla sua
Calabria, se la è cucita addosso per sempre, come delle stimmate.
Saverio
Strati, il primo dicembre prossimo, sarà insignito della “laurea ad honorem” in Scienze letterarie (Filologia Moderna) presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Cosa ci dice?
L’Unical ha voluto con forza che a Saverio Strati fosse
conferito tale titolo. A tal fine, il
ministro Gelmini è stato “incalzato” a più riprese perché firmasse l’autorizzazione
di sua competenza. Tra i principali sostenitori di tal evento vi sono i Proff.
Vito Teti, Nicola Merola, Margherita Graneri e Raffaele Perrelli, Preside della
Facoltà di Lettere. Vito Teti (ordinario di Etnologia e Direttore del Dipartimento
di Filologia e del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo) è amico
dell’artista calabrese, si stimano da qualche tempo; l’etnologo di S. Nicola da
Crissa ha pubblicato parecchi saggi sullo scrittore di S. Agata del Bianco, dove,
oltre alla valenza letteraria, ha tratteggiato con maestria il valore
antropologico della sua opera. A
Saverio Strati, negli anni cinquanta, mancava solo la discussione della tesi
per conseguire la laurea in Lettere. Subito venne la letteratura, il tempo
doveva essere impiegato per edificarsi scrittore, e il titolo fu messo da
parte, con grande dispiacere per i suoi genitori-contadini, che speravano tanto
in un figlio laureato. Peccato che la salute cagionevole non consenta al nostro
amato artista di partecipare all’importante cerimonia (a ricevere per
lui la preziosa pergamena sarà sua nipote Palma Comandé, scrittrice); sarebbe bello assistere alla sua emozione,
nel mentre – di certo- dedica la preziosa onorificenza anche ai suoi cari
genitori.
Se le affidassero l’incarico di scrivere
la motivazione della laurea ad honorem a Saverio Strati, cosa scriverebbe?
“ A Saverio Strati, nato a S. Agata del Bianco il 16
agosto 1924, è conferita la laurea ad honorem in Scienze Letterarie perché per
mezzo dei suoi numerosi romanzi sulla civiltà contadina e l'emigrazione del
popolo meridionale, ha saputo dare dignità e fisionomia a un mondo che,
altrimenti, la cultura ufficiale avrebbe relegato ai margini, o, nella migliore
delle ipotesi, trasformato in mero
folclore".
mercoledì 13 ottobre 2010
Entroterra in agonia
PER SALVARE LE NUMEROSE ZONE INTERNE CALABRESI ORMAI IN AGONIA, BISOGNA NON PERDERE ALTRO TEMPO PREZIOSO
VI E’ IL RISCHIO CONCRETO CHE INTERE COMUNITA’ DELL’ENTROTERRA ABBANDONINO PER SEMPRE I LUOGHI D’ORIGINE
di Vincenzo Stranieri
Vivo da sempre in un piccolo comune della vallata La Verde (Locride). Credo di avere scelto una vita stanziale fin dall’infanzia, quando tutto appare vasto e privo d’incognite. L’adolescente, come è giusto che sia, pensa alla vita utilizzando i riferimenti più prossimi: la famiglia, gli amici, la scuola, i giochi, che rappresentano un mondo conchiuso, un bozzolo che attende di aprirsi al giorno che nasce.
Si era figli di contadini, negli anni ’60, pochi gli artigiani ed i professionisti. Le nostre madri, come pure nonni e zie, si presentavano ai nostri occhi come un unico blocco affettivo, simboleggiando le tradizioni e i riti della civiltà contadina: abiti neri indossati per la perdita di qualche familiare, donne davanti alle bocche dei forni comunali nell’atto di cuocere il pane prodotto con grano proprio, i dolci tradizionali, i giochi di un tempo e, soprattutto, la vita all’aria aperta, tra i vicoli stretti del paese, senza i pericoli dell’odierno traffico automobilistico. E’ vero, il mondo cambia, prosegue nel suo lungo cammino. Ma un adolescente non può capire che la vita è un viaggio, spesso accidentato, verso il cosiddetto mondo adulto: famelico e privo di scrupoli. E quindi anch’io non ero preparato a comprendere, crescendo, che la mia terra, la mia regione erano/ sono ancora sottosviluppate e che bisogna/va adoperarsi per mutare in meglio le cose.
martedì 12 ottobre 2010
martedì 5 ottobre 2010
CORRADO ALVARO (S. LUCA 1895- ROMA 1956)
Fu una piccola scossa di terremoto, che si sentì in un solo paese, un paese povero e quindi trascurabile. I giornali ne parlarono in tre righe, e non riferiscono che Procopio aveva perduto sotto le rovine della sua casa lo stipo che era il solo mobile da lui posseduto fin dal giorno delle nozze.
C. Alvaro, Piedi nudi, in Il meglio dei racconti di Corrado Alvaro, oscar Mondadori, Cles, 1990, pag.69)
E’ vero che le cose presenti non ci interessano più, ma i pensieri, gli affetti, i dolori di ieri, vengono avanti nella memoria come violenze e ingiustizie…brucio tutto ancora come le pietre che buttano nella notte le vampe del giorno estivo.
domenica 3 ottobre 2010
Maria Multari (A cantunera), Caraffa del Bianco..........
Maria Multari, (A cantunera) era figlia di un addetto alla manutenzione delle strade provinciali della vallata La Verde. Abitava in Via P. di Piemonte, in una casa piccola ma decorosa. Fu madre di ben sette figli maschi; una famiglia numerosa che i coniugi Alecci (lo sposo si chiamava Domenico Alecci, uomo buono e lavoratore onesto) hanno portato avanti con enormi sacrifici ma anche con gioia ed amore, mai facendo pesare ai loro figli le non poche difficoltà economiche cui bisognava adempiere.
A cantunera era una specie di chioccia. Noi bambini frequentavamo la sua casa tutti i giorni; giocavamo con i sui figliuoli più piccoli (Pietro, Mario e Aldo), specialmente e nucigli, cu piroci, a libera, cu gialoffu, u palloni, ca carrozza i lignu. Non perdeva mai la pazienza, quando avevamo fame ci dava il buon pane fatto nei forni a legna, ci trattava come dei figli, insomma.
martedì 28 settembre 2010
L'ETA' MATURA DI SAVERIO STRATI
LA SUA ARTE E’ LA TESTIMONIANZA DI UN IMPEGNO LETTERARIO CHE AFFONDA LE RADICI IN UN MERIDIONALISMO PRIVO DELLE ANTICHE SCORIE A SFONDO POPULISTISTICO.
di Vincenzo Stranieri
Quando Saverio Strati tornava nella sua S.Agata con una certa regolarità, nella casa della mitica contrada Cola da dove ha avuto inizio il suo importante viaggio letterario, ero ancora troppo giovane per capire appieno l’importanza della sua opera. Nelle nostre brevi chiacchierate (anni ’70), mi colpivano particolarmente due cose: la rabbia positiva che animava la sua arte, l’amarezza, profonda, dello scrittore per la gelosia, la totale mancanza di solidarietà e di spirito di aggregazione che stavano/stanno alla base dell’arretratezza culturale ed economica della Calabria. “C’è sempre stato in Calabria uno spirito feroce di autodistruzione; la storia stessa della nostra regione ha questa terribile impronta”. La stessa gelosia, o ignoranza, che ha impedito, nel 1977, quando gli è stato assegnato il premio letterario Campiello per il romanzo “Il Selvaggio di Santa Venere”, alla gente del suo paese di esprimergli un augurio, un semplice gesto capace di testimoniare l’orgoglio nei confronti del “compaesano” riconosciuto ancora una volta scrittore valente, testimone e prodotto di una terra sì periferica e marginale , ma che, grazie anche ai suoi libri, poteva cominciare anch’essa il suo viaggio verso la cultura e dunque verso quel riscatto socio- culturale agognato da secoli.
Lettera a Giuseppe Melina (S.Agata, 16.03.1920-14.09.2001)
Lettera a Giuseppe Melina
(che per tutta la vita ha percorso la strada impetuosa dell’arte)
Il tempo ha perduto le ore. Verrà il
giorno. Entrerò nel cielo da una bassa porta. Sarò nella resurrezione con flauti e leggerò la vicenda-romanzo.
La grazia della zagara chiuderà l’onda breve della vita. E noi ( io, te amico lettore e tutti i convocati) ci allontaneremo dal disordine delle immagini e resteremo parola.
Resto solamente tempo. Lo spazio sarà cancellato dal sorriso di Dio.
(Francesco Grisi)
Caro amico,
fortuna che hai deciso di lasciare il mondo terreno in un tempo che ti ha impedito di assistere alle scene crudeli dell’11 settembre scorso, data da segnare per sempre nel calendario negativo della storia umana, perché, tutti dicono, rappresenta una svolta epocale nei rapporti tra gli uomini e le “diverse”, non necessariamente contrapposte, realtà di cultura.
La follia omicida ha voluto inaugurare alla grande il nuovo millennio e tocca combattere il terrorismo con tutti i rischi che la cosa comporta: incertezza di poterlo fare in tempi brevi e definitivamente, alto rischio di provocare la morte di civili innocenti.
Hai sempre detto, specie negli ultimi anni della tua feconda solitudine, che questo mondo non t’apparteneva, perché troppo legato alle ferree leggi dell’economia, proteso a cancellare le tracce di qualsiasi umanesimo, ormai preda di una tecnologia mistificatrice dei valori veri.
Non eri un rivendicativo, però, non lo eri da tempo.
T’infastidivano le lagnanze, le denunce allo Stato assente. Sapevi che il problema era l’uomo, la sua vocazione o meno a mutare il corso negativo della storia.
Davi potere ad ogni singolo uomo, non più massa, gregge belante, ma individuo in grado di guardare all’esistenza con occhio non più rassegnato.
Che tutto stava mutando in fretta, una fretta quasi parossistica, t’era chiaro da tempo, e ne soffrivi.
sabato 25 settembre 2010
INVICTUS
INVICTUS
Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l'indomabile anima mia.
Nella feroce morsa delle circostanze
non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’orrore delle ombre
eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io Sono il signore del mio destino:
Io Sono il capitano della mia anima.
Invictus di William Ernest Henley
venerdì 24 settembre 2010
MASCHERE
MASCHERE
Gli atleti del successo
a tutti i costi s’alzano
di primo mattino,
gonfiano i muscoli del petto
come a darsi un contegno e,
quasi fosse cosa normale,
indossano una delle tante
maschere custodite
nei loro capienti armadi.
(Vincenzo Stranieri)
giovedì 23 settembre 2010
Intervista a Vincenzo Stranieri
lunedì 20 settembre 2010
Rocco Piteri (Caraffa del Bianco, 1913- 2003), contadino-soldato sul fronte russo
Rocco Piteri, contadino, ha partecipato alla seconda guerra mondiale combattendo duramente sul fronte russo. A 29 anni, nel settembre del 1942, dopo un viaggio lungo e inenarrabile, giunse nel luogo prestabilito. Qui partecipò alla definizione di un ospedale da campo che di già ospitava molti commilitoni feriti e/o con degli arti assiderati. Uno spettacolo terribile, che avrebbe accompagnato il Nostro per tutta la vita. Dopo tre lunghi anni di guerra, dove rischiò più volte la vita, fece finalmente ritorno nella sua amata Caraffa dove, poco tempo dopo, si sposò con Maria Cavallaro che gli diede due figlie, Maria Teresa e Angela.
1943, fronte russo. Rocco Piteri soldato a cavallo. |
Caraffa del Bianco, 31 marzo 1940, data rilascio carta d'identità a Piteri Rocco, a firma del Podestà Rocco Mezzatesta. |
Caraffa del Bianco, maggio 1993. Rocco Piteri in groppa al suo asino. |
domenica 19 settembre 2010
venerdì 17 settembre 2010
lunedì 13 settembre 2010
APPELLO GENERAZIONALE
Quello che chiedo a tutti, specialmente alla mia/nostra generazione, è di non tradire la nostra infanzia, di custodirla come un dono prezioso e di pensarci ancòra "cotraregli" con nel cuore la voglia di dare al prossimo il meglio di noi stessi. Io vi porto tutti nel cuore, e, quando la solitudine m'inquieta più del dovuto, percorro le nostre "rughe" silenziose dove neanche i cani latrano, le finestre sono sbarrate e ognuno é in attesa del giorno. In quei momenti ritorno bambino e assieme a tutti voi ripercorro festoso le vie popolate della nostra infanzia.Amo la mia/nostra terra perché mi protegge dall'urbanesimo forzato, mi offre serenamente tutta la sua storia antropologica.
mercoledì 8 settembre 2010
ANTONIO IOFRIDA (Caraffa, 6 giugno 1900- 14 aprile 1959), Massaro.
Figlio di Bruno Iofrida (massaro) e di Marrapodi Giulia, Antonio, unitamente al padre e ai suoi fratelli, cominciò da bambino la sua vita di pastore. La sua era una famiglia che tradizionalmente viveva grazie a tale mestiere, ma al piccolo Antonio tale sorte non garbava, avrebbe voluto studiare, progredire sul piano sociale. E a fatica, mentre badava alle bestie, riuscì a imparare a leggere a scrivere. Ma la vita agreste fu presto interrotta dalla chiamata alle armi (aveva compiuto da poco 18 anni!). La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale fu un’esperienza che lo segnò tantissimo, ma almeno era tornato vivo in Calabria, cosa, purtroppo, che non riuscì a suo fratello Giuseppe, morto a vent’anni sulle montagne del Carso.
Antonio Iofrida prese moglie nel 1930, la sposa, Teresa Viglianti, figlia di massaru Giuseppe Viglianti, gli diede cinque figli (Giulia. Bruno, Giuseppe, Elisabetta e Maria.). Nel 1940 tentò la fortuna in Germania, ma capì che era meglio pascolare le pecore piuttosto che stare in miniera a spalare carbone, e tornò a Caraffa dopo appena un anno. All’apice della sua carriera, riuscì ad avere una mandria alquanto numerosa (circa 800 lattare tra pecore e capre). Ancora oggi è ricordato per la sua onestà e il buon senso adoperato nel corso della spartizione dei prodotti.
ANTONIO IOFRIDA (Caraffa, 6 giugno 1900- 14 aprile 1959), Massaro. |
1918!. Soldati in posa. Il primo, seduto in basso a sinistra, è Antonio Iofrida. |
Giuseppe Iofrida,(1896-1917), pastore, morto nel corso della Prima Guerra Mondiale. |
sabato 31 luglio 2010
Solidarietà all'editore Mimmo Garreffa
Bruciare libri è forse il nuovo “sport” di quanti, nella locride, non amano la parola scritta, la forza della sua azione culturale. Solo così è possibile dare una spiegazione “plausibile” all’attentato di venerdì scorso ai danni della neo-sede della tipolitografia di Mimmo Garreffa sita in Ardore Marina. Cumuli di libri anneriti dal fuoco, un odore acre e soffocante che - senza per questo voler fare paragoni esagerati - rimandano alle tragiche immagini della mai dimenticata propaganda nazifascista. Mimmo Garreffa, architetto, è tornato da Torino circa 25 anni or sono col preciso intento di contribuire alla crescita socio-culturale del nostro territorio. La sua piccola tipolitografia ha saputo nel tempo diventare anche un piccola casa editrice con al suo attivo circa 300 titoli, molti dei quali inerenti il recupero concreto della nostra memoria storica.
A Mimmo Garreffa e ai suoi collaboratori va la nostra solidarietà e il nostro affetto più cari per il vile attentato subito, con l’augurio che nuovi libri e nuove idee possano trovare collocazione e sostegno nelle iniziative future che di certo il nostro amico ricomincerà a produrre con lo stesso entusiasmo di prima.
Mimmo Garreffa e Vincenzo Stranieri |
giovedì 3 giugno 2010
mercoledì 19 maggio 2010
Fiera del libro a Marina di Gioiosa Ionica 21-22 maggio 2010
Marina di Gioiosa Jonica (RC): I fiera dell'editoria reggina |
Lunedì 17 Maggio 2010 18:18 |
Il Sindaco del Comune di Marina di Gioiosa Jonica, prof. Rocco Femia, invita gli appassionati della lettura alla 1° fiera dell'editoria reggina, che si svolgerà presso la Biblioteca Comunale “Pellicano Castagna” venerdì 21 e sabato 22 maggio 2010. La manifestazione si pregia della collaborazione del Sistema Bibliotecario Territoriale Ionico di Bovalino, degli Editori della Provincia di Reggio Calabria, nonché delle Biblioteche Comunali di Bovalino, Gioiosa Jonica, Caulonia, Marina di Gioiosa Jonica, Gerace, Bivongi e Monasterace. Venerdì 21 maggio è prevista la presentazione del libro Miti e leggende della Magna Grecia di Gaudio Incorpora; sabato 22 maggio sarà la volta di La koinè agropastorale nella Locride di Vincenzo Stranieri. L'Amministrazione Femia rivolge grande attenzione alla cultura locale, aprendo le porte delle manifestazioni locali ad un pubblico vasto e variegato. Il Sindaco Prof. Rocco Femia |
lunedì 5 aprile 2010
LA KOINE' AGRO-PASTORALE NELLA LOCRIDE (Massari e pastori tra medioevo e modernità)
Intervista a Vincenzo Stranieri di Francesco Ardino
la Riviera DOMENICA 14 MARZO 2010
Com’è nata l’idea di questa corposa ricerca storco-antropologica?
L’idea è maturata circa dieci anni or sono, quando cominciai a partecipare alle iniziative del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Università della Calabria diretto dal Prof. Vito Teti,.
Cosa significa Koine’?
E’ un termine mutuato dall’antico dialetto greco, risale addirittura al periodo pre-ellenico. Significa mondo, universo, cultura. Pertanto, risulta adatto per definire le forme di un popolo e/o di una comunità. Mi è stato suggerito da un mio caro amico, Enzo Bartolo.
Ho notato che i pastori della Vallata La Verde - che nel libro trova ampio spazio, quasi ad essere elemento guida della sua ricerca antropologica,- si spostavano, specie quando l’erba era scarsa, dai luoghi montani verso la pianura. Dove, precisamente?
Anche per pastori della Locride la transumanza era un evento faticoso; pertanto, quando scarseggiava l’erba, erano costretti a trasferire i loro greggi presso i verdi pascoli di Marasà e Centocamere, poco lontano da Locri. Non le distanze percorse dai pastori d’Abruzzo, ma pur sempre uno sradicamento dai luoghi d’origine.
Nella premessa, lei accenna a curiosità e pregiudizi inerenti i pastori. Vuole meglio spiegarci di cosa si tratta?
Sui pastori vigevano tutta una serie di curiosità e racconti popolari a sfondo magico. Avendo modo di frequentare boschi e luoghi isolati, s’era affermato tra la gente dei villaggi vicini il convincimento che fossero depositari di eventi magici. Un albero, una caverna, un dirupo, un cespuglio, un elemento materiale significavano misteriose alchimie, riti maligni. Da qui tutto quel repertorio classico di folletti, ninfe, spiriti vari che, per la gente comune, riguardava la vita dei pastori, la loro natura aspra e selvaggia, il loro coraggio di vivere isolati e lontani dalle famiglie nei lunghi mesi invernali della transumanza, dormendo in ricoveri poco confortevoli, inadatti a ripararli dalle intemperie, specie quando le piogge cadevano ininterrottamente anche per diversi giorni.
Lei, unitamente al Prof. Teti, nel libro, sottolinea non poco ll ruolo rivestito dai cultori locali. Vuole spiegarsi meglio?
Negli ultimi anni ho più volte avuto modo di verificare il ruolo per nulla secondario svolto dai cosiddetti cultori locali, che, senza clamore, “soffiano” sulla polvere della storia secolare dei nostri luoghi. Sono dei ricercatori in proprio che lavorano al di fuori dell’ambito universitario, e, spesso, nella più completa solitudine. In zona, per fortuna, il loro numero é in aumento. E ciò rappresenta un motivo di speranza. . Quando Corrado Alvaro scrive in “Gente in Aspromonte”: “ E’ una civiltà che scompare, e su di essa non bisogna piangere, ma trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”, intende appunto sollecitare il recupero di quella coscienza storicamemoria antropologica di una comunità – Vito Teti lo spiega molto bene nell’introduzione al libro- senza la quale tutti gli avvenimenti perirebbero nel nulla. Conservare la vuol dire scolpire l’uomo nel suo lungo viaggio verso la conoscenza, contribuire alla conoscenza di una civiltà millenaria che chiede, con diritto, una sua legittimazione storica.
Ma la pastorizia era realmente redditizia?
La pastorizia, nonostante tutto, è stata un importante strumento economico per la crescita delle comunità in cui veniva praticata, rappresentando quasi sempre una fonte di reddito certa.
Nel libro vi è un lungo capitolo relativo alla vocazione poetica dei massari e dei pastori della Vallata La Verde. Di cosa si tratta?
E’ vero la Vallata La Verde presenta significative peculiarità:. Un discreto numero di massari e pastori è cattolico praticante, e, cosa non certo secondaria, compone, pur se analfabeta, versi dialettali di notevole tensione lirica. Ho rintracciato quattro pastori/poeti e quattro contadini/poeti, tra cui una donna.
Per finire, cosa ha inteso affermare con la sua ricerca storico-antropologica?
Non ho di certo inteso proporre improbabili ritorni a saperi ormai estinti. Ho cercato, invece, di rileggerli per inserirli in nuove forme di saperi locali che non taglino i ponti col passato. Oggi dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la bellezza della nostra regione non sempre ottengono risposte/proposte concrete presso i nuovi ceti sociali e politici.
la Riviera DOMENICA 14 MARZO 2010
Com’è nata l’idea di questa corposa ricerca storco-antropologica?
L’idea è maturata circa dieci anni or sono, quando cominciai a partecipare alle iniziative del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Università della Calabria diretto dal Prof. Vito Teti,.
Cosa significa Koine’?
E’ un termine mutuato dall’antico dialetto greco, risale addirittura al periodo pre-ellenico. Significa mondo, universo, cultura. Pertanto, risulta adatto per definire le forme di un popolo e/o di una comunità. Mi è stato suggerito da un mio caro amico, Enzo Bartolo.
Ho notato che i pastori della Vallata La Verde - che nel libro trova ampio spazio, quasi ad essere elemento guida della sua ricerca antropologica,- si spostavano, specie quando l’erba era scarsa, dai luoghi montani verso la pianura. Dove, precisamente?
Anche per pastori della Locride la transumanza era un evento faticoso; pertanto, quando scarseggiava l’erba, erano costretti a trasferire i loro greggi presso i verdi pascoli di Marasà e Centocamere, poco lontano da Locri. Non le distanze percorse dai pastori d’Abruzzo, ma pur sempre uno sradicamento dai luoghi d’origine.
Nella premessa, lei accenna a curiosità e pregiudizi inerenti i pastori. Vuole meglio spiegarci di cosa si tratta?
Sui pastori vigevano tutta una serie di curiosità e racconti popolari a sfondo magico. Avendo modo di frequentare boschi e luoghi isolati, s’era affermato tra la gente dei villaggi vicini il convincimento che fossero depositari di eventi magici. Un albero, una caverna, un dirupo, un cespuglio, un elemento materiale significavano misteriose alchimie, riti maligni. Da qui tutto quel repertorio classico di folletti, ninfe, spiriti vari che, per la gente comune, riguardava la vita dei pastori, la loro natura aspra e selvaggia, il loro coraggio di vivere isolati e lontani dalle famiglie nei lunghi mesi invernali della transumanza, dormendo in ricoveri poco confortevoli, inadatti a ripararli dalle intemperie, specie quando le piogge cadevano ininterrottamente anche per diversi giorni.
Lei, unitamente al Prof. Teti, nel libro, sottolinea non poco ll ruolo rivestito dai cultori locali. Vuole spiegarsi meglio?
Negli ultimi anni ho più volte avuto modo di verificare il ruolo per nulla secondario svolto dai cosiddetti cultori locali, che, senza clamore, “soffiano” sulla polvere della storia secolare dei nostri luoghi. Sono dei ricercatori in proprio che lavorano al di fuori dell’ambito universitario, e, spesso, nella più completa solitudine. In zona, per fortuna, il loro numero é in aumento. E ciò rappresenta un motivo di speranza. . Quando Corrado Alvaro scrive in “Gente in Aspromonte”: “ E’ una civiltà che scompare, e su di essa non bisogna piangere, ma trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”, intende appunto sollecitare il recupero di quella coscienza storicamemoria antropologica di una comunità – Vito Teti lo spiega molto bene nell’introduzione al libro- senza la quale tutti gli avvenimenti perirebbero nel nulla. Conservare la vuol dire scolpire l’uomo nel suo lungo viaggio verso la conoscenza, contribuire alla conoscenza di una civiltà millenaria che chiede, con diritto, una sua legittimazione storica.
Ma la pastorizia era realmente redditizia?
La pastorizia, nonostante tutto, è stata un importante strumento economico per la crescita delle comunità in cui veniva praticata, rappresentando quasi sempre una fonte di reddito certa.
Nel libro vi è un lungo capitolo relativo alla vocazione poetica dei massari e dei pastori della Vallata La Verde. Di cosa si tratta?
E’ vero la Vallata La Verde presenta significative peculiarità:. Un discreto numero di massari e pastori è cattolico praticante, e, cosa non certo secondaria, compone, pur se analfabeta, versi dialettali di notevole tensione lirica. Ho rintracciato quattro pastori/poeti e quattro contadini/poeti, tra cui una donna.
Per finire, cosa ha inteso affermare con la sua ricerca storico-antropologica?
Non ho di certo inteso proporre improbabili ritorni a saperi ormai estinti. Ho cercato, invece, di rileggerli per inserirli in nuove forme di saperi locali che non taglino i ponti col passato. Oggi dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la bellezza della nostra regione non sempre ottengono risposte/proposte concrete presso i nuovi ceti sociali e politici.
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